sabato 30 giugno 2012

Italia condannata: Monti ci prenota vent’anni di orrori


Italia condannata: Monti ci prenota vent’anni di orrori

L’esito del vertice europeo, al di là del trionfalismo dei giornali italiani che sostengono il governo Monti, è molto rilevante, ma non è positivo. La principale misura assunta al vertice – e che in Italia passa quasi sotto silenzio – prevede che i cittadini pagheranno i debiti delle banche private di tutta Europa. Si tratta di una gigantesca socializzazione delle perdite che non ha precedenti. Gli speculatori non dovranno così pagare il conto dei propri azzardi perché il conto lo pagherà il Fondo Salva Stati cioè i cittadini di tutta Europa con le loro tasse. Si tratta di un salasso enorme ai danni dei cittadini se pensiamo che solo per le banche private spagnole sono stati stanziati 100 miliardi di euro. In secondo luogo il Fiscal Compact non è stato modificato e questo determinerà per l’Italia la recessione assicurata per i prossimi vent’anni. Si tratta di una misura che ha l’effetto di una guerra, perché il Fiscal Compact obbliga tutti i paesi che hanno un debito superiore al 60 per cento del Pil a rientrare nell’arco di vent’anni. Per l’Italia si tratta di tagliare 45 miliardi all’anno che saranno fatti in parte con tagli alla spesa (a partire da quella sociale come abbiamo già avuto modo di verificare) e in parte con la svendita del patrimonio pubblico: immobili, imprese, fino ad arrivare all’oro della Banca d’Italia. Questi tagli non verranno per nulla compensati dalle misure per la crescita, per due ragioni. Queste sono per l’Italia molto inferiori ai tagli (dell’ordine di un decimo) e inoltre l’Italia sarà obbligata a tagliare sul welfare e avrà risorse per investire su grandi opere sovente inutili e dannose (come la Tav). Tagli pesanti al welfare e nuove autostrade, questa è la ricetta che ne risulta.
In terzo luogo, invece di permettere alla Bce di comprare direttamente i titoli di Stato o di fare gli eurobond o di trasformare il Fondo Salva Stati in una banca che possa accedere alla liquidità illimitata della Bce, il vertice europeo ha dato vita a un meccanismo in cui il Fondo Salva Stati – con pochissime risorse – può intervenire a sostegno dei paesi che abbiano già demolito il welfare e che si impegnino a continuare a farlo. Infatti i conti in Angela Merkel e Mario Montiattivo sono la condizione per l’intervento del Fondo. L’eventuale intervento avverrà  sotto stretto controllo della troika (Bce, Fmi e Ue) e prevede la firma di un memorandum in cui il paese viene nella sostanza commissariato.
Si tratta di una misura – quantitativamente non diversa da quanto fatto dalla Bce fino ad ora – del tutto insufficiente per evitare la speculazione sull’euro, ma efficacissima per continuare il ricatto sui singoli paesi, costringendoli a politiche di rigore che demoliscono il welfare e i diritti dei lavoratori. Infatti il meccanismo che viene messo in piedi è quello di un uso politico dello spread, in cui chi non ha ancora tagliato viene bastonato e chi ha tagliato e continua a tagliare, viene lasciato fuori dal pestaggio. Il tecnocrate liberista Monti esce vincente dal vertice, il popolo italiano perde e le stangate e la recessione continueranno.

giovedì 28 giugno 2012

DEBUTTANTI SENZA SENSO di Antonio Recanatini

I politici italiani, negli ultimi 50 anni, non hanno mai dato impulso e sostegno al cittadino, ma, a guardar bene, sono riusciti ad offenderlo e ridicolizzarlo.
Sul mal costume di questo paese dovremmo metterci in discussioni ogni momento, sugli sprechi e sui comportamenti vigliacchi del vivere quotidiano non siamo secondi a nessun altro popolo; questo è difficile da contestare.
Se Berlusconi va al potere, se Monti riesce ad avere una larga maggioranza senza essere votato, se il pd e sel si professano di sinistra e poi lottano per la costruzione della Tav, se l'informazione è una meteora, la colpa è da dividere tra gli abitanti di questo paese.
C'è, comunque, un nuovo modello dittatoriale a destare interesse in tutto il mondo, come scrisse un certo Umberto Eco “Le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà e amore per l'Italia ma semplicemente al timore che l'Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero stendersi all'Europa intera”.
Con il nano siamo stati abituati e diretti per menzogne immonde, salvo, poi, il giorno seguente, essere ritrattate come fossero scritte con inchiostro trasparente, abbiamo sperato per anni che la sua stupidità congenita rinvigorisse il cappio nel quale era appeso la sua maggioranza.
La fornero ha proseguito in questo balzello, ha trattato, troppo spesso, temi delicati con un'inappropriata superficialità che indica, oltre modo, la sua inadeguatezza a ricoprire ruoli istituzionali, non serve il parere di un politologo o un Einstein per capire.
Le espressioni superficiali, demagoghe e provocatorie hanno oscurato i movimenti dei servi delle banche, non bastavano gli idioti di turno, stavolta li abbiamo cercati tra i tecnici.
Bersani, casini ed altri misfatti storici passano in secondo luogo, compreso i loro epiteti irriverenti, tutti hanno una malattia incurabile che, in psicologia, viene espressa come la sindrome degli impuniti, passeggiano nelle stanze dei bottoni come attori consumati dal perbenismo.
Kennedy disse che non è mai troppo tardi per abbattere i poteri occulti, la federal reserve.... aggiungerei la bce e annacquare il draghi suo propulsore, non è mai troppo tardi per prendere coscienza che l'europa è solo un patto tra massoni e bisce concilianti.
La fornero è semplicemente il continuo di una storia a puntate, parla a vanvera e poi ritratta, aggiunge o sottrae a discorsi fuorvianti, propone e dispone per poi ritrattare o aggiustare la mira.
Dire che gli esodati sono poche migliaia e poi minacciare i vertici dell'inps non è una cospirazione, ma un disegno, un modo per spostare l'attenzione, un modo per riempire di nulla le trasmissioni politiche.
Anche la traduzione, in verità poco attendibile, della sua ultima intervista viene da lontano, da un paese che ha colonizzato l'Italia, credete sia un caso? Lei ha detto che il lavoro non è un diritto, in realtà la traduzione era diversa, il posto non è un diritto; chi capisce la differenza è in malafede, sicuramente.
Parole diverse, ma, sostanzialmente, uguali, è bastato rettificare o, meglio, aggiornare la traduzione della sua intervista per far calmare gli animi impazziti, come dire, basta poco per abbassare la pressione sanguigna degli idioti.
L'asse su cui fa leva tutta la costituzione italiana è stato abbattuto da un'intervista, poi rettificata, ma le parole sono state dette ed il fine raggiunto: il cittadino comincia ad abituarsi a certe storture.
Anni fa ci organizzammo per uno sciopero preventivo a sostegno dell'articolo 18, ricordate? Solo perché un parlamentare osò blaterare contro, risultato? Lo sciopero preventivo non fu realizzato e l'articolo 18 è stato abbattuto.
Non servono eroi per difendere il cittadino, è il cittadino che sprona la rivoluzione, è la forza dei disperati quella trainante, non le parole di pseudo giornali e venditori di fumo.
Se tutti scioperassimo da domani per mesi interi, la bce, la trilateral e la federal reserve non esisterebbero e i poteri occulti annegherebbero nelle provocazioni, diamo peso alle parole di questi impuniti, prima che siano loro a punirci per sempre.
Ultima annotazione, solo per togliermi un sassolino nella scarpa, la fornero, la santanchè, la camusso e la gelmini sono donne, questo in risposta a quelli che dividono l'emisfero in donne e uomini. I BALORDI NON HANNO SESSO... RICORDATELO!!!

mercoledì 20 giugno 2012

ZIO E IL VAFFANCULO CORRELATO DI SPUNTI A GASPARRI

Maurizio Gasparri, uomo inutile, si è preso la briga di scrivere, con carta intestata del senato, "Toglietemi le multe, sono un senatore"
all'Ufficio Contravvenzioni del Comune di Roma, per farsi togliere le multe. Ammesso, ma non concesso, che lui abbia ragione, perché scrivere con la carta intestata del senato per una macchina intestata alla moglie?
SPUTARE IN FACCIA A QUESTO DEMENTE DOVREBBE ESSERE DIRITTO DI OGNI CITTADINO!



