domenica 26 ottobre 2014

Il vizio di parlare a me stessa di Martina Patriarca

Cedo alla stanchezza e rifiuto le righe ordinate della carta. La sento gravare tutta sulla mente: sono le 4.30 e non avverto più quel formicolio adrenalinico in petto che poco prima mi sussurrava di scrivere. Non per cambiare il mondo, certo, ma "per accendere le micce delle rivoluzioni nell'intimità del pensiero". E come cita qualcuno su una pagina della mia moleskine; non ho più sangue per nutrire questa rivoluzione. L'unica che ancora combatto è la lotta per la mia autarchia. Carmine dice che non esiste, che la mia attività intellettuale si è poggiata sugli allori della politica e della polemica pseudo-vetero femminista. In realtà ho solo superato il suo insegnamento, ho solo mangiato il mio maestro. Mangiato e digerito. Defecato, forse... Il prossimo passo sarà detronizzarlo della sua figura di giovane filosofo contemporaneo bello e oltreumano. A volte immagino sarà facile quasi come rubare le caramelle ad un bambino.

Forse l'intelligenza consiste nella accettazione e nella capacità del distacco dalle cose, soprattutto le più vicine. Natruralmente ciò che intendo ha un senso metafisico ed emotivo: mai sognerei di abortire l'insegnamento del materialismo. Quelle "spine sulla mia schiena" saranno pure una condanna, ma più sua che mia. Io non avrei voluto ferirlo. Ecco, adesso magari dovrò sorbirmi la ramanzina di uno dei suoi amici. Dovrò spiegargli cosa, a mia discolpa? Che volevo godere della leggerezza di una manciata di respiri alla nocciola. Che non potevo di certo resistere al richiamo del punk e del suo nichilismo spiccio: è il delirio di onnipotenza dei 19 anni ad impormelo. Dovrò scusarmi per aver lasciato qualche capello rosso sul cuscino, per i miei baci buoni di fiore fresco e vellutato. Eppure questa volta non scriverò pagine e pagine di rimproveri a me stessa, nè ad Alice, al suo spirito anarchico e spericolato. Se davvero dovrò pentirmi della gabbia d'oro che è l'amore, sarà la mia benedetta autarchia a sanguinare. Ma anche in quel caso, avrei un intero e freddo inverno, pieno dell' intimismo analitico ed esistenziale, nel quale trovare rifugio: chi meglio dell'amata me stessa sa salvarmi?

Senza questa corazza di superdonna che ho voluto indossare per inaugurare la serie di stralci che scrivo qui sopra, ammetto che è rimasta dell'aspra nostalgia, forse del rimpianto addirittura, per quella sensazione di leggerezza mista a curiosa attrazione dall'odore buono, dalle carezze e dai baci dolci, dal sapore di pistacchio e di nocciola, dalle canzoni forti che mi sono sempre piaciute. Mi ritrovo allora con un sacchetto in dono dalla sorte colmo di desideri abortiti, e un altro pieno di bucce di limoni pronti da lanciarti con lo sguardo non appena ti adombrerai al mio cospetto. So che non si tratta di una coincidenza se proprio adesso che sorge il sole è sempre poca la distanza che percorre il suono delle parole... ma il Divenire ci darà le risposte, e verrà a salvarci dal grumo di confusione caramellata che ci prende non appena siamo vicini.

