giovedì 29 marzo 2012

Ezra Pound

«Se un uomo non è disposto a correre dei rischi per le sue idee, vuol dire che le sue idee non valgono nulla o che non vale nulla lui».
Me lo disse per la prima volta l’onorevole Beppe Niccolai dopo un rischioso comizio tenuto da Marco Cellai in piazza San Michele a Lucca verso la metà degli anni ’70. Assaltati a più riprese da una democratica massa di estremisti di sinistra, che era intervenuta a Lucca da mezza Toscana per impedire alla destra di parlare, se la polizia che ci difendeva avesse ceduto, per noi sarebbe stata la fine.
«Non sono parole mie -aggiunse Niccolai- ma di Ezra Pound, il grande autore dei Canti Pisani».
«Di chi?», chiesi io, che non lo avevo mai sentito nominare e non avevo neanche ben compreso quel nome straniero.
Beppe Niccolai mi guardò con estrema severità, rimproverandomi aspramente con gli occhi per quella mia ignoranza e, senza dubbio perché deluso e adirato, non mi rispose.
Capii allora che per uno di destra era una mancanza che doveva essere colmata.
Domandai ad un amico professore e questi, non appena gli feci il nome alquanto storpiato di Ezra Pound, mi ridisse la frase di Niccolai, che era dunque conosciuta, ma non volle, o forse non seppe, dirmi altro.
Mi segnai comunque la frase. Mi piacque, la feci mia, cercai di metterla in pratica ed ora sono certo che mi ha fortemente condizionato, forse per l’intera vita.