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martedì 19 giugno 2012

l corpo nudo dell’eroina Jasad, n° 3, giugno 2009 / Il reportage, n° 1


Esce a stampa anche in Italia, sul primo numero de Il Reportage il saggio già pubblicato da Jasad nel 2009. In Italia è accompagnato dalle splendide foto di Jessica Dimmock tratte dal suo video The Ninth Floor, che potete vedere cliccando qui.
Il corpo nudo dell’eroina
Life is a killer
(John Giorno)
Se si chiede a un tossicodipendente da eroina cosa fa nella vita, ci sono buone probabilità che risponda: mi buco. Non: mi faccio d’eroina, o sono un junkie, oppure sono un drogato. No. Spesso vi sentirete rispondere: mi buco.
Bucarsi il corpo, introdurvi, attraverso un’azione violenta di self-harm, delle sostanze velenose è parte fondamentale dell’addiction, indipendentemente dalla sostanza. Del tutto indipendentemente. In quei ristretti club junkie, in cui sono ammessi solo veri junkie, chi ‘sniffa’ eroina è percepito come diverso, non appartenente al branco, straniero, ‘barbaro’.
Anche se la sostanza inalata è la stessa, e dunque più o meno simili sono gli effetti che provoca, sia pure con intensità e tempi diversi, ciò che è decisivo è il fatto che non si condivida il rito di questa puntuta autoflagellazione, il dolore e la miseria, ma anche la fierezza e il raffinato piacere delle vene sbrindellate, forate, ferite, torturate.
Se non c’è il ‘buco’ e tutto il rito accuratissimo che lo precede, non è affatto la stessa cosa. Da questo punto di vista, iniettarsi eroina è, sostanzialmente, una pratica solipsisticamente mistica. E assolutamente corporea. E’ il raggiungimento del distacco dal corpo attraverso una prassi integralmente fisica, come il cilicio degli asceti medievali. E’ il superamento del dolore dell’anima anche attraverso il dolore del corpo. Riguarda Sade, Jacopone da Todi, certi quadri di Frida Khalo, la Deposizione di Rosso Fiorentino e il San Sebastiano di Antonello da Messina, un quadro conservato a Dresda, che a me è sempre sembrato la rappresentazione più azzeccata di ciò che significa, per chi si buca, bucarsi.
Hai tutto? Cucchiaino, siringa da insulina, acqua? Hai una sigaretta? Serve per il filtro. Ok. Vieni qui che ti spiego: intanto bisogna diluire la roba.
Fammi vedere... Ma è brown, non è bianca... Allora vai in cucina a prendere un limone... Ecco: intanto mettiamo la roba nel cucchiaino.
Stai attento a non esagerare, o avrai la migliore delle buone morti. Per adesso, se è un buon ‘cavallo’, ti bastano 50, 60 milligrammi per avere un ‘flash’ memorabile. Non serve il bilancino. Col tempo imparerai a calcolarlo a occhio, come me...

Il quadro di Dresda raffigura un efebico San Sebastiano, teneramente bello, legato a un tronco d’albero.
Il suo corpo è trapassato da frecce, ma il suo sguardo è sereno, sembra quasi che mostri le sue piaghe con orgoglio. Di più: sembra quasi che ne tragga uno strano, perplesso piacere, misto a malinconia.
Non c’è nulla che esplicitamente alluda al dolore, come se il giovinetto raffigurato traesse una singolare, pacata forza da qualcosa che vede, che sente e che sta fuori dal quadro, dalla parte di noi che guardiamo. Il dolore, l’orrore, se ci sono, sono tutti concentrati nei punti in cui le frecce, sorta di enormi aghi, trapassano il suo corpo, come se le ferite attraessero su di loro, quasi fossero dei magneti, tutto il dolore e la pena, liberandone il resto del corpo e la mente del Sebastiano.
La scena è immersa in una calma surreale. Il San Sebastiano è solo: manca un elemento fondamentale per ogni martirio, per ogni pubblica esecuzione: il pubblico, per l’appunto.
Le poche figure presenti, in secondo e terzo piano, sono distratte, un soldato (forse uno di quelli che hanno scagliato le frecce) giace addirittura addormentato alla sinistra. Tutto accade in un’assoluta intimità. In silenzio.
Tutto avviene su e attraverso il corpo del San Sebastiano. Come in una sorta di orgasmo immobile, bloccato, siderato.
E’ precisamente questo che intendo quando parlo del misticismo solipsista a cui sembra alludere la pratica auto-flaggellante dell’iniezione di eroina. E’ precisamente questo che un junkie intende quando parla del flash, dell’onda calda che gli invade il corpo nel momento in cui la sostanza si diffonde nelle vene.
Ed anche se al profano, pensando al flash, viene in mente un corpo che magari si contrae, una mente che delira, nella realtà il flash immobilizza, e insieme decontrae, rilassa e abbandona, come un’onda che riempie e porta altrove, non la mente, che viene piuttosto annullata, ma precisamente il corpo di chi si inietta eroina.
E in questo meccanismo è il dolore del buco (della freccia e della siringa) che è il primo, discriminante, caratterizzante gradino per ciò che poi diviene, per San Sebastiano e per qualsiasi tossicodipendente, il veicolo per una pace che altrimenti sarebbe impossibile. Una pace dove la vita finalmente sparisce, senza diventare morte, lasciando solo il corpo abbandonato, in bilico, a un passo dal baratro della fine, travolto da un piacere che è, prima di tutto, desiderio soddisfatto.
Ma comunque sta attento, se non conosci la roba che ti danno. Potrebbe essere troppo buona e dunque la prima’pera’ con roba nuova falla sempre più blanda, capito?
Ogni tossico ha un bilancino di precisione nelle pupille. Ma non ‘Il piccolo chimico’.
Dunque sta attento: se sbagli, non ci sarà la possibilità di ritentare. Sarà una buona morte, e basta. E l’eroina non serve a questo, a morire, a morire davvero, intendo, una volta per tutte, ma piuttosto a ripetere la tua morte, a ripeterla, senza saziartene mai, come fosse un orgasmo.
A ripeterla per allontanarla, o, per lo meno, per illuderti che sarai tu a fissare il momento di quell’appuntamento.
Non crederci quando dicono che qualcuno è morto per overdose, l’overdose non esiste, esiste il suicidio, o la roba troppo buona, chiaro?
Siamo tossici, non deficienti, lo sappiamo bene quanta roba mettiamo nel cucchiaino, lo sappiamo al milligrammo, ma se la roba è troppo buona (o la vita è troppo una merda), allora... La roba cattiva, generalmente, al massimo ti fa cagare per qualche giorno, o ti fa gonfiare il braccio come un pallone e ti avvelena il fegato...
La roba troppo buona ti ammazza.
Lascia perdere quello che dicono in TV, l’eroina è una cosa seria, come la vita, la morte, il sesso,il desiderio, la fame, o la sete...

Se è alla pittura che mi rivolgo in cerca di paragoni, piuttosto che a tanta letteratura sull’argomento, è perché sono rimasto spesso piuttosto deluso dalla lettura delle centinaia, delle migliaia di pagine che gli scrittori e i poeti della modernità hanno dedicato alle droghe in generale e, segnatamente, all’eroina.
Il fatto di aver personalmente utilizzato questa sostanza per un periodo così lungo nella mia vita (circa nove anni) e in modo intenso e continuativo, il fatto insomma di essere stato un junkie professionale, e di essere poi diventato, in un momento successivo, uno scrittore, mi pone in una situazione piuttosto singolare.
Conosco bene ciò di cui si parla, ma so altrettanto bene che occorre diffidare delle cronache ‘in diretta’ e la letteratura sulle droghe è piena di instant books, di diari spesso fin troppo abbelliti da retoriche para-surrealiste, o da orpelli romantici e decadenti.
Chiunque abbia esperienza di hashish, ad esempio, rimarrà piuttosto stupefatto a leggere certe cronache di fine Ottocento, che trasformano la canapa in un allucinogeno e chiunque non ne abbia fatto mai uso e la provi dopo certe letture è destinato a cocenti delusioni.
Il problema è, ovviamente, che si tratta di letteratura, ma fatto sta che il coté ‘ottico’ è assolutamente predominante nei referti di poeti e romanzieri e, alla fine, ogni droga si riduce ad essere una specie particolare di allucinogeno, se non altro per legittimare la catena di luoghi comuni che collega le droghe, tutte le droghe, con le cosiddette ‘allucinazioni’.
L’attenzione verte, comunque, quasi sempre sugli effetti mentali delle droghe. Il loro aspetto materialmente, direi carnalmente, corporeo è spesso totalmente ignorato, persino, da un certo punto di vista, da Burroughs e dal suo Naked Lunch, che pure è tra quanto di meglio si sia scritto al riguardo.
E questa è peraltro una delle ragioni per le quali la ‘letteratura’ sull’eroina è, tutto sommato, scarsa, se confrontata alle centinaia, migliaia di pagine dedicate a droghe come l’oppio, il laudano, gli allucinogeni, il vino, o l’hashish.
Apri la fialetta dell’acqua distillata ora, aspirala nella siringa...
Ma qualsiasi acqua va bene, quella del rubinetto, o di una fontana, io conosco gente che si è fatta usando la pioggia accumulata sui tergicristalli delle auto, quella delle pozzanghere, o l’acqua di mare e poi è stata male, ma proprio male... Tu non farlo mai...
Ma tieni presente, amico mio, che quando la roba ti avrà catturato, quando il suo cappio sarà ben stretto al tuo collo, allora, se sarai ‘a rota’, anche l’acqua, solo l’acqua, sarà un sollievo per te. Ciò che conterà sarà bucarsi comunque, per iniettarsi qualcosa, qualsiasi cosa... E quel buco d’acqua ti farà passare la smania. Solo per poco certo, ma, mentre inietterai, la ‘rota’ sembrerà passare e, attraverso quel piccolo dolore che ti infliggerai, troverai una briciola del piacere che ti manca.
E’ il buco, amico mio, la vera droga, in un certo senso, ma questo è ancora troppo presto perché tu possa capirlo, questa è una parte del gioco che si scopre solo quando il gioco ormai è finito e la partita è chiusa...

