lunedì 21 ottobre 2013

Una contraffazione gesuitica

di Walter Cavalieri Ovvero "Mentite, mentite, qualcosa resterà" (Voltaire) Se si chiedesse al famoso italiano-medio chi ha detto "Il fine giustifica i mezzi" e cosa ciò significhi, la stragrande maggioranza indicherebbe Niccolò Machiavelli e sosterrebbe che la frase che riassume grossolanamente il suo pensiero sta a significare che per raggiungere uno scopo tutti i mezzi sono consentiti. Ci piace qui chiarire in proposito che la suddetta citazione è a tutti gli effetti un falso storico, non essendo mai stata detta, né scritta, né pensata dal Segretario fiorentino. Come e perché è nato allora questo gravissimo fraintendimento, radicatosi poi così tenacemente nel senso comune? Va ricordato in premessa che il disegno politico di Machiavelli fu per tutta la vita quello di realizzare anche in Italia uno stato unitario in grado di competere con quelli che già si contendevano la supremazia in Europa. Testimone dell'invasione francese, il suo desiderio era di liberare l'Italia dal "barbaro dominio" superando divisioni e particolarismi che rendevano il nostro Paese incapace di difendersi. In ciò egli si pose tra i primissimi sostenitori di una Italia unita, dopo Dante, Petrarca e Boccaccio. Con grande realismo politico egli sapeva che i processi unitari nazionali non dipendono dalla volontà divina, ma avvengono sempre grazie all'iniziativa di un Signore audace e potente in grado di sottomettere tutti gli altri. Pertanto egli scommise su di un Principe italiano (quale esso fosse: Cosimo de' Medici o persino l'efferato Cesare Borgia) capace di realizzare questo disegno con intelligenza fredda ed implacabile non condizionata da scrupoli morali, anche a costo di crudeltà e di guerre, con la forza di un leone e l'astuzia di una volpe (quello che ancora oggi i politologi chiamano "hard and soft power"). Egli scrive: "Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati" ("Il Principe", cap. XVIII). Senonchè, qualunque disegno unitario avrebbe comportato in Italia la soppressione dello Stato della Chiesa che tagliava in due la penisola e che non a caso sarà fino al 1870 il maggiore impedimento dell'unificazione. Machiavelli scrive esplicitamente: "La Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa." ("Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio", libro 1, capitolo 12). Non sorprende dunque che la Chiesa, minacciata non tanto nella sua dottrina quanto nel suo potere temporale, abbia additato il pensiero di Machiavelli come eretico ed immorale, ponendolo all'Indice per oltre tre secoli. I termini "machiavellismo" e "machiavello" furono veicolati con successo come sinonimi di furfanteria, inganno ed intrigo. Considerato dai denigratori solo un cinico maestro di malvagità, il primo grande pensatore politico dell'età moderna fu bollato come il "Satana della politica" e per secoli col termine inglese "Machiavel" fu indicato il nome di un diavolo… In questo quadro furono i teorici della Controriforma (per la precisione nel 1650 il gesuita tedesco Hermann Busembaum) a voler inventare la frase "Il fine giustifica i mezzi", come se essa potesse riferirsi fuori contesto non al nobile obiettivo politico caro al Machiavelli ma a qualunque fine, il più onesto ma anche il più immondo. Si può essere più o meno d'accordo a subordinare la liceità dei mezzi alla ragion di Stato, ma chiamare in causa Machiavelli in questioni private di passioni amorose o sportive, di malaffare o di clientelismo, significa comunque ripetere ogni volta un'ingiustizia verso l'Autore e citare a sproposito per bassi fini autoassolutori un motto formalmente e sostanzialmente inesatto. Nell’ottica machiavelliana di natura esclusivamente politica non vi è infatti alcun riferimento al conseguimento di