martedì 21 gennaio 2014

IL “TEOREMA” DI PASOLINI LO STIAMO VIVENDO TUTTI



DI PEPE ESCOBAR
asiatimes.com



BOLOGNA –  Nelle prime ore del mattino del 2 Novembre del 1975, all’Idroscalo, squallida borgata alla periferia di Ostia, fuori Roma, fu ritrovato il corpo martoriato e schiacciato dalla sua stessa Alfa Romeo, di Pier Paolo Pasolini, intellettuale e regista di grande rilievo degli degli anni ‘60 e ’70.

Era difficile da immaginare in quel momento un connubio più sconcertante e straziante di tragedia greca e iconografia rinascimentale, su uno sfondo che sembrava uno dei set dei suoi stessi film, con l’autore immolato proprio come il personaggio principale di Mamma Roma (1962), in prigione, steso per terra alla maniera del Cristo Morto – Lamentazioni di Cristo di Andrea Mantegna.


Sembrava una storia tra omosessuali finita male: il ragazzo diciassettenne fu accusato di omicidio, ma venne fuori che era anche legato ai neo-fascisti italiani. La realtà dei fatti non è mai venuta a galla. Quello che emerse fu che “la nuova Italia – o gli effetti della nuova rivoluzione capitalista – aveva ucciso Pasolini”.
“QUELLI DESTINATI A MORIRE”
Dopo la laurea in letteratura presa nel 1943 all’Università di Bologna – la più antica università italiana – Pasolini avrebbe potuto fare qualsiasi cosa.  Oggi, un Pasolini sarebbe praticamente impensabile. Sarebbe solo un UFIO (oggetto intellettuale volante non identificato); un intellettuale totale – poeta, drammaturgo, musicista, scrittore, sceneggiatore, teorico letterario, regista e analista politico.

Per gli italiani colti, era essenzialmente un poeta (e allora era un grande complimento, decenni fa…). Nel suo capolavoro – Le ceneri di Gramsci (1952 – Pasolini tracciò un formidabile parallelo, in termini di creazione di un ideale eroico – tra Gramsci e Shelley – anche lui casualmente sepolto nel Cimitero di Roma. In un certo senso, una giustizia poetica.

Fu facile, poi, il passaggio dalla parola all’immagine. Il giovane Martin Scorsese restò folgorato la prima volta che vide “Accattone” (1961), per non parlare del giovane Bernardo Bertolucci, che visse tutto in prima linea, sul campo, essendo stato uno cameramen di Pasolini stesso.   Quindi, lo possiamo dire: senza Pasolini probabilmente non ci sarebbe stato nessun Scorsese, o nessun Bertolucci, né un Fassbinder o un Abel Ferrara e numerosi altri.

E soprattutto oggi, mentre ci si crogiola 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 in una volgare Fiera delle Vanità, è impossibile non condividere il metodo di Pasolini – che passa attraverso un’aspra critica della borghesia (come in Teorema e Porcile) alla ricerca di un rifugio nei classici (la sua fase della Tragedia Greca) e l’affascinante “Trilogia della Vita” medievale – gli adattamenti del Decamerone (1971), dei Racconti di Canterburi (1972) e Notti d’Arabia (1974).

Non fu quindi una sorpresa quando Pasolini decise di fuggire dalla corrotta e decadente Italia e andare a girare dei film nei paesi emergenti – dalla Cappadocia in Turchia per Medea allo Yemen per Notti d’Arabia. Più tardi Bertolucci avrebbe fatto lo stesso, girando in Marocco (Il tè nel deserto), in Nepal (per il suo epico Buddha) ed in Cina (L’Ultimo Imperatore, il suo trionfo a Hollywood).
E poi arrivarono i suoi inclassificabili Salò, o i 120 Giorni di Sodoma,  gli ultimi, strazianti e devastanti film che uscirono pochi mesi dopo il suo assassinio, vietati per anni in diversi paesi e spietati nell’estremizzare il fascismo italiano (e di altre culture occidentali).

Dal 1973 al 1975, Pasolini scrisse diversi articoli per il Corriere della Sera, quotidiano di Milano, pubblicati con il titolo di Scritti Corsari nel 1975, e poi le Lettere Luterane, postume, nel 1976.  Il loro tema centrale era “la mutazione antropologica” dell’Italia moderna, vista come un microcosmo di quasi tutto l’Occidente.