Molto più efficace di tante pagine fin troppo note è, piuttosto, un film di molti anni fa, Trash (1970), una pellicola diretta da Paul Morissey ed uscita direttamente dalla Factory di Andy Wharol. Nelle scene cupe, asfittiche, disperate del film, la dimensione corporea dell’esperienza di assumere eroina è evidente: la telecamera non ci risparmia niente, in un vortice in cui piacere ed infezione, self-harm e sessualità si mescolano senza posa.
D’altra parte, l’eroina, con la morfina, è praticamente l’unica droga che per essere assunta preveda una violazione corporea così estrema, come l’iniezione attraverso ago. L’unica che costringa la mente del drogato a un commercio così intimo con il suo corpo, con la sua carne, con la sua pelle. Questo, oltre ad essere un simbolo del club esclusivo dei junkies, è anche la ragione della loro ghettizzazione sociale, del rifiuto violento della società nei confronti dell’eroina, associata molto più facilmente di altre sostanze a pratiche ritenute ‘mostruose’, come l’automutilazione (si pensi alla pazzia tutta corporea del Van Gogh che si taglia l’orecchio, nella celeberrima lettura che dell’episodio da Antonin Artaud). Ed è questa la ragione della pratica, assolutamente incomprensibile per un ‘profano’, per la quale un junkie ‘a rota’ se non ha eroina, proverà comunque un certo sollievo, per quanto momentaneo, nell’iniettarsi in vena della semplice acqua. Ma l’utilizzo di queste pratiche come succedaneo delle droghe (e dunque la parentela stretta tra le due cose) è in realtà molto più diffusa di quanto non si creda.
Io stesso ho raccolto, tempo fa, per il quotidiano italiano L’Unità, le dichiarazioni di una giovane studentessa che per anni aveva placato le sue ansie e i suoi disagi esistenziali tagliuzzandosi minuziosamente il corpo con un lametta. Ed è di pochi mesi fa l’articolo dedicato da Alice Fordham, su Now Lebanon, al self-harm, diffusissimo nelle periferie del Libano del Nord, in cui si dà notizia addirittura di pratiche di auto ferimento collettive, quasi fossero una sorta di rito socializzante, capace di rinsaldare il gruppo, come l’assunzione comune di droghe. «“I used to cut myself, and I know what the guys are going through. It is not easy.” The cuts on his body, he says, he inflicts alone, but, "I have friends that do it together."»
È precisamente a questo che si riferisce il protagonista di un romanzo di Léon Daudet Le lutte (1907), uno degli scritti più veritieri sugli effetti della morfina, che, descrivendo i suoi dolori da astinenza, dichiara: «Imploravo una sofferenza positiva e che s’installasse in un punto preciso del mio corpo».
Ecco, ora che hai messo l’acqua, aggiungi due gocce di limone. Vedi come si scioglie adesso? Ora il filtro, metti nel cucchiaino un pezzetto del filtro della sigaretta. Bravo, così. Usa l’ago per mescolare, prendi il filtrino con la punta dell’ago e mescola.
Mentre mescoli, io riscaldo con l’accendino. Vieni, metti il cucchiaino sulla fiamma. Così, bravo. Attento a non farla bollire, però, o ti ustionerai le vene. Bene.
Ora tira su nella siringa, poi, con l’ago puntato in alto, battila con la punta delle dita. Esatto, così, in modo che il liquido vada tutto sul fondo.
Poi fai uscire tutta l’aria dalla siringa, spingi lo stantuffo sino a che non esce una piccola goccia dalla punta.
In vena è meglio che non ti entri aria, o ti partirà un embolo. Esatto così.
Leccala. Leccala quella goccia che cola lungo l’ago, cazzo! Impara a sentire con la lingua il sapore della roba che ti spari in vena...
Sentito com’è amara? Questo è il sapore del paradiso, piccolo mio. Non dimenticarlo più. E’ come il sapore che hai sentito la prima volta che hai leccato una fica.
Non dimenticarlo più: è il sapore del desiderio e del piacere...

Insomma, nel commercio che si instaura tra il tossico e la sua tossina la violazione corporea è un aspetto strutturale, una parte fondamentale, al punto che, parafrasando Mc Luhan, si potrebbe sostenere che in questo caso davvero medium is message e questo medium è l’atto di bucare il corpo, punirlo, segnarlo attraverso una siringa.
Del rapporto strettissimo tra l’ago e la sostanza che esso inietta si accorge immediatamente anche la stampa degli anni in cui la morfina va addirittura di moda in Europa, più o meno tra il 1870 e la fine del secolo, quando ormai è stata sostituita dall’eroina, che sarà, invece, immediatamente ghettizzata. Il quotidiano francese Le temps, in una cronaca del 1882, può sottolineare, così, sia come la diffusione sia massiccia, soprattutto tra le donne, sia il valore, in certo modo simbolico, delle siringhe di Pravaz che diventano un cadeau á la vogue: «Si vedono signore della migliore società che si regalano delle piccole siringhe in astucci d’oro o d’argento come dono in occasione delle feste».
Il fatto che la morfina sia considerata una droga da donne, non è, peraltro, senza significato: le donne sono il diavolo e sono il corpo e, d’altra parte, la morfina diventa per loro un modo per sfuggire, in un certo senso, a una condizione di subordinazione ed esclusione sociale.
Lo scrittore e occultista francese Joséphin Péladan, nel suo Le Panthée (1892) non può fare a meno di annotare che: «... la stessa donna che nel secolo scorso si sarebbe presa un amante prende ora una puntura di morfina (...) la graziosa siringa sostituisce per le signore ai giorni nostri sia l’amante che Dio stesso». E chi abbia dubbi sulla credibilità di Péladan, potrebbe rivolgersi alla testimonianza di uno dei fondatori del dadaismo, Hugo Ball, che parla delle riunioni di morfinomani come un luogo in cui gli uomini sono tollerati, ma certo «non sono ricercati».
Proprio ad una morfinomane, una sorta di Erinni, o Baccante, in preda all’ebbrezza è dedicata un’opera di Eugène Grasset, intitolata, per l’appunto, La morphinomane (1897)
Non è informazione troppo diffusa che, in effetti, la siringa ipodermica viene inventata da Wood e Ferguson e migliorata da Pravaz proprio negli anni della prima diffusione della morfina e proprio per iniettare morfina essa viene massicciamente usata e diffusa in Europa, soprattutto da intellettuali donne, artisti, politici, in uno stupefacente elenco che affratella Bismark a Guy De Maupassant, Wagner a Jules Verne; una diffusione e un uso che trasformano ben presto un oggetto nato con scopi medici in un raffinato attrezzo di doloroso desiderio e di ‘devianza’.
Per altro verso, anche in un momento nel quale la sua distribuzione è praticamente libera, anzi la moda impazza, ciò che colpisce i cronisti e i narratori dell’epoca, che non ne siano consumatori essi stessi, è l’aspetto fisico, assolutamente corporeo, dell’atto dell’iniezione, del ‘buco’, degli ematomi sulla pelle, delle croste sulle braccia, basti al proposito citare la protagonista di Noris (1883), di Jules Claretie: «crivellata di punture di morfina», o quella di La Comtesse Morphine (1886), di Marcel Mallat de Bassilan: «marmorizzata dalle placche rosse dell’orticaria, dalle stigmate bianche di ascessi cicatrizzati e dalle infiltrazioni bluastre della pelle che lasciavano colare goccia a goccia un pus oscuro e sanguinolento».
Da questo punto di vista la morfina e l’acetilmorfina destra, cioè l’eroina, così come lo strumento che occorre per la loro assunzione, avrebbero una essenza luciferina, nel senso che, nate con l’angelico compito di curare, d’essere dei medicinali, esse avrebbero ben presto mutato la loro natura, si sarebbero ribellate al loro creatore, trasformandosi in demoni, in droghe, in strumenti di morte.
Infilala piano, se la spingerai dentro di colpo perderai tutto il piacere. Il piacere doloroso che viene prima del piacere, quello di sentire l’ago che ti apre la pelle, che la squarcia con un piccolo taglio netto, che scava nella tua carne alla ricerca della vena.
Imparerai a sentirla la vena, a percepire con chiarezza quando l’ago la raggiunge, come il tuo cazzo ha imparato a infilarsi in tutti gli orifizi di una donna, e allora il piacere si raddoppierà mentre la bucherai e, subito dopo, quando con lo stantuffo aspirerai un po’ di sangue per sincerarti di averla davvero presa, sentirai un dolore fresco che ti invade il braccio, immediatamente prima del calore bollente che te lo invaderà, quando infine la inietterai.
Godilo tutto questo buco, tu che puoi, le mie vene ormai sono ridotte a corde secche, sono collassate; vedi le croste sul mio braccio? Io mi buco qui, sulla crosta. Si chiamano ‘valvole’; infilare l’ago lì, dove l’hai già infilato decine di volte, fino a tumefare il braccio, è l’unico modo per continuare a usare certe vene. Altrimenti, terminate quelle delle braccia, puoi passare a quelle delle gambe e io conosco persone che hanno usato vene dappertutto, sulle mani, sulle tempie, sulla gola, sotto la lingua, sul cazzo.
Ma tu adesso non pensarci, stringi la tua cinta al braccio, usala come laccio emostatico: Scegli la vena adesso, la più grande, quella, sì, quella..