Dovrei scrivere solo con l'inchiostro su carta, lo so. Su questa pagina muta, virtuale e insapore, non c'è il mio odore, nè un errore di distrazione, e nemmeno la mia curiosa e lunatica grafia. Per questo, forse, preferisco annotare qui riflessioni fantomatiche circa le mie "avventure" di adolescente spregiudicata. Ho trascorso giorni bellissimi, finalmente sereni, in compagnia dell'amore che ho scelto (o da cui non so fuggire?) e delle persone -meravigliose- che lo circondano da ventott'anni. Mi è bastato respirare un po' di quell'aria buona e fresca per scoprire, e riesumare dagli insegnamenti che la vita fornisce alla carne e alla mente da sempre, che bisogna solo ridere, e perdersi, talvolta, perchè quelle risate ci rinvigoriscano autenticamente. Quell'amore a cui non so rinunciare sta qui sul letto, dinanzi a me, e dondola i piedi, leggendo, proprio come, sin da piccina, io sono abituata a fare: questa è solo un'altra briciola di affinità, solo un'altra coincidenza che, piccola e banale, s'intreccia alle altre e forma quel nodo indissolubile che, a volte -penso- ci terrà assieme a lungo. Sapessi spiegarglielo, a quell'ometto tatuato, dolce e dispiaciuto, che ora s'adombra e m'ignora non appena mi vede.., magari capirebbe che nessuno di noi due ha colpa se abbiamo lasciato che per un paio di settimane, anche meno, quei bei discorsi di notti intere si tramutassero in una tenera benchè sadica alchimia. Non nego che proprio oggi che l'ho rivisto dopo giorni avrei voluto per un momento avvicinarmi ed abbracciarlo, e spogliarlo di quell'aura scura di nichilismo e risentimento che indossa per proteggersi dal cuore suo così buono e ingenuo...

E' tanto che non mi scrivo, e stavolta so di non doverlo fare con l'intento (non più così inconscio...) di innamorarmi della mia buona prosa, della bella dialettica.
Mi odia, e stavolta credo voglia farlo fino in fondo, deciso a resistermi una volta per tutte. Mi secca ammetterlo, ma devo aver sbagliato. Ho sbagliato a lasciare che di nuovo s'innamorasse di me abbandonandosi al simulacro idilliaco che mi ha disegnato addosso. Ho sbagliato a lasciarmi andare alla tentazione di godere delle tenerezze di un uomo sincero, e del compiacimento immenso che ho provato vedendogli brillare gli occhi per il solo fatto di essere al cospetto dei miei. Ho sbagliato, e non solo con lui. Con *******, devo confessarlo, non avrei dovuto prendermela così tanto per il solo stupido orgoglio di non ammettere di aver esagerato. Non avrei dovuto tradirlo e giustificarmi con la sfiducia che nutro per lui (e che altro non è che la mia più evidente insicurezza...) E ancora, non dovrei pretendere che le persone con cui ho a che fare comprendano e sopportino serenamente il mio despotismo, il mio estremismo e tutto ciò che ne consegue: non basta esibire una buona dialettica e una vasta gamma di esperienze precoci in campo politico per assicurarmi il rispetto e la stima degli altri. Troppo spesso mi sono perdonata per la stima che ho di me stessa, per quella che credevo fosse il mio amuleto personale, la mia "arte della gioia", e che, solo ora mi accorgo, non basta più (e forse mai è bastata...) Dev'essere così, perchè in questo modo si spiega l'odio e l'antipatia che quasi sempre ispiro alle persone che non mi conoscono bene. L'empatia che la mia indole detiene non è sufficiente perchè io salvi gli altri, specie perchè spesso e volentieri ho difficoltà a salvarmi da me... Ma non capisco, e mi dispiace!, perchè alcune persone si ostinino a volermi salvare con la propria, di empatia. A pretendere che lo faccia per ripagare il loro altruismo. Ognuno si salva da sè: non riesco a scagionarmi da questa certezza... E magari "il problema non è nella cucina, nè nei tulipani, ma nella mia testa. Solo nella mia testa".

Non scrivo più così spesso perchè preferirei che questi giorni bui passassero senza lasciare tracce tanto profonde e visibili. Mi chiedo quale sia l'arma per combattere e vincere il dolore dell'amore sconfitto, del senso d'impotenza, del rimorso di coscienza, della solitudine più buia. Il mio forte, amato odio non basta più, quasi l'avessi consumato tutto... E l'assenza, e la forza che ormai ho saturata, mi tengono muta e immobile sul filo pericoloso delle cose; visione del silenzio, angolo vuoto, pagina senza parole, una lettera scritta sopra un viso di pietra, e vapore, amore, inutile finestra...