Appartengo a una generazione in cui moltissimi rimasero letteralmente folgorati e trafitti dal Pasolini dello schermo e della carta. In quegli anni, quegli scritti rano come dei Giochi di Ruolo intellettuali di un acutissimo (e terribilmente solo) intellettuale. Rileggendoli oggi, suonano più che profetici.


Nell’esaminare la dicotomia tra i ragazzi borghesi e quelli proletari – come il Nord contro ilSud dell’Italia – Pasolini incontrò un’ulteriore categoria, “difficile da descrivere” (perché nessuno la aveva mai fatto prima)  “e senza precedenti linguistici e terminologici”.  Erano quelli “destinati alla morte”. Uno di loro, infatti, poteva essere il suo killer all’Idroscalo.

Secondo Pasolini, la nuova “categoria” comprendeva quelli che fino agli anni ’50 sarebbero stati vittime della mortalità infantile.  La scienza era poi intervenuta e li aveva salvati dalla morte fisica. Erano quindi dei sopravvissuti “e nella vita sarebbero stati come degli esseri contro natura”.  Quindi, arguì Pasolini, diversamente dai figli che nascono oggi, “benedetti” a priori, quelli nati “in eccesso”  sono inesorabilmente “condannati”.

In breve, secondo Pasolini, avvertendo dentro di sè questo sentimento di non essere benvenuti, e sentendesi in colpa per questo, la nuova generazione era “infinitamente più fragile, brutale, triste, pallida e malata di tutte le generazioni precedenti”. Erano depressi e aggressivi. E “niente poteva fugare quell’ombra di sconosciuta anormalità che si proiettava costantemente nella loro vita”.   Ai nostri giorni, quest’interpretazione potrebbe essere facilmente applicata a quella gioventù Islamica alienata che da ogni paese si unisce alla Jihad.

Allo stesso tempo, secondo Pasolini, questa inconscia sensazione di condanna alimentava nei “destinati alla morte” un forte desiderio di normalità, “un’irrefrenabile bisogno di far parte del mucchio, la voglia di non apparire diverso o distinto”.  Mostravano quindi “come vivere il conformismo con aggressività”.  Insegnavano “la rinuncia”, una “tendenza all’infelicità”, la “retorica del brutto”, e la brutalità.  E i bruti diventavano i campioni della moda e del comportamento (e qui Pasolini anticipava il punk inglese della fine degli anni ’70).

I cosiddetti “vecchi razionalisti idealisti borghesi” andarono ben oltre queste riflessioni sul “non c’è futuro per te”. Pasolini, tra gli altri disastri, attribuì la responsabilità morale per la distruzione urbana dell’Italia, per il “degrado antropologico” degli italiani, per le vergognose condizioni degli ospedali, delle scuole e delle infrastrutture pubbliche, per l’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass media, e della “stupidità criminale” della televisione a coloro che governarono l’Italia dal 1945 al 1975, ovvero ai Cristiani Democratici filo-americani.

Configurò abilmente il “cinismo della nuova rivoluzione capitalista - la prima vera rivoluzione da parte della destra”.  Vale a dire, una rivoluzione che, come lui disse, “da un punto di vista antropologico – in termini di creazione di una nuova cultura – implica la presenza di uomini senza alcun legame con il passato, che vivono “l’imponderabilità”. Quindi, “l’unica loro possibile aspettativa esistenziale è il consumismo e la soddisfazione dei loro impulsi edonistici”.   In queste definizioni ritroviamo la brillante critica di Guy Debord nella “Società dello Spettacolo” degli anni ’60 estesa fino all’oscuro orizzonte culturale da “fine di un sogno” degli anni ’70.

A quel tempo. Questa era roba radioattiva. Pasolini non si risparmiò nella sua critica: se il consumismo aveva tirato fuori l’Italia dalla povertà “gratificandola con il benessere” ed una certa cultura “impopolare”, l’umiliante risultato fu ottenuto “mimando la piccola borghesia, una stupida scuola dell’obbligo e una televisione criminale”.  Pasolini considerava la borghesia italiana “la più ignorante d’Europa” (beh, si sbagliava: il primo premio andava a quella Spagnola…).       Nacque un nuovo modo di produrre cultura “generandola sulle ceneri delle culture precedenti”, ed  una nuova specie borghese. Se solo Pasolini fosse sopravvissuto per vederla ora in tutto il suo splendore, la specie Homo Berlusconis.
LA GRANDE BELLEZZA NON C’È PIÙ