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Da questo punto di vista l’eroina è nelle nostre società contemporanee, più o meno ad ogni latitudine, la droga per eccellenza. L’immagine del Male. Della Follia. Della Morte. È il centro focale di quella che il grande, coraggioso Thomas Szasz ha chiamato ‘la persecuzione rituale delle droghe’.
D’altra parte, chi abbia dubbi sul valore simbolico, emblematico che l’eroina riveste nelle società contemporanee provi a riflettere sul fatto che, nonostante i morti d’eroina siano davvero poca cosa, se confrontati con quelli dovuti all’alcol o al tabacco, o agli incidenti automobilistici, o all’eccesso di grassi e zuccheri nell’alimentazione, gli sforzi repressivi e la condanna sociale nei suoi confronti sono enormemente superiori.
Ciò dipende sostanzialmente da due fattori, la presunta socialità e/o produttività di molte altre droghe (dall’hashish, alla cocaina, o ai già nominati alcol e tabacco) e il suo aspetto crudamente corporeo, il suo lasciare piaghe, il suo mostrare, attraverso le lesioni inferte a un corpo vivo, la fragilità della vita, la sua materialità, inevitabilmente destinata a decomporsi. Cioè il fatto che l’eroina nomini la morte e il corpo ( e la ‘malattia’ e il desiderio) che sono precisamente ciò che non si può e non si deve nominare nelle società postmoderne, di ogni genere e confessione (Sontag). L’eroina, come il cancro e come l’AIDS, è il rimosso, l’orrore puro, la negazione di tutto ciò che questa società dell’eterna giovinezza e del privato benessere ha posto alle sue basi.
Con il suo creare piaghe, croste, essa simboleggia la fragilità del corpo; con la sua necessità di bucare la carne, allude all’insostenibile orrore che è il corpo ‘sotto’ la pelle, così come la pornografia offende il ‘comune senso del pudore’ per il suo mostrare, senza mediazioni, né altri scopi, il corpo che è sotto i vestiti, il suo agire e congiungersi, nudo di abiti e di ogni altro fine che non sia la sua pura vista, l’abbandonarsi dello sguardo al desiderio che annega nella materia dei corpi.
Prendi la siringa, mettila quasi parallela al braccio, non devi trapassarlo, devi insinuarti, come fa un cazzo in una fica stretta, devi aprire la pelle piano, ma con decisione come faresti con le piccole labbra di quella fica...
Bravo così, spingi, ora, spingi, eccola! L’hai presa... tira su... perfetto... Lo vedi il sangue nella siringa che colora la roba? Vuol dire che sei dentro, che hai bucato la vena. Che il piccolo cazzo duro del tuo ago ha sfondato la grande, materna, accogliente figa della tua vena, dove col sangue scorre la tua vita...
Brucia, vero? Ora inietta, ma pian piano... Impara a sentire che puoi sentire anche con le tue vene, che il tuo corpo sente anche ‘dentro’, non solo fuori, sulla pelle...
Bravo, tutta, iniettala tutta, ma no, no, non togliere subito la siringa dal braccio, aspira di nuovo altro sangue nella siringa, e ora iniettalo ancora: si chiamano risciacqui, più ne farai, più sarai certo che neanche una molecola di roba andrà persa....
Lo senti come al dolore del buco si sostituisce il piacere caldo della roba?
E’ per questo, amico mio, che l’eroina non è semplicemente una droga, è una filosofia... Ma tu non puoi capire, è troppo presto, anche se presto sarà già tardi, per te come per me...
E ora togli la siringa e succhiati via dal braccio la goccia di sangue che ti sta colando verso il gomito. Impara che sapore ha il tuo sangue e goditi la tua piccola morte, che è l’unica cosa per cui vale la pena di vivere questa piccola vita.
Hai voglia di fumare vero? Proprio come dopo una scopata, come dopo un orgasmo, sì... Tieni... Fuma una sigaretta. Ne accendo una anch’io...

Per comprendere meglio ciò che intendo può essere utile, in chiusura, fare riferimento ad un altro dipinto, la già citata Deposizione di Rosso Fiorentino, un capolavoro del Manierismo italiano, un’opera dalle tinte acide, stridenti, dalla funambolesca architettura dei personaggi che lo abitano. Un Cristo morto, dall’espressione dolce, serena, è appena stato staccato dalla croce. Intorno a lui si affollano tanti personaggi, alcuni acrobaticamente protesi a sostenere la spoglia, altri (Maria con Maddalena, ad esempio) sono in gruppo sotto la croce. I loro volti sono tesi, sconvolti dalla fatica e soprattutto dal dolore e dall’indignazione per la morte che sostengono tra le braccia. Le deformazioni dei corpi e dei volti giungono all’estrema esasperazione: il vecchio affacciato dall’alto, sulla croce, ha il viso contratto come una maschera. Ma da Cristo, dal Cristo Crocifisso, sulle cui mani, sui cui piedi, sul cui costato sono evidenti i buchi dei chiodi, le ferite inferte dalla lancia, ci giunge il sorriso distaccato e assolutamente appagato di chi ha cercato quella morte, esattamente quella. Il suo piacere, o, se preferite, la sua serena ‘assenza di vita’ (che nel Cristo rappresenta, evidentemente, il compimento della propria missione in Terra, attraverso il sacrificio del suo corpo) è la medesima cosa che suscita l’orrore sociale, il dolore, lo spavento di chi, intorno a lui, vive la sua morte, una morte, occorre ricordare, assolutamente momentanea. Nello stesso modo, la morte momentanea, la ‘piccola morte’ dell’eroina (e le sue piaghe), che per il tossico è, in fondo, il compiersi di un disegno, il suo disegno, è per la società che lo circonda, anche per chi gli è più vicino, solo dolore, è l’insulto estremo, l’estremo scandalo, come lo erano i corpi flagellati e violati del desiderio sadiano. E la piccola morte dell’eroina, come quella dell’orgasmo, passa attraverso il corpo, la sua violazione, il buco. E, come l’orgasmo, essa deve essere nascosta, negata, ha diritto di cittadinanza solo in un ambito strettamente privato, quando diviene pubblica, trasformandosi in martirio, essa produce scandalo, violenza, repressione, rimozione. E se è ancora tollerabile che, alla luce del sole, avvenga questo, o quello scambio di droga, l’immagine del tossicodipendente che si buca all’aria aperta, davanti a tutti, continua a conservare, per buona parte della società, tutta la sua potenza di insopportabile oscenità. Come un amplesso consumato in piazza, all’ora dell’aperitivo, come un orgasmo esibito su una panchina, tra la gente, facendo del proprio desiderio e del proprio stesso corpo l’unica, invisibile, cortina.
Ora sei vuoto nel vuoto. Nulla nel nulla. Ora non esistono temperature, né odori, né luce, né ombra, né fame, né sete, né fatica, né dolore, né colpa, né pentimento...
Tutto è vuoto. Ora.
Sei una casella vuota. Come un desiderio, un attimo prima di essere desiderato...

NOTA: Questo non è un testo clinico-scientifico, né un’indagine medica, né un’analisi sociologica e neanche uno scritto antropologico sull’uso di eroina e sulle liason che questo ha con il corpo di un tossicodipendente. Non è nemmeno un’analisi storico-filologica sulla letteratura, o l’arte dedicate a questo argomento.
E’ soltanto un piccolo saggio (dunque uno scritto ibrido, fatto di tante facce, di tante anime, di tanti toni, un esperimento, un’acrobazia del pensiero e della parola).Uno scritto, insomma, spiccatamente letterario, di cui io ( e parte della mia vita) sono tanto l’autore, quanto l’argomento. Nulla di più.
Desidero poi sottolineare come per alcuni dei dati filologico-letterari ed artistici che ho utilizzato, io sia debitore alla bella e informata ricerca di Alberto Castoldi, Il testo drogato (Einaudi, 1994).

Il testo è stato appena pubblicato sul terzo numero della rivista in lingua araba JASAD, dedicata alle arti e alle scritture del e sul corpo, diretta dalla poetessa libanese Joumana Haddad.
La traduzione in arabo è di Dima Saad, che ringrazio.

ZIO GINO E LE FERIE DEGLI ITALIANI

"Italiani meno ferie" La ricetta di Polillo per far salire il Pil. Se la memoria non m'inganna fu detto anche dal nano, il Pd non esisteva, come non esiste. Quindi la corruzione, concussione, finanziamento illegale ai partiti, i patti tra massoni, i guadagni delle lobby finanziare non rientrano nei veri problemi. La colpa ricade sempre sul cittadino, IMPARIAMO A CONOSCERLI PER IMPARARE AD ODIARLI. 

lunedì 18 giugno 2012

RIMBORSI ELETTORALI/ La bufala dei soldi di luglio ai terremotati: 91 milioni di euro rischiano di rientrare ai partiti

Urgente! Urgente! Urgente! Le trombe di Pd e Pdl in queste settimane non strillavano altro: dobbiamo immediatamente tagliare i rimborsi elettorali, dicevano. E alla fine sembrava ci fossero riusciti. Non solo. I due partiti di maggioranza, con un emendamento, avevano anche previsto di destinare i 91 milioni di euro risparmiati dalla tranche di luglio ai terremotati di Emilia e Abruzzo. Peccato, però, si siano dimenticati di un particolare: la data. Quei soldi - come recita l’art.16 del disegno - non arriveranno finchè non ci sarà un decreto ministeriale. Che dev’essere preso entro 15 giorni dall’entrata in vigore della legge. Che ora, intanto, staziona in Senato. E se non si dovesse fare in tempo? Poco male: i soldi torneranno ai partiti. Urgente! Urgente!