Avrei dovuto convertire le mie notti al jazz molto prima... Tra tutti i generi di musica, qui lo dico e qui lo nego, è forse quello che meglio sa esprimere l'essenza degli stati d'animo. Sono il lamento armonioso e grave del sax di Miles Davis. Sono la carta consumata dal tempo e dalle stagioni, dalle giornate -numerosissime- passate a sfogliare un libro alla ricerca disperata delle parole che non riuscivo a scrivere, nè a pensare. Sono il campari che ho ingurgitato in qualche minuto, sono i vetri rotti del bicchiere che ho maldestramente rotto, oggi pomeriggio, perchè ti avevo vicino dopo settimane e settimane di assenza e rabbia e rammarico... Sono tutte le cicche che ho calpestato. Tutti i passi veloci, falsamente distratti, che ho fatto in tua direzione, senza neanche il coraggio di riconoscerlo a me stessa. Sono l'amarezza e lo strazio che sento ora che ti dico che non ero la donna giusta per darti la volontà di cambiare, o quella capace di accettarti così come sei. Sono la brace morente dell'amore sconfitto, il magone dell'abbandono. Sono le parole dolci e rassicuranti, le bugie bianche che dico a ***** pur di non dargli altre preoccupazioni mentre, pensandoti, avverto indelebile la nostalgia, il sentimento abortito che gronda lacrime e promesse agognate... Sono quella che, se ti perdessi un solo momento (...), spalancherebbe gli arti e la bocca ad accogliere nuovamente la tempesta di baci e carezze che conosco e rimpiango. Dei souvenir che gelosamente conservo, l'ultimo tuo dono è un silenzio insopportabile: lo custodisco insieme al mio, nella muta consapevolezza che, ti avessi ancora un minuto, non resisterei... non resisterei all'amore bagnato, alla patetica frase che farfuglierei nel tuo orecchio, quella che conosci, e ripete "vienimi nel cuore"...

Io non sopporto. Lo dico all'ultimo minuto. Non sopporto la debolezza del mondo, la conseguenza prevedibile del fatto che si specchi nella mia, che il riflesso la faccia più grande e impalpabile. Non sopporto l'arrendevolezza, e che pesi sulla mia disillusione fino a frenare la storia. Come sfumare completamente... Non capisco se si tratta di una sensazione o di un desiderio. Ma questo brivido l'ho già sentito in passato: pare che la mia schiena lo riconosca. L'arpeggio della chitarra pizzica ogni piccola vertebra. Ciò che conta è quello che ascolto, quello che sento. In ogni momento posso scegliere con quale canzone accompagnare il divenire, e chiudere gli occhi per colorare il buio se non mi piace quello che percepisce la vista. Non sopporto che il cinismo esista e mi contagi della mediocrità che ho sempre disdegnato. Non sopporto l'idea sbagliata che l'amore sia sacrificio per l'altro. Nel momento in cui di fatti la mente lo elabora come tale, cessa di essere gratuito, e quindi autentico. La colpa dell'amore immeritato è pura follia, un'epidemia che incendia il mondo e il mio cuore. Se solo ci lasciassimo scivolare la vita addosso come un getto d'acqua fresca... Se potessi addormentarmi sempre sul tuo petto, e condividere un'umida nostalgia in silenzio, come lo preferisco... Dove sei? E perchè lo chiedo? Ho bisogno di te? Non devo, non mi sei infatti dovuto. Ogni tuo gesto è splendido autentico dono, come le sfumature del cielo quando il crepuscolo decapita il sole. M'addormenterò pensandoti: la tua sola esistenza mi dà gioia. Questo è amore, e passerà e tornerà diverso come ogni stagione.

Eccomi che rompo il silenzio. Il cielo è plumbeo, muto, e non attendo più. Scivolano le parole senza controllo, lo ammetto: è svanito, sparito, perduto. L'istinto della prima e pura opposizione dialettica è bello che concluso. Non ho più bisogno di stringere, stritolare il mio santino d'odio tra le dita - non devo più disobbedire. Concedo per cortesia appena un granello di biasimo agli errori eristici dei romantici, alla metafisica puerile di chi "vuole di più". Ancora aldilà, "super", über, oltre... e superarsi soltanto in imbecillità (il sacro morbo è solito santificare la strada bagnata perchè, dopo tutto, da sempre è avvezzo a strisciarvi...) ma "tutto è qui, intero ed uno - e non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell'arco e della lira".




1 commento:

Anonimo ha detto...

La tua penna, fin dalla più tenera adolescenza, non si è mai smentita. Complimenti, come sempre brani di livello.