Il consumistico cuore di tenebra – “L’orrore, l’orrore” – profetizzato e descritto da Pasolini già alla metà degli anni ’70 – è stato rappresentato in tutta la sua volgarità dal regista italiano napoletano, Paolo Sorrentino, nato quando Pasolini, per non dire Fellini, erano già all’apice delle loro carriere. La Grande Bellezza ("The Great Beauty") – che ha appena vinto il Golden Globes come migliore film straniero e che potrebbe persino vincere l’Oscar – sarebbe inconcepibile e incomprensibile senza La Dolce Vita di Fellini (di cui è un sequel non riconosciuto) e senza la critica Pasoliniana alla “nuova Italia”.

Pasolini e Fellini, tra l’altro, provenivano da una favolosa tradizione intellettuale dell’Emilia-Romagna (Pasolini da Bologna, Fellini da Rimini e Bertolucci di Parma).  Nei primi anni ’60, Fellini diceva all’amico e allora “apprendista” Pasolini, che non si sentiva pronto per la critica. Fellini era e rimaneva pura emozione, mentre Pasolini -  e Bertolucci – erano emozione modulata dall’intelletto.

Il sorprendente film di Sorrentino – una corsa selvaggia tra le ramificazioni dell’Italia Berlusconiana – è una Dolce Vita diventata amarissima. Come non immedesimarsi in Marcello (Mastroianni), qui un sessantacinquenne (interpretato da un fantastico Toni Servillo), che soffre di blocco dell’artista, mentre continua a tenere alto il suo ruolo di re della vita notturna romana.  Come profetizzò anche il grande Ezra Pound – che amava profondamente l’Italia  - siamo stati sopraffatti da una pacchiana volgarità – quello che ci ha traghettato verso l’insulsaggine Berlusconiana, dove – secondo uno dei personaggi del film – “nessuno pensa più alla cultura e all’arte” e dove quella che prima era la più grande civiltà del passato rischia ora di essere ricordata per “la moda” e “la pizza”.
E’ quello che Pasolini ci stava dicendo quattro decenni fa – prima che una funesta e cruenta manifestazione proprio di quella volgarità di cui parlava, lo mettesse a tacere per sempre. La sua morte, alla fine, è stata la prova – avant la lettre – del suo teorema; aveva sempre avuto ragione, sfortunatamente.


Pepe Escobar  è autore di Globalistan: How the Globalized World is Dissolving into Liquid War (Nimble Books, 2007), Red Zone Blues: a snapshot of Baghdad during the surge (Nimble Books, 2007), e di Obama does Globalistan (Nimble Books, 2009). 

Lo si può raggiungere via mail a questo indirizzo:  pepeasia@yahoo.com

Fonte: www.atimes.com/

giovedì 16 gennaio 2014

EQUITALIA : UNA TRUFFA CHE VA OLTRE OGNI LIMITE...