di Carmine Gazzanni
bersani_alfano_ci_credevate_ai_rimborsiTrombe, grida, strilli. Soltanto alcune settimane fa i parlamentari italiani - Pd e Pdl in testa - si strappavano i capelli. Penitenti col cilicio, sbraitavano: dobbiamo tagliare assolutamente i rimborsi elettorali. Dopo gli scandali di Lega e Margherita dobbiamo correre ai ripari, si affrettavano a denunciare. Quasi come se fino a ieri non avessero occupato loro i banchi di Camera e Senato, quasi come se buona parte degli scempi a cui oggi noi assistiamo non fosse perlomeno in parte responsabilità loro.
Ma lo sappiamo: gli italiani sono di animo buono. E, passando sopra alle boiate dei galantuomini in doppiopetto, si sono detti: questa volta li vedo convinti. Questa volta ce la fanno.
E sembrava quasi ce l’avessero fatta: il ddl, presentato in amorevole accordo bipartisan da Pd e Pdl, è stato approvato a tempo record alla Camera ed è passato al Senato. Tra i provvedimenti, nientepopodimenoche il dimezzamento dei fondi e ben 91 milioni di euro della tranche di luglio stanziati, tramite un emendamento, ai terremotati di Emilia e Abruzzo (soldi destinati agli “interventi conseguenti ai danni provocati dagli eventi sismici e dalle calamità naturali che hanno colpito il territorio nazionale a partire dal 1º gennaio 2009”). Un gesto politicamente e moralmente encomiabile. Peccato, però, che la coerenza dei nostri parlamentari ha vita breve. Vuoi lo sforzo alla Camera, vuoi la fatica del lavoro parlamentare, vuoi lo stress del sole di giugno, in Senato i parlamentari hanno perso la retta via.
Sono giorni ormai che le trombe di Pd e Pdl non suonano più. Di lamenti e grida nemmeno l’ombra. Il ddl è fermo, a riposo. La celerità della Camera è stata sostituita da un iter da bradipo in Commissione Affari Istituzionali del Senato. Non solo. Quell’emendamento che avrebbe destinato 91 milioni di euro ai terremotati rischia di saltare. Così come tutto il ddl.
Capiamo perché. Il testo, infatti, dopo tante (e tante e tante) belle e lodevoli parole si conclude con un articolo, il 16. “I risparmi derivanti dall'attuazione dell’articolo” - è scritto - non arriveranno ai comuni in maniera automatica, ma sono prima “da accertare con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze entro quindici giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Per cui, in altre parole, i soldi al momento sono stati destinati ai terremotati solo a parole. È necessario, infatti, innanzitutto approvare il ddl in tempi brevi in Senato, poi fare un altro decreto ministeriale che innanzitutto “accerti” il risparmio. Dopodiché i soldi saranno “riassegnati ad apposito programma dello Stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze relativo alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della protezione civile” che, a sua volta, provvederà a destinarli “alle amministrazioni pubbliche competenti in via ordinaria” dei comuni colpiti. Un percorso interminabile che impiegherà giorni e giorni per arrivare al dunque.
Facciamo un rapido calcolo. Mettiamo pure che - caso impossibile - il Senato approvi senza batter ciglio il testo lunedì. L’articolo 16, come detto, impone al Ministro dell’Economia (Mario Monti) di confezionare un ulteriore decreto che accerti il risparmio entro massimo 15 giorni. Mettiamo che impieghi una settimana. Siamo già al 25 giugno. Dopodiché i soldi saranno destinati alla Protezione Civile che, con un ulteriore provvedimento, dirotterà la somma ai comuni. Seppure si facesse in tempi record arriveremmo comunque a fine giugno. Ma non basterebbe. Perché, come molti sapranno, prima che un provvedimento diventi operativo devono passare altre due settimane (a meno che il provvedimento non sia dichiarato urgente, ma non è questo il caso). Si arriverebbe dunque a luglio inoltrato. Troppo tardi: se il provvedimento infatti non dovesse essere approvato per il mese di luglio, sarebbe in vigore la legge precedente sui rimborsi e dunque i partiti riceverebbero tutti i soldi desiderati. Compresi quei 91 milioni di euro.
Poco male. Il terremoto, dopo due-tre giorni, non fa più notizia. Le trombe dei politicanti, ora, possono tacere.

 Fonte: infiltrato.it

ZIO GINO E IL VOTO IN GRECIA

Grecia, vincono i conservatori
Samaras: "I greci hanno scelto l'Europa"- "Governo al più presto, rispetteremo gli impegni" afferma il leader di Nea Dimokratia.

EPPURE SI PARLAVA DI UNA GRECIA IN FERMENTO, UN PAESE CONTRO L'EUROZONA. DICIAMOLO: O LE ELEZIONI SONO STATE TRUCCATE, O CI HANNO RACCONTATO CAZZATE SU CAZZATE! 

 

domenica 17 giugno 2012

Denunciati a Genova 3 cardinali. Lo scorso 8 Maggio il Tribunale di Savona ha emesso un provvedimento storico in Italia

giovedì 31 maggio 2012

Esposto di accertamento nei confronti dei Cardinali: Dionigi  Tettamanzi, Tarcisio Bertone e Angelo Bagnasco.

Rendiamo noto che Rete L’ABUSO ha depositato questa mattina 24/05/2012 per mano del portavoce Francesco Zanardi, un esposto presso la Procura della Repubblica di Genova.
L’accertamento che chiediamo alla Procura di Genova è conseguenza diretta del provvedimento emesso dal GIP Fiorenza Giorgi della Procura di Savona lo scorso 8 maggio (Allegato 1), nei confronti dell’ex vescovo di Savona, ora a Cremona, Dante Lafranconi.
Il provvedimento di cui sopra è indubbiamente da considerarsi storico per l’Italia e potrebbe portare la maggior parte di vescovi italiani a dover rispondere di probabili omissioni e favoreggiamenti nei confronti di preti pedofili a danni di minori. L’accusa incardinata dalla Procura di Savona non è di molto differente da quella che ha portato, già nel 2004, l’allora Cardinale Ratzinger davanti ai giudici degli Stati Uniti, la stessa che ha portato molti Cardinali, anche in Europa a dover rendere conto alla legge laica di analoghe omissioni.
La prima è quella rilasciata da don Schiappacasse durante la trasmissione Matrix, che vide ospiti nel marzo scorso proprio il portavoce de L’ABUSO Francesco Zanardi, l’avvocato di Seppia, Don Di Noto, e tre vaticanisti. In quella circostanza il sacerdote dichiarava  ai mezzi di informazione di essersi reso conto delle tendenze pedofile del Seppia e di averle denunciate già parecchi anni prima all’allora vescovo di Genova.
E’ verosimile quindi che i Cardinali Tettamanzi, Bertone e l’attuale Arcivescovo di Genova, Bagnasco siano stati, come nel caso savonese, al corrente delle tendenze pedofile del Seppia ma che abbiano scelto di non intervenire a scapito delle vittime e quindi a tutela della chiesa.
Altre ipotesi che proverebbero questa modalità di non intervento e cheemergono da altre testimonianze, uscite anche sui giornali e mai smentite dal clero, coinvolgerebbero come persona informata sui fatti anche il Vescovo di Albenga Mario Olivieri.

In questo caso, grazie al provvedimento del GIP di Savona Fiorenza Giorgi, graverebbe anche qui la responsabilità stabilita dal secondo comma dell’art.40 del codice penale secondo il quale “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.”
Un’ulteriore verifica che viene chiesta alla Procura di Genova riguarda la notizia appresa dalla stampa: mentre Riccardo Seppia si trovava in carcere ed era in stato di isolamento, ha ricevuto la visita del vescovo Angelo Bagnasco il quale è riuscito ad incontrare Seppia nonostante il divieto di visite disposto dal Magistrato
L’avvocato Carla Corsetti del foro di Frosinone, difensore dell’associazione, ipotizza che alla luce di questo importante precedente creatosi a Savona, anche la Procura della Repubblica di Genova interverrà doverosamente effettuando quanto meno le stesse indagini, procedendo all’acquisizione della medesima documentazione prelevata dalla procura nella Diocesi di Savona-Noli anche nell’Arcidiocesi di Genova.
Rete L’ABUSO, tramite gli associati sul territorio italiano sta provvedendo a divulgare quanto più è possibile alle magistrature, studi legali e associazioni, il provvedimento prodotto dalla Procura di Savona l’8 maggio scorso, fondamentale informazione oggi applicabile anche in Italia, di utilità giuridica per i procedimenti in materia di pedofilia clericale attualmente aperti o non ancora prescritti nel nostro paese.
Non possiamo tenere conto solo del profilo penale ma anche del fatto che, in questo caso, esiste un dovere morale e di tutela non solo verso coloro che hanno già subito abusi da preti pedofili e ai quali la chiesa nega qualunque tipo di supporto, venendo indubbiamente meno al civile dovere di responsabilità, ma anche di prevenzione e di garanzia che i vescovi DEVONO dare ai minori e alle famiglie che li affidano alle parrocchie italiane.
Le arroganti ed incivili linee guida diffuse dalla CEI (solo in Italia ed improponibili nel resto di paesi europei colpiti dalla pedofilia clericale) sostanzialmente non cambiano dalla Crimen Sollicitationis (Allegato 4), non contengono alcun riferimento alla tutela delle vittime ma sono volte solo alla tutela dell’immagine della chiesa che si riconferma priorità rispetto alla salute dei minori: i vescovi si autoeleggono protettori dei pedofili, negando qualunque tipo di garanzia;
1)      Nessun obbligo di denuncia 2) Nessuna apertura degli archivi vaticani e diocesani dei casi di preti criminali 3) Nessun risarcimento alle vittime e nessun sostegno 4) Nessuna collaborazione attiva e spontanea, ma solo il non ostacolo alla legge  5) Nessuna chiusura dei luoghi di allevamento dei preti pedofili e abusatori sessuali (seminari)  6) Nessun automatismo sulla espulsione dei preti macchiatisi di crimini sessuali  7) Nessuna indagine e rimozione delle cause della pedofilia clericale.