Qualche anno più tardi trovai su una rivista di destra alcuni dei suoi famosi aforismi, ma il primo libro che mi è capitato fra le mani è stato quello di Giano Accame pubblicato nel 1995 col titolo "Ezra Pound economista – contro l’usura". Un ottimo libro, molto chiaro. Lo lessi nel giro di un paio di giorni e presi anche degli appunti, che mi piace riproporre.
Il grande poeta dei "Cantos" non beveva, non fumava e vestiva come gli capitava; non aveva automobile, spendeva poco, non ebbe mai debiti, né problemi personali con gli usurai. L’avversione all’usura fu quindi disinteressata, tutta concettuale.
Ha fatto della sua opera e della sua vita una crociata contro l’usura, definita nei "Cantos" la bestia centipede che soffoca il figlio nel ventre.
Si prodigava molto per i suoi amici artisti. Scrisse Hemingway: «Ezra Pound dedica un quinto del suo tempo lavorativo a scrivere poesie. Nel tempo restante cerca di promuovere il futuro, sia materiale che artistico, dei suoi amici».
Sposato con Dorothy, amava anche la musicista Olga Rudge, dalla quale ebbe un figlio. E la moglie lo ricambiò andando in Egitto e rimanendo a sua volta incinta con un altro.
Nella sua poesia irrompe l’economia. Nei "Cantos" l’economia occupa la parte che nella "Divina Commedia" di Dante è quella del sapere teologico. Si sentiva un riformista economico. E quando venne in Italia, la nazione in cui si è trovato meglio, le sue simpatie per Mussolini erano soprattutto in funzione di farsi accettare come tale.
Voleva che la sovranità economica fosse nelle mani dei popoli e non dei mercanti di denaro.
Fu tra i primi a sostenere che bisognava lavorare meno per lavorare tutti. «Tecnici di buon senso e uomini saggi -sosteneva Pound nel suo ABC of economics- ci assicurano che la questione della produzione è risolta. L’apparato produttivo mondiale può produrre tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno. Non c’è la minima ragione di dubitarne. Con l’aumento dell’efficienza meccanica, la produzione di cui si è ora parlato richiederà sempre meno tempo e fatica umana. In una sana economia questa fatica, per varie ragioni, dovrebbe essere distribuita fra una quantità molto considerevole di persone... Lascia lavorare l’uomo quattro ore per la paga o, se lui desidera lavorare ancora, lascialo lavorare come ogni artista o poeta, lasciagli abbellire la casa o il giardino o allungare le gambe in qualche forma di esercizio o piegare la schiena su un tavolo da gioco e star seduto sul suo sedere e fumare... Lo so, non dalla teoria ma dalla pratica, che potete vivere infinitamente meglio con pochissimi soldi ed un mucchio di tempo libero anziché con più soldi e meno tempo. Tempo non è denaro, ma è quasi tutto il resto».
Simpatizzante del fascismo, non era fascista (non si iscrisse mai né al partito né ad organizzazioni collaterali) e non era anticomunista. Nel 1931 dichiarò: «Il partito comunista in Russia e il partito fascista in Italia sono degli esempi di una aristocrazia attiva. Vi sono i migliori elementi, pragmatici, coscienti, gli elementi più riflessivi e volitivi delle loro nazioni».
E faceva spesso paragoni positivi tra Mussolini e Lenin, più libero quest’ultimo perché «non aveva il Vaticano nel suo giardino», pensando che le due rivoluzioni del secolo (bolscevica e fascista) dovessero essere intercomunicanti. La stessa cosa provò anche il suo amico Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo.
Scambiò il fascismo per un sistema di libertà perché in Italia ci stava bene e, dopo aver provato l’intolleranza americana (era stato buttato fuori dall’università per aver ospitato una notte, pare anche innocentemente, un’attricetta squattrinata che non sapeva dove andare a dormire), ci si sentiva più libero. Era un pacifista, un non violento, e non gli piacevano le divise.
Fu l’unico poeta ammesso alla Bocconi, la più importante università commerciale, a tenere un ciclo di conferenze sull’economia.
Ma i suoi progetti di riorganizzazione economica nazionale ed internazionale furono liquidati dalla segreteria del Duce con note ad uso interno come questa: si tratta di un progetto strampalato concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di ogni senso della realtà. Qualcuno ha detto: «Pound non ha capito il fascismo e il fascismo non ha capito Pound».
Alla nascita della Repubblica Sociale Italiana, si entusiasmò per i 18 punti di Verona del Partito Fascista Repubblicano e sperò che, dopo la socializzazione delle imprese, Mussolini accettasse anche i suoi princìpi di riforma economica e confuciana. Si definì fascista di sinistra e nei cantos 72 e 73 esalta gli ideali, pur cominciando con le parole guerra di merda. Nel canto 72 molto bello e intenso l’incontro di tipo dantesco con lo spirito di Marinetti, morto il 2 dicembre 1944.
Nella rivista "Italia e Civiltà" si leggeva: «Sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compagni, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il loro nemico». Era anche il pensiero di Ezra Pound.
«Questa guerra non fu cagionata da un capriccio di Mussolini né di Hitler. Questa guerra -sostenne Ezra Pound- fa parte della guerra millenaria tra usurai e contadini, fra l’usurocrazia e chiunque fa una giornata di lavoro onesto con le braccia o con l’intelletto».
«Per questa affermazione -scrive Giano Accame- finì in manicomio».
Accusato di tradimento dagli USA già nel luglio 1943, fu arrestato il 3 maggio del 1945 e portato a Pisa presso il Disciplinary Training Center, dove fu rinchiuso in una gabbia per gorilla e trattato peggio di una bestia per tre settimane. Dovette combattere contro se stesso per non impazzire. Il 18 novembre, dopo aver scritto in infermeria i "Canti Pisani", che sono il meglio della sua opera poetica, fu trasferito in America dove, senza processo, fu dichiarato infermo di mente e chiuso per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeths.
Nel marzo del 1949 Eugenio Montale lo presentò ai lettori italiani con un articolo sul "Corriere della Sera" intitolato "Fronde d’alloro in un manicomio". «Poesie di un pazzo? -scrisse Montale a proposito dei "Cantos"- Nemmeno per sogno, a meno che non si vogliano considerare come pazzi i tre quarti degli scrittori d’avanguardia contemporanei. L’opinione corrente è che Ezra sia stato considerato pazzo per salvarlo dal carcere perpetuo o dalla pena di morte».
Molte personalità americane e molti altri scrittori e poeti italiani, tra cui Giovanni Papini, Riccardo Bacchelli, Piero Bigongiari, Giorgio Caproni, Libero de Libero, Carlo Bo, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Alberto Moravia, Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Alessandro Parronchi, Clemente Rebora, Umberto Saba, Ignazio Silone, Giuseppe Ungaretti e Cesare Zavattini, chiesero a più riprese la sua liberazione. La stessa cosa fece anche José V. de Pina Martins da Radio Vaticana.
Uscì dal manicomio il 7 maggio 1958 e si imbarcò per l’Italia con la moglie Dorothy e l’amica Marcella. All’arrivo fece il saluto romano e disse che l’America era tutta un manicomio.
È morto il 1° novembre del 1972, quando io avevo già 22 anni. Avrei potuto incontrarlo e parlarci!
Domenico Riccio

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