Perché Attilio Befera continua imperterrito la sua funzione di responsabile nº 1 di Equitalia ?
Per chi noin lo sapesse , questo signore con la puzza sotto il naso , antipatico e malato di protagonismo ha dato prova indiscutibile della sua incapacitá gestionale .
Dal 2010 al 2012 Equitalia avrebbe accumulato un debito pari a 40(dico 40) milioni di euro in perdite, mentre impiega 8000 dipendenti per un ammontare di stipendi di 500 milioni...i romani direbbero : li mortacci...
Se si considera la vicenda giudiziaria di quel Paolo Oliverio , fiscalista degli intoccabili , coinvolto nello scandalo dei controlli pilotati , ci si chiede come sia possibile che le persone oneste subiscano da Equitalia ogni genere di angherie...ci si chiede se non sia davvero arrivato il tempo della "SOLUZIONE FINALE" , cioé l'azione popolare necessaria per liberarci da una ingiusta oppressione e dalle fauci insaziabili del cinico Befera , dal cognome che sembra un insulto .
Quanti si sono suicidati a causa delle cartelle esattoriali di Equitalia, cartelle che non lasciavano scampo ?
Quanti dovranno ancora morire per fare da pannello solare ad una casta politica costruita sull'inganno , sulla corruzione , sui rapporti illeciti , sui privilegi , sulla collusione con la malavita organizzata ?
Che cosa sta facendo il governo Letta al proposito ?, che cosa sta facendo quel bellimbusto di Renzi , venuto fuori dall'uovo di pasqua a sorpresa ed ora gonfio di superbia per la vittoria ottenuta alle primarie del PD ?
Sembra una specie di visitor costruito dai marziani , un impeccabile professionista della politica che si intende di ogni cosa , persino di come si lavora all'uncinetto...detta condizioni , propone interventi , suggerisce stralci di riforme , distribuisce rimproveri a destra e a sinistra , come fosse il capo di un Paese che non é l'Italia , che gli somiglia soltanto , un Paese dove non c'é maggioranza e opposizione , perché lui é entrambe le cose , un Paese dove non esiste il Parlamento , perché lui é il parlamento...dialoga con Letta a cui impone le scelte (giuste o sbagliate che siano) e dall'altra parte cerca il dialogo con Berlusconi...ma non é tutto ; ció che dovrebbe lasciarci perplessi é come sia possibile che l'Europa intera guardi a Renzi come fosse il chirurgo capace di estirpare il cancro dell'economia globalizzata , la stella cometa dell'universo che ci indica la strada per arrivare a Gesú .
Ma il ragazzo prodigio su Equitalia non mette lingua...tace , come di solito fanno i collaborazionisti in tempo di guerra , sicché Befera , il gran maestro della rapina , rimane lí alla facciazza nostra per bacchettarci a sangue .
La magistratura intanto é latitante, nicchia , non prende posizione , non avvia nessuna indagine , anzi , il filone Mokbel/Phuncard é stato chiuso in un attimo , nemmeno il tempo di farci riflettere sopra.
Di che trattava tale filone ? guarda caso di soggetti privi di incarico in Equitalia o in altre societá controllate dall'ente stesso che svolgevano attivitá di mediazione illegale in combutta con alcuni dipendenti .
C'é stato chi ha posto la fatale domanda alla Cancellieri sul motivo di questi silenzi sospetti , sapete qual'é stata la sua risposta in sintesi: che non c'erano motivi di indignazione o di preoccupazione , in sostanza tutto OK , "tutto va bene madama la marchesa" , non c'era ragione di scaldarsi tanto...giá , perché chi paga nel frattempo siamo noi!!!

Tratto da: http://www.midochiattone.blogspot.it

mercoledì 15 gennaio 2014

Intervista a J. L. Borges


LE VERE EVASIONI FISCALI, DATI ALLA MANO

"Evasione fiscale IN CIFRE (e non in percentuali fuorvianti) in Italia:
1) L'economia criminale (mafia e malavita): 78,2 miliardi di euro l'anno.
2) Big company (le grandi aziende): 38 miliardi di euro l'anno.
3) L'economia sommersa (extracomunitari e doppio lavoro): 34,3 miliardi di euro l'anno.
4) Le società di capitali (spa e srl): 22,4 miliardi di euro l'anno.
5) Autonomi e piccole imprese (idraulico e parrucchiera): 8,2 miliardi di euro l'anno.

Se si riuscisse a far pagare le tasse a tutti ma proprio TUTTI i "piccoli", si recupererebbe neanche il 5% del totale nazionale!

E con appena un paio di big company "acciuffate" faremmo pari con tutti gli sfigatissimi artigiani d'Italia, tanto odiati e insultati da tutti.