C'è n'è abbastanza per chiarire che le linee guida sono lo strumento della CEI a protezione dei loro adepti e per soffocare lo scandalo. La parola d’ordine per i vescovi sarà: omertà. Di fronte a questa posizione della CEI insorgono anche le associazioni cattoliche, che la condannano pienamente.
Sempre allo scopo di informazione e tutela preventiva nei confronti dei minori affidati al clero, Rete L’ABUSO ha cominciato (attualmente su Cremona e Savona) a divulgare tramite le inserzioni sponsorizzate di Facebook il provvedimento del’8 maggio, allo scopo di farlo conoscere quale strumento che eventuali vittime possono utilizzare in sede penale.
Ma è anche importante che si conoscano i meccanismi utilizzati dalla chiesa per coprire gli abusi. A questo scopo abbiamo utilizzato la documentazione riguardante prelevata in curia dalla magistratura, riguardo il caso di Savona, che spiega come la chiesa è riuscita a coprire (malgrado fosse al corrente e preoccupata delle tendenze pedofile di Giraudo, dall’anno stesso in cui prese i voti) per ben 32 anni un conclamato pedofilo senza mai denunciarlo, fino a che la magistratura non è intervenuta.
Francesco Zanardi
Prtavoce Rete L'ABUSO
cell. 3927030000

http://www.anticensura.it/articolo/?titolo=Denunciati+a+Genova+3+cardinali.+Lo+scorso+8+Maggio+il+Tribunale+di+Savona+ha+emesso+un+provvedimento+storico+in+Italia

 

ZIO GINO -FANCULO ITALIA-

Dovrei sentirmi orgoglioso di essere italiano? no, non mi sento orgoglioso di una nazione integralista e bigotta, appassionata alla furbizia, alla corruzione e al cemento. Non sono orgoglioso di essere nato in una nazione dove la volontà popolare viene discussa da pochi infami, non sono orgoglioso di essere italiano come  bruno vespa, monti, ciarrapico, verdini, draghi, bisignani e andreotti. Non provo nessuna passione a vincere i mondiali di calcio, non mi entusiasma un cretino che si erge a paladino, ho paura degli eletti, di quelli che vanno troppo spesso in tv a promettere il cielo.
Non porto con orgoglio i colori di questa bandiera, nata per issare il male e congelare il bene, nonostante gran parte dei santi fossero italiani. Non sento nessun brivido ascoltando l'inno, anzi,  comincia a starmi sulle palle, non capisco cosa ci sia di bello nell'essere nato in  un paese di traditori, di svenduti e di arroganti.
Il posto dove le mamme offrono le proprie figlie agli affaristi, ma sarebbero capaci di giudicare le mamme tailandesi e brasiliane, dove una partita è importante di un terremoto. FANCULO ITALIA!!!

sabato 16 giugno 2012

ZIO GINO UNO SPUTO VERSO ALFANO

"E' giusto - ha sottolineato Alfano - il principio del chi sbaglia paga. E devono pagare anche i magistrati". Spuahk, SPERO DI COLPIRTI IN UN OCCHIO, RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI? .... QUELLA DEI POLITICI LA RIMANDIAMO AL PROSSIMO SECOLO. GUARDATELO PER FAVORE!!! MA QUELLI CHE L'HANNO VOTATO, OLTRE AI MAFIOSI, CHE CAZZO CI AVRANNO VISTO IN COSTUI?

venerdì 15 giugno 2012

Sartre e la letteratura- Intervista a Sandra Teroni

di Andrea Porcella

1) Vorrei iniziare con una domanda di carattere generale e introduttivo riguardante il rapporto tra filosofia e letteratura in Sartre. Qual è secondo lei il ruolo che riveste la riflessione filosofica all’interno della produzione letteraria di Sartre? Potrebbe ricostruire, nelle sue linee generali, il travagliato rapporto tra filosofia e letteratura che contraddistingue l’opera di Sartre e che, a dire dello stesso, trova il proprio epilogo nel 1963 con la pubblicazione di Les Mots?
Il rapporto tra filosofia e letteratura non mi sembra particolarmente travagliato, mi sembra invece particolarmente fecondo e riuscito. Non solo perché il sogno giovanile espresso nei termini iperbolici di “essere al tempo stesso Stendhal e Spinoza”, Sartre lo ha in qualche modo realizzato, ma per l’originale ibridazione tra filosofia e letteratura di cui tutta la sua opera testimonia. Il risultato più innovativo, e unanimemente apprezzato, è quello prodotto sulla scrittura filosofica: L’Etre et le Néant si nutre complessivamente di una scrittura letteraria e di un’immaginazione romanzesca che fanno di un “saggio di ontologia fenomenologica” una lettura appassionante, sciogliendo in splendide immagini una concettualizzazione ardua e formule potenzialmente ermetiche. Basti pensare alle pagine che concretizzano l’analisi della malafede in termini di commedia della vita quotidiana, attraverso la gestualità fra il professionale e l’affettato di un “garçon de café”, o quella della relazione con l’Altro mettendo in scena il corpo e la carezza tra amanti…
Sul terreno letterario, forse, le cose sono più complesse e non sono mancate le riserve. E tuttavia non c’è dubbio che con il suo primo romanzo, La Nausée, Sartre vince una duplice sfida: “dar forma letteraria a un’idea filosofica”, costruendo un personaggio e una storia attorno al concetto di “contingenza”; e al tempo stesso piegare la forma letteraria del diario, tradizionalmente utilizzata per l’esplorazione della vita interiore, alla scoperta della mancanza di senso del reale quando la coscienza non lo investa di categorie interpretative, si tratti di oggetti, luoghi, gesto, corpo. E Les Mots, che chiude il cerchio aperto una trentina di anni prima con La Nausée, sancisce questa sintesi di filosofia e letteratura, con un racconto autobiografico permeato di forza interpretativa alla luce delle nozioni elaborate dal filosofo e con una scrittura ad alta densità figurale che esibisce il suo carattere letterario e che rappresenta il massimo impegno sartriano sul piano stilistico. Con un serrato, sapiente, uso di citazioni e allusioni, riprese e rovesciamenti parodici, lo scrittore rivendica la sua identità e il suo irriducibile rifiuto di lasciarsi fissare in immagini codificate, ovvero fa rivivere attraverso l’auto-rappresentazione quelle analisi della coscienza e della funzione dello sguardo dell’altro che erano state al centro della sua prima grande opera filosofica..
Ma il discorso vale anche per il teatro, che non è un’illustrazione della filosofia bensì un’originale drammatizzazione di situazioni esistenziali e di conflitti morali, attraverso la creazione di situazioni-limite, di confronti implacabili, di colpi di scena, di dialoghi scintillanti. E si estende a quelle opere difficilmente classificabili con le quali Sartre ha interrogato e interpretato altri grandi scrittori, da Baudelaire a Mallarmé a Flaubert, passando per Jean Genet. Infine, le pagine pubblicate postume, perché non finite (come La Reine Albemarle ou le dernier touriste) o non destinate alla pubblicazione (come i Carnets de la drôle de guerre), proprio in ragione di questo loro particolare statuto, mostrano in maniera ancora più scoperta il continuo intreccio fra procedimenti letterari e riflessione filosofica.
Il rapporto travagliato è semmai quello fra impegno politico e letteratura. Su questo terreno, anche per Sartre come per altri scrittori moderni, l’equilibrio è precario e i prezzi pagati sono alti. Quando, negli anni trenta, Sartre studia Husserl nella Germania hitleriana (1933-1934) e fin dai primi viaggi si entusiasma per l’Italia e per Tintoretto nonostante il fastidio delle camicie nere, quando scrive il saggio sull’immaginazione, La Nausée e le novelle riunite in Le Mur, tra il 1929 e il 1938, totalmente assorbito dalla sua passione di farsi scrittore e filosofo, lo fa a prezzo di una totale sordità rispetto a ciò che avviene intorno a lui, nel mondo reale e nella coscienza di vasti ambienti artistici e intellettuali che si mobilitano contro i fascismi, le persecuzioni, l’antisemitismo, l’incombente minaccia di guerra. E viceversa. Nel ’52, la decisione di abbandonare il libro sull’Italia a cui sta lavorando e che vuol essere un’altra grande sfida, La Reine Albemarle ou le dernier touriste, per dedicarsi a un testo-manifesto, Les Communistes et la Paix, assume il valore emblematico di una rinuncia più sostanziale che approderà alla decisione, presa durante la guerra di Algeria, di chiudere con gli scritti di finzione e di mettere la propria penna al servizio delle ingiustizie. L’intellettuale impegnato che diventa il portavoce degli oppressi di tutto il mondo e si fa carico di intervenire sulla sclerosi del marxismo dotandolo di un’antropologia lo fa a prezzo di una rinuncia alla scrittura letteraria; salvo recuperarla per sancire e proclamare questa rinuncia nel racconto parodico della propria vocazione di scrittore, appunto con Les Mots, iniziato nel ’53 e portato a termine una decina di anni dopo.