1)Rimborsi Elettorali (nonostante il referendum) :
Da considerare che anche i non eletti ricevono un particolare rimborso elettorale, anche se non si ha nessun parlamentare o consigliere eletto.
Perché le soglie di sbarramento valgono per la rappresentanza, non per il denaro pubblico. In questo caso, trattandosi di soldi pubblici, vige il sistema proporzionale.
in Italia sono molto più del doppio della media europea (un esempio : 3,5 euro a voto da noi e 0,85 in Germania).
Risparmio oltre 150 milioni anno !
2) Spese di affitto degli immobili della Camera che rende sempre più ricco l’imprenditore Sergio Scarpellini (proprietario della società unica titolare della decina dei immobili affittati da Montecitorio, ndr). Che ha ricevuto negli anni ( in affitti ), più del doppio del valore degli immobili.
Risparmio 54 milioni anno !
3)Auto Blu, oltre 600.000 in Italia per un costo di oltre 21 miliardi, una media di 60.000 in Europa e 70.000 in Aamerica.
Risparmio 19 miliardi anno !
4)Per i 630 deputati italiani l'indennità parlamentare è di 11.703,64 euro.
Aggiungi alcuni benefit in euro :
rimborsi per le telefonate (258 euro),
spese informatiche (2.500 euro),
soggiorno a Roma ( più di 4.000 euro).
risarcimento per i trasferimenti in aeroporto(1.331 euro).
Naturalmente non contiamo i viaggi gratuiti in autostrada, i ristoranti il cinema, il dentista, lo psicologo ecc.
A questi va aggiunta la liquidazione di 46.814 euro a legislatura (se per 5 anni al mese fanno 780 euro).
Siamo ad un totale che supera i 20.000 euro !
Potrei fare l’elenco degli stipendi e benefit degli altri paesi, prendiamo buono il dato che dice che la media è di 5300 euro al mese !
630 deputati + 315 senatori per 15000 x 12
Risparmio oltre 170 milioni anno !

5) finanziamento pubblico ai giornali di partito
Risparmio 850 milioni anno !
6) le Scorte negli altri paesi ne hanno diritto solo le alte cariche
Risparmio 250 milioni anno !
7)gruppi politici in parlamento costo 3 milioni cadauno, negli altri paesi non esiste.
13 -14 gruppi (gruppo misto, sel, fli ,Repubblicani azionisti, Liberaldemocratici ecc)
Risparmio 35,7 milioni anno !
8) costo corruzione dati della corte dei conti
Risparmio 60 miliardi anno !
9) migliaia di enti pubblici inutili spesso fatti solo per dare lavoro a parenti ed amici , naturalmente con stipendi esagerati (es: l’Istituto agronomico per l’oltremare, Istituto opere laiche palatine, Banco nazionale prova armi da fuoco, ecc.) , ci metterei anche le province che da sole costano 14 miliardi.
Risparmio 20 miliardi !

..… si potrebbe continuare, qualsiasi cosa riguardi i politici da noi è uno SPRECO !

fonte https://sites.google.com/site/lapazienzaefinita/i-veri-evasori-fiscali

JOSE' MARTI'




"Apologìa de Martì" (Discorso tenuto il 28 gennaio 1960, nel Capitolio Nacional, durante la cerimonia di commemorazione dell'anniversario della nascita di Josè Martì, organizzata dall'Associaciòn de Jòvenes Rebeldes. In "Revoluciòn", 1 febbraio 1960).
Cari compagni, bambini e adolescenti di oggi; uomini e donne di domani; eroi di domani; eroi, se è necessario, nelle asprezze della lotta armata; eroi, altrimenti, nella pacifica costruzione della nostra nazione sovrana.
Oggi è un giorno molto particolare, un giorno in cui si avverte l'esigenza di una conversazione intima fra noi - noi che in qualche modo abbiamo contribuito con uno sforzo diretto alla rivoluzione - e tutti voi.
Oggi si compie un nuovo anniversario della nascita di Josè Martì, e prima di entrare nel tema, voglio dirvi una cosa: ho sentito, un momento fa "Viva il Che Guevara!", ma a nessuno di voi è venuto in mente di gridare "Viva Martì!"...e questo non sta bene….(grida di "Viva Martì!").
E non sta bene per molte ragioni. Perché prima che nascesse il Che Guevara e tutti gli uomini che hanno lottato, che hanno comandato come lui comandò lui, prima che nascesse tutto questo impulso liberatore del popolo cubano, Martì era nato, aveva sofferto ed era morto per l'ideale che oggi noi stiamo realizzando.
Ma c'è di più, Martì fu il mentore diretto della nostra rivoluzione, l'uomo alla cui parola bisognava sempre ricorrere per dare la giusta interpretazione dei fenomeni storici che stavamo vivendo, e l'uomo la cui parola e il cui esempio bisognava ricordare ogni volta che si volesse dire o fare qualcosa di trascendente per questa Patria…perché Josè Martì è molto più di un cubano; è americano, appartiene a tutti venti i paesi del nostro continente e la sua voce si ascolta e rispetta non solo qui a Cuba, ma in tutta l'America.
E' toccato a noi l'onore di rendere vive le parole di Josè Martì nella sua Patria, il luogo dove nacque. Ma ci sono molti modi di onorare Josè Martì. Lo si può fare rispettando religiosamente le ricorrenze che indicano ogni anno la data della sua nascita o ricordando l'infausto 19 maggio del 1895 (Quel giorno, a Dos Rìos, Josè Martì cadde in combattimento, dopo che l'esercito di liberazione - da lui diretto insieme ad Antonio Maceo - fu sorpreso dalle truppe spagnole).
Si può onorare Martì citando le sue frasi, belle frasi, frasi perfette, ma anche e soprattutto, frasi giuste. Ma si può e si deve onorare Martì nella forma in cui egli voleva che si facesse quando affermava a gran voce: "Il miglior modo di dire, è fare".
Per questo cerchiamo di onorarlo facendo ciò che lui volle e che le circostanze e i proiettili della colonia gli impedirono. Non tutti né molti, forse nessuno può essere un Martì, ma tutti possiamo prendere esempio da lui e cercare di seguire il suo cammino nella misura delle nostre forze.
Cercare di capirlo e di riviverlo attraverso la nostra azione e la nostra condotta attuale, perché quella Guerra d'Indipendenza, quella lunga guerra di liberazione, ha avuto una sua replica oggi e ha avuto un gran numero di eroi modesti, oscuri, fuori dalle pagine della storia ma che, senza dubbio hanno rispettato integralmente i precetti e il mandato dell'Apostolo (Il titolo onorifico tradizionale con cui a Cuba viene celebrato Martì).
Voglio presentarvi oggi un ragazzo, che forse molti di voi già conoscono, e raccontare una piccola storia di quei giorni difficili della Sierra.
Lo conoscete o no? E' il comandante Joel Iglesias dell'Esercito ribelle e capo dell'Associazione dei giovani ribelli. Ora vi spiegherò le ragioni per cui si trova in quel posto e perché lo presento con orgoglio in un giorno come questo. Il comandante Joel Iglesias ha diciassette anni. Quando arrivò sulla Sierra ne aveva quindici. E quando me lo presentarono non lo volli ammettere perché era troppo giovane. In quel momento avevamo un sacco pieno di nastri di mitragliatrice - la mitragliatrice che usavamo all'epoca - che nessuno voleva portare. Gli si diede come compito e come prova il trasporto di quel sacco per le impervie della Sierra Maestra. Il fatto che oggi sia qui indica che riuscì a portarlo. Ma c'è di più. Voi non avete avuto il tempo, perché ha camminato solo per un breve tratto, di vedere che zoppica ad una gamba; non avete potuto vedere né sentire, perché non vi ha portato ancora il suo saluto, che ha una voce rauca e che non lo si sente bene. Voi non avete potuto vedere che ha sul corpo dieci cicatrici di pallottole nemiche e che questa raucedine, questa gloriosa claudicazione, sono i ricordi delle pallottole nemiche, poiché è sempre stato in prima linea in combattimento e nei posti di maggiore responsabilità.
Ricordo che c'era un soldato - in seguito divenuto a sua volta comandante - che è morto da poco tempo per un tragico errore. Quel comandante si chiamava Cristino Naranjo. Aveva circa quarant'anni e lo comandava il tenente Joel Iglesias, di quindici anni. Cristino dava del tu a Joel e Joel, che lo comandava, gli dava del lei. Eppure, mai Cristino Naranjo venne meno a un ordine; e questo perché nel nostro Esercito ribelle, seguendo gli orientamenti di Martì, non ci interessavano né l'età, né il passato, né la provenienza politica, né la religione, né l'ideologia precedente di un un combattimento. Ci interessavano i fatti, a quell'epoca, e la devozione alla causa rivoluzionaria.
Da Martì avevamo anche imparato che non importava il numero delle armi a disposizione, ma il numero delle stelle sulla fronte (Verso di una poesia di Martì "Lluvia y estrellas:…..luzca en mi frente/ mejor la estrella qui ilumina y mata". In "Obras completas" La Habana 1964).