2) Vorrei ora spostare l’accento su quelle che sono le influenze, i debiti che Sartre contrae con il mondo delle lettere. Molti sono a cui la critica fa da anni riferimento per spiegare e rintracciare la genesi del romanzo e del teatro sartriano. Prima di tutto Flaubert, a cui Sartre dedica l’ultima e la più voluminosa delle sue opere, poi Stendhal, Malraux, Gide, Proust e Celine, da cui Sartre riprende, in La Nausée, una delle poche epigrafi presenti nelle sue opere, e infine gli anglofoni Faulkner, Dos Passos e Joyce. Qual è a suo avviso la figura più rilevante rispetto alla quale Sartre, sia per continuità che per contrapposizione, prende maggiormente spunto per formare la propria originalità letteraria?
Sartre è uno scrittore che si definisce “contro”, come lui stesso ha visto lucidamente. Da questo punto di vista, fra i nomi che lei ha citato, si impone quello di Proust, soprattutto negli anni Trenta e per La Nausée, ma ancora negli anni Cinquanta per quello che si può ricavare dalle pagine finora ritrovate della Reine Albemarle. E’ uno scrittore che ha praticato in maniera disinvolta quanto insistita il riuso della scrittura altrui, in un’intertestualità diffusa e puntuale magistralmente realizzata con una giostra di riprese, ammiccamenti, rovesciamenti parodici. Ancora una volta, La Nausée è esemplare da questo punto di vista, polemizzando con Maupassant, ridicolizzando il Malraux umanista della Prefazione a Le Temps du mépris, riformulando dal basso la malinconia cara alla letteratura romantica e post-romantica, e così via. In quanto all’epigrafe di Céline, ha il valore di un omaggio a una scrittura di cui negli anni Trenta Sartre vede tutto il carattere dirompente e alla creazione di un personaggio come Bardamu (L’Eglise, ma anche e soprattutto Voyage au bout de la nuit), un anti-eroe “senza importanza collettiva, appena un individuo”. Ma La Nausée non è un caso isolato: Les Mots riprende e amplifica fino alla vertigine questa scelta stilistica, tanto da far parlare di una scrittura-palinsesto (si veda la raccolta di studi a cura di Michel Contat, Pourquoi et comment Sartre a écrit ‘Les Mots’, PUF 1996). Sartre è anche uno scrittore estremamente attento ai procedimenti narrativi, giustamente convinto che “ogni tecnica narrativa rinvia a una metafisica”, come non manca di esplicitare nella sua virulenta stroncatura di Mauriac (1939). Da qui il suo interesse per gli scrittori americani, della cui lezione si serve per gli Chemins de la liberté.
Lo stesso avviene nella scrittura per il teatro. Pirandello è il drammaturgo che sicuramente sente a lui più congeniale; in Strindberg vede un genio e con Brecht condivide l’estetica dello straniamento anche se con riserve e riformulazioni. In quanto al riuso, basti pensare che su undici pièces, due sono “adattamenti” (Kean e Les Troyennes), due sono riscritture di miti cristiani e classici (Bariona e Les Mouches) e che tutte, o quasi, si fondano su “prestiti” talvolta esibiti e comunque ormai puntualmente reperiti dalla più recente critica (si vedano le “Notices” nell’edizione della Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard 2005). Ma questa pratica dell’innesto su altri testi (anche sui propri) non toglie nulla alla originalità dei testi sartriani, semmai ne evidenzia il carattere intrinsecamente dialogico o, bachtinianamente, pluridiscorsivo.
In quanto a Flaubert, la questione è diversa: si tratta di un confronto con uno scrittore che ha fatto la scelta della letteratura contro la vita, un confronto che assume il carattere di un corpo a corpo perché si tratta anche di fare i conti con un proprio fantasma. Su questo piano, del resto, non meno interessante è il confronto con Mallarmé, da cui Sartre è stato altrettanto affascinato e con cui è stato meno severo. Sarebbe da approfondire, ma penso che l’abbandono dell’ambizioso studio su Mallarmé stia in una qualche relazione con la decisione, posteriore di qualche anno, di realizzare quello su Flaubert.

3) Mi sembra che negli ultimi anni gli studi su Sartre si siano particolarmente concentrati sull’aspetto più fenomenologico della sua produzione. L’interesse si è rivolto principalmente alla prima produzione filosofica, quella che intercorre tra la Trascendence de l’ego e L’Etre et le Néant, nel tentativo di misurare, attraverso la specificità dell’interpretazione sartriana della filosofia di Husserl, l’apporto di Sartre al «movimento» fenomenologico della prima metà del ‘900. Questa prospettiva, che ha l’indubbio merito di rendere meno vago l’esistenzialismo sartriano, e non solo, mi sembra trascurare l’aspetto letterario della sua produzione. É possibile secondo lei rintracciare nei romanzi e nel teatro un approccio, per così dire, fenomenologico alla narrazione?
Penso di sì, e ancora una volta in maniera più vistosa nei testi degli anni Trenta, La Nausée e le novelle, relativamente allo statuto della coscienza, innnanzitutto. Roquentin si vuole privo di vita interiore, rifiuta la psicologia, è pura coscienza del mondo, che è tutto fuori di lui, compresa la Nausea da cui è assalito; al suo diario affida di registrare non un’esplorazione bensì una dissoluzione del soggetto. Ma anche le sue percezioni degli oggetti risentono di questo approccio; basti pensare al boccale di birra, alla nauseante evanescenza dei colori, alle metamorfosi del sedile dell’autobus o della radice del castagno, e così via. In forme diverse e più mediate anche nel teatro gli oggetti hanno questo tipo di presenza: penso al “bronzo di Barbedienne” in Huis clos o alla caffettiera di cui si serve Hoederer e su cui si interroga Hugo nelle Mains sales. Un vero e proprio esercizio di approccio fenomenologico mi sembra perseguito nei diari di guerra (pubblicati postumi col titolo di Carnets de la drôle de guerre), soprattutto quando oggetto dello sguardo sono i commilitoni.
Però non saprei dire di più sulla questione. Che è tuttavia del massimo interesse e che non mi risulta sia stata affrontata sistematicamente rileggendo in questa prospettiva i testi letterari. Varrebbe la pena di farlo, forse intrecciando le competenze filosofiche e letterarie. Non è facile, ma un approccio combinato permetterebbe di approfondire e rinnovare le letture dell’opera sartriana. Personalmente ho fatto un’esperienza in tal senso con Silvano Sportelli, a proposito della nozione di “autenticità” quale emerge nella scrittura diaristica dei Carnets (“Ecriture de soi et quête de l'authenticité », Etudes Sartriennes, IV, 1990) ; ed è stato appassionante.

4) Veniamo ora al suo libro su La Nausée. Potrebbe sinteticamente riassumere la sua tesi sul rovesciamento del cogito cartesiano operato da Sartre nel testo, e quindi tratteggiare la centralità del corpo nel superamento di una posizione egologica di tipo trascendentale?
Ci proverò, anche se si tratta di un lavoro ormai molto lontano nel tempo. Cominciamo col dire quali sono stati i miei punti di partenza: 1) l’osservazione di Georges Poulet, in un bellissimo studio ripreso in Etudes sur le temps humain (Plon, 1964), che La Nausée può essere letta come una parodia del Discours sur la méthode; 2) la lettura del testo originario del monologo di Roquentin, ridotto ed edulcorato da Sartre su richiesta del consulente legale di Gallimard in quanto suscettibile di incorrere nel reato di oscenità (M. Contat e M. Rybalka lo danno nelle varianti in Oeuvres romanesques, Bibliothèque de la Pléiade 1981; personalmente, ne ho curata la pubblicazione a fronte della versione definitiva in “Melancholia” seguito da “Eros e Cogito”, In forma di parole, luglio-settembre 1983). Dagli interventi censori sono uscite modificate non soltanto alcune fra le tante provocazioni alla morale dominante bensì quelle ben più nuove (non fosse che per la forma in cui venivano espresse) a uno dei pensieri fondanti della razionalità occidentale, attraverso la declinazione del cogito cartesiano nell’iterazione e nella ridondanza, l’irrisione del dubbio metodico trasformato in oppressivo, caotico, affastellarsi di pensieri appena abbozzati e giustapposti, l’intrecciarsi della meditazione filosofica con la volgare concretezza di una fantasia sessuale. La ripresa caricaturale, in funzione di un rovesciamento dall’essere all’esistere, è ancorata sul primato del vissuto corporeo, più precisamente dell’immediatezza della pulsione sessuale e del bagaglio di immagini – del vischioso, del fallico, della lacerazione, della ricaduta, della violenza sul corpo altrui e sul proprio - che l’accompagna, in un miscuglio di attrazione, orrore, angoscia. Provocatoriamente sovrapposti e confusi, i due linguaggi – della riflessione astratta e del sessuale – non si ricongiungono a comporre un’unità, a dare spessore a un soggetto, producono al contrario un effetto di vertigine, che l’abolizione della punteggiatura mima al livello dell’enunciazione. Eros e cogito sono investiti da una carica negativa, da uno spirito corrosivo che padroneggia le armi dell’ironia, della parodia e del pastiche per dare forma e “salvarsi” trascendendo la “dolorosa ruminazione” e la fascinazione della materia.