E Joel Iglesias, già in quell'epoca, era tra coloro che avevano molte stelle sulla fronte, non quest'unica che ha oggi come comandante dell'Esercito. Perciò volevo presentarvelo in un giorno come questo, per farvi sapere che l'Esercito ribelle si preoccupa della gioventù e di dare a questa gioventù che oggi si affaccia alla vita, il meglio dei suoi uomini, il meglio dei suoi combattenti esemplari e dei suoi lavoratori esemplari. Perché crediamo che così si onori Martì.
Vorrei dirvi molte cose come questa oggi. Vorrei spiegarvi, in modo che mi comprendiate, che lo sentiate nel più profondo dei vostri cuori, il perché di questa lotta, di quella che combattemmo con le armi in mano, di quella che oggi sosteniamo contro i poteri imperiali, e di quella che, forse, dovremo ancora sostenere domani sul piano economici o anche sul piano militare.
Di tutte le frasi di Martì, ce n'è una che credo definisca come nessun altra lo spirito dell'Apostolo.
E' quando afferma:"Ogni uomo vero deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato alla guancia di qualsiasi altro uomo".
Questo era ed è, l'Esercito ribelle e la rivoluzione cubana. Un esercito e una rivoluzione che sentono nell'insieme ed in ognuno dei suoi membri, l'affronto rappresentato dallo schiaffo dato a qualsiasi uomo in qualsiasi luogo della terra. E' una rivoluzione fatta per il popolo e con gli sforzi del popolo, che è nata dal basso e che si è nutrita di operai e di contadini, che ha richiesto il sacrificio di operai e di contadini in tutti i campi e in tutte le città dell'isola. Ma che ha saputo anche ricordarli nel momento del trionfo.
"Con i poveri della terra voglio giocare la mia sorte", diceva Martì…e così abbiamo fatto noi, interpretando le sue parole.
Siamo stati posti qui dal popolo e siamo disposti a continuare fino a quando il popolo lo vorrà, a distruggere tutte le ingiustizie e a costruire un nuovo ordine sociale.
Non abbiamo paura delle parole nè delle accuse, come non ebbe paura Martì. Quella volta - un primo maggio del 1872, credo - (Il riferimento è a un celebre articolo di Martì, dedicato agli USA e apparso su La Nacion di Buenos Aires, in cui si protesta, fra l'altro per l'impiccagione dei quattro anarchici accusati del lancio di una bomba a Haymarket. L'attentato avvenne a Chicago, la sera del 4 maggio 1886. Di lì ha preso poi il via la tradizione del Primo maggio nel mondo. Citando a memoria, Guevara ha confuso date e avvenimenti) in cui vari eroi della classe operaia nordamericana perdevano la loro vita per difenderla e per difendere i diritti del popolo, Martì segnalava con coraggio ed emozione quella data, e bollava in volto chi aveva calpestato i diritti umani, portando al patibolo i difensori della classe operaia. E quel Primo maggio che Martì segnalò in quell'epoca, è lo stesso che la classe operaia del mondo intero - tranne gli Stati Uniti, che hanno paura di ricordare quella data - commemorano tutti gli anni, in tutti i paesi e in tutte le capitali del mondo. Martì fu il primo a segnalarlo, come sempre fu il primo a segnalare le ingiustizie. Come insorse insieme a ai primi patrioti e come subì il carcere a quindici anni; e come tutta la sua vita non fu null'altro che una vita destinata al sacrificio, pensando al sacrificio e sapendo che il suo sacrificio era necessario per la realtà futura, per questa realtà rivoluzionaria che voi tutti oggi vivete.
Martì ci ha insegnato anche questo. Ci ha insegnato che un rivoluzionario e un governante non possono avere né gioie, né vita privata, che devono consacrare tutto al loro popolo, al popolo che li ha scelti, che li ha collocati in una posizione di responsabilità e di lotta.
E anche quando dedichiamo tutte le ore possibili del giorno a lavorare per il nostro popolo, pensiamo a Martì e sentiamo che stiamo facendo vivere il ricordo dell'Apostolo.
Se di questa conversazione tra voi e noi rimarrà qualcosa , se non svanirà, come fanno le parole, mi piacerebbe che tutti voi, oggi…pensaste a Martì. Lo pensaste come un essere vivo, non come un dio né come una cosa morta; come qualcosa che è presente in ogni manifestazione della vita cubana, come sono presenti in ogni manifestazione della vita cubana la voce, il portamento, i gesti del nostro grande e mai pianto abbastanza compagno Camilo Cienfuegos.
Perché gli eroi, compagni, gli eroi del popolo, non possono essere separati dal popolo, non li si può trasformare in statue, in qualcosa che sia al di fuori della vita di quel popolo per il quale diedero la loro. L'eroe popolare dev'essere una cosa viva e presente in ogni momento della storia di un popolo. Così come voi ricordate il nostro Camilo, dovete ricordare Martì, il Martì che parla e che pensa oggi, con il linguaggio di oggi, perché questo hanno i grandi pensatori e rivoluzionari: il loro linguaggio non invecchia.
Le parole di Martì di oggi non sono da museo , fanno parte della nostra lotta e sono il nostro emblema, la nostra bandiera di combattimento.
Questa è la mia raccomandazione finale, che vi avviciniate a Martì senza timori, senza pensare di avvicinarvi a un dio, ma a un uomo più grande degli altri, più saggio e più sacrificato degli altri uomini, e siate consapevoli del fatto che lo fate rivivere un po' ogni volta che pensate a lui, ma che lo fate rivivere molto di più ogni volta che agite come egli voleva che agiste.
Ricordatevi che di tutti gli amori di Martì, il suo amore più grande fu per l'infanzia e la gioventù; che a queste dedicò le sue pagine più tenere e più sentite e molti anni della sua vita di combattente.
Per concludere, vi chiedo di salutarmi come mi avete accolto, ma al contrario: con un "Viva Martì! Che è vivo".

lunedì 6 gennaio 2014

Il giorno dopo ammazzarono mio padre di Claudio Fava

Il 5 gennaio 1984 Cosa nostra uccide il direttore de I Siciliani Pippo Fava con cinque colpi di pistola alla nuca. Il ricordo del figlio Claudio, giornalista e parlamentare di Sel.
La testimonianza di Claudio Fava è stata pubblicata su isiciliani.it.
Sono passati 30 anni dall’omicidio di Giuseppe Fava, detto Pippo, voluto dalla mafia siciliana. Il fondatore del giornale antimafia I Siciliani, era appena uscito dalla redazione del settimanale. A bordo della sua Renault 5 raggiunse via dello Stadio a Catania. Davanti al Teatro Verga, dove la nipote recitava in Pensaci Giacomino!, non ebbe il tempo di scendere dall’auto: cinque proiettili di pistola lo raggiunsero alla nuca uccidendolo.
Come era avvenuto per Peppino Impastato, ci fu un tentativo per depistare la verità, etichettando l’omicidio come delitto passionale. Ci sono voluti 14 anni - era il 1998 - perché un tribunale italiano condannasse all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola.
di Claudio Fava
Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come al solito, attorno al tavolo della cucina a casa della signora Roccuzzo. Riccardo scelse i gialli, che non voleva mai nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia sfida di colori dominati che non si risolveva mai. Io mi presi i verdi, colore fesso, tiepido, di quelli che non la¬sciano traccia.
Giocammo con candore e accanimento, come sempre, improvvisando alleanze, atacchi e ripiegamenti, sacrifici, tradimenti: tutto.
Il canovaccio prevedeva ruoli immutabili. Miki con la sua bella faccia da guappo dava la scalata al mondo spostando armate attraverso oceani immaginari. Antonio, prudente come un segretario di sezione, puntava alla Cina, cuore immobile di un’Asia attraversata da straordinarie mito¬logie, la Yacuzia, la Kamchatca, il Siam...
Riccardo intanto s’ammassava da qualche parte e lì aspettava la guerra, saggio immobile, come se quell’unico territorio posseduto fosse l’isola di Stromboli, pro¬tetta dal mare e dagli dei.
Di me non so, non ricordo: applicavo le regole del gioco, attaccavo, arretravo, passavo la mano. Pensavo che le guerre si vincono provando a non perderle, facendo i ragionieri sulle baionette. Avevo ancora un’età onesta, mi era consentito non capi¬re un cazzo.
Insomma la partita fu come altre cento prima di quella sera: lunga, sfacciata, riotosa. Nessuno vinceva, nessuno vinse. Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro cartone del risiko e lo fece saltare in aria mescolando definitivamente carri armati, territori, ambizioni. Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino in fondo: ci mandammo allegramente affanclo e ce ne andammo a dormire strippati di amaro averna, sazi e giusti come chi crede di essere immortale.
Il giorno dopo ammazzarono mio padre.
Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una cartolina di quei giorni e degli anni che vennero dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia ancora immacolata di quattro ragazzi che si stanno giocando l’ultima partita, prima che la vita gli precipiti addosso.