5) Il teatro. Lei ha collaborato insieme a Michel Contat alla recente pubblicazione dell’edizione critica di tutto il teatro di Sartre. Come per i romanzi, gli avversari politici e culturali di Sartre hanno spesso sostenuto che il teatro sartriano manca di originalità e di «purezza», essendo una macchina, un “test” vivente dell’apparato concettuale della sua filosofia. Ora, come spesso accade, le critiche si basano su una parte di verità. Lo stesso Sartre considerava infatti il teatro come un’arte impura, un ibrido con fini pedagogici, nei confronti del quale il romanzo costituiva la forma letteraria per eccellenza, la rappresentazione totale. Ma poi, con la solita incoerenza che contraddistingue la produzione sartriana, è proprio al teatro che Sartre affida il compito di rappresentare e sciogliere alcune delle problematiche più spinose e aporetiche della sua produzione teorica. Penso a Les Mouches in cui Sartre di fatto mette in chiaro il senso del suo umanesimo o al Diable e le bon Dieu a cui affida l’annosa questione della morale, o opere come Porte Chiuse e la Puttana rispettosa, in cui Sartre sviluppa e definisce la sua posizione politica. Qual é dunque la valenza e l’originalità del teatro sartriano? É possibile una collocazione e una valutazione storico-letteraria della produzione teatrale di Sartre al di là della semplice valenza pedagogica, morale e politica?
Sul teatro di Sartre ha pesato troppo a lungo, come un’ipoteca, l’idea di una subalternità nei confronti della riflessione filosofica, di cui i drammi non sarebbero che “illustrazioni” o addirittura ”applicazioni”. Ma è evidente che esso ha una sua autonomia di statuto ed è comprensibile e godibile a prescindere dall’opera filosofica; se così non fosse, fra l’altro, non si spiegherebbe il grande successo decretato da un vasto pubblico, ovviamente non sempre familiarizzato con la filosofia sartriana. Questo non significa che non esista un nesso con la ricerca filosofica, come del resto con l’opera romanzesca, e anche con le problematiche politiche. I drammi si configurano come esplorazioni teatralizzate delle teorie filosofiche, che sviluppano con diverso linguaggio e che talvolta anticipano, permettono di sciogliere certe aporie della riflessione teorica, di uscire da certe impasses dell’opera narrativa, di dialettizzare le posizioni rispetto alle aspre polemiche politiche, aprendo un’altra scena, che ha un suo linguaggio e offre altri dispositivi, una scena in cui le tematiche prendono corpo, sono rappresentate dal vivo e nello scambio di battute fra personaggi presenti in carne ed ossa.
Inoltre il ricorso alla forma drammatica è per Sartre contestuale a quella “svolta” di cui avrebbe detto e ripetuto che aveva diviso la sua vita in due: la svolta prodotta dall’irruzione della storia e dallo sgretolarsi di una facile buona coscienza. La crisi da cui nasce l’intellettuale militante del dopoguerra sollecita anche la ricerca di nuove modalità espressive, di cui quella dialogica si rivelerà la più feconda. E non solo perché il teatro, oltre che alla lettura è destinato alla rappresentazione e si configura dunque come strumento più diretto ed efficace rispetto all’intento politico di “unificare il pubblico”. Le ragioni sono più intrinseche: la forma drammatica gli si presenta come la più idonea a esprimere la perdita di una coscienza felice, il disgregarsi di una prospettiva egocentrica, il carattere problematico e contraddittorio delle relazioni tra gli uomini, la teatralità dell’esistenza. Nell’arco di tempo che va dalla guerra alla metà degli anni sessanta il teatro è la forma letteraria privilegiata per l’espressione di questo nuovo spessore del reale, di questo dibattito storico e interno; il terreno privilegiato, anche, per l’espressione della dialettica tra il filosofo, lo scrittore e il militante
E’ quanto evidenzia già il primo testo teatrale destinato alla rappresentazione pubblica e alla stampa, Les Mouches. La scoperta della libertà e dell’azione nell’impatto con un cataclisma storico - ovvero il passaggio da una libertà al grado zero come quella di Roquentin a una libertà della scelta nell’azione e nella situazione - annunciata come tema del ciclo romanzesco iniziato prima della partenza per la guerra, “Les Chemins de la liberté”, questa scoperta a cui Sartre non riesce a portare il suo personaggio, Mathieu, trova espressione sulla scena teatrale. Il dramma gli permette di isolare questa problematica e di metterla al centro dell’azione, secondo uno schema già collaudato con il testo di circostanza scritto per e con i prigionieri del campo (Bariona). Scritto tra l’estate del’41 e la primavera del ‘42 Les Mouches, attraverso la riscrittura di un mito classico, fa assistere alla “conversione” di Oreste nell’impatto con una situazione che rappresenta allegoricamente l’attualità storica – quella della Francia occupata dalle truppe naziste e doppiamente sconfitta perché accetta la collaborazione, avvelenata da un’ideologia della colpa e del rimorso. Nel contempo, le tematiche della libertà e dell’échec, dell’essere e del progetto, dell’inerzia e della tensione, escono dalla dimensione teorica (durante e non dopo la redazione dell’Etre et le Néant) per essere rapportate a precise situazioni e confrontate con le problematiche dell’azione; senza subire alcuna riduzione, accedendo al contrario a una dimensione mitica.
Questo spiega come i primi, notevolissimi, studi sulla produzione teatrale di Sartre (Francis Jeanson, Pierre Verstraeten) ne abbiamo valorizzato i contenuti e gli apporti originali sul terreno di quella Morale programmata fin dal ’43 e mai compiutamente realizzata. Più recentemente, con l’importante contributo di John Ireland (Sartre un art déloyal. Théâtralité et engagement, Jean Michel Place 1994) e con studi puntuali su singoli drammi, l’attenzione si è spostata sulla drammaturgia, la teatralità, la natura e le funzioni del dialogo, la pratica dell’intertestualità, delle riscritture e delle riprese parodiche. La recentissima pubblicazione del Théâtre complet nella Bibliothèque de la Pléiade, col suo ricco apparato critico, contribuisce notevolmente a una più articolata lettura del teatro sartriano, ne evidenzia l’originalità e lo ricolloca nel contesto (non solo francese) della drammaturgia novecentesca.

6) Infine una domanda di carattere più personale. In questi anni che ha dedicato allo studio del pensiero sartriano, qual è il lascito, il suo debito personale nei confronti del pensiero di Sartre?
Ho cominciato a leggere Sartre da adoloscente, La Nausée e L’Age de raison, come quasi tutti i miei amici, uniti dalle stesse inquietudini e dalla stessa ricerca di linguaggi diversi da quelli dell’ambiente scolastico e familiare. Mi sono immediatamente riconosciuta nelle problematiche e nell’universo sartriano. Da allora, non ho mai smesso di riconoscermi; nel bene e nel male: i suoi entusiasmi per le prospettive rivoluzionarie, le sue repulsioni per i potenti e i “salauds”, i suoi errori di valutazione, la sua scarsa fiducia nella democrazia rappresentativa, la sua diffidenza per la rigidità delle forme istituzionali, sono stati anche i nostri. Solo attraverso penose esperienze personali e storiche sono arrivata a prendere le distanze da alcuni aspetti ideologici, volontaristici e predicatori delle sue manifestazioni di pensiero e di vita: il modello di coppia aperta, un certo messianesimo, il presenzialismo, il settarismo di certi giudizi categorici su altri scrittori, le pretese normative nei confronti della letteratura…Ma in questa messa a distanza ha svolto un ruolo fondamentale la lettura approfondita e ripetuta delle sue stesse opere, soprattutto letterarie, che mi ha permesso da una parte di sviluppare un atteggiamento critico, dall’altra di scoprire quanto i testi sartriani dicano di più e di diverso rispetto all’immagine che si è creata del personaggio. Così Sartre, che pure sa essere talvolta tanto perentorio e incisivo, ha anche sollecitato la riflessione, a partire proprio dal suo caso, sugli effetti riduttivi e perversi della comunicazione secondo le leggi del mercato e dell’ideologia.
Gli studi su Sartre non sono stati i primi a cui mi sono dedicata, proprio perché lo sentivo troppo interno alla mia vita e alla mia formazione per farne oggetto di ricerca accademica. Ma da quando li ho iniziati, nei primi anni 80, mi hanno sempre arricchita, permettendomi di approfondire problematiche esistenziali, etiche e politiche che per il respiro con cui sono trattate, soprattutto nella forma complessa del linguaggio letterario, non solo portano a un maggiore livello di coscienza ma producono effetti liberatori. La ricchezza di riferimenti, oltre che di problematiche, dei testi sartriani mi ha indotto anche a rileggere e studiare altri scrittori francesi del Novecento e dell’Ottocento, risalendo fino a Stendhal, e mi ha stimolato una riflessione su persistenze e trasformazioni sia delle problematiche che dei procedimenti letterari nel lungo arco di tempo che va dalla Rivoluzione del 1830 agli anni Sessanta, quello di una modernità segnata dalla conquista della democrazia ma anche da esplosioni di barbarie, dalla scoperta e dall’angoscia della libertà all’inquietudine sul senso, dal sospetto verso il linguaggio e dalla fascinazione della parola.

QUANDO LA PUBBLICITÀ RENDE

Beppe Grillo al 21% dietro il Pd (24%). Monti in calo

sondaggio swg per agorà: beppe grillo cresce nei consensi
Il Movimento 5 Stelle è quasi il primo partito
Beppe Grillo al 21% dietro il Pd (24%). Monti in calo

Beppe Grillo (Imagoeconomica)Beppe Grillo (Imagoeconomica)
Cresce ancora il consenso degli italiani nei confronti del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che si attesta al 21%, registrando un aumento di quasi un punto percentuale (+0,8%) rispetto alla settimana scorsa. Il dato emerge da un sondaggio sulle intenzioni di voto condotto dall'Istituto Swg in esclusiva per Agorà, su Rai Tre. Swg conferma inoltre il trend negativo di Monti, in termini di fiducia, che scende al 33%. GLI ALTRI PARTITI - Tornando alle intenzioni di voto, dello 0,8% sale, oltre al movimento di Grillo, il Pd, che sarebbe votato dal 24% degli italiani. Perde invece quasi mezzo punto percentuale rispetto alla settimana scorsa il Pdl, che si attesta al 15%. Ritorna sotto la soglia del 6% l'Udc (5,7%), che perde un punto percentuale rispetto a alla settimana precedente. Sotto la soglia del 6% anche l'Idv, al 5,5% (-0,6%).
In totale le forze presenti in Parlamento hanno il voto di circa il 60% degli italiani che intendono recarsi alle urne, mentre ben il 40% non è attualmente rappresentato. Cresce, peraltro, il partito del «non voto» che passa questa settimana dal 42,2 al 45,8%.

TRATTO DAL CORRIERE DELLA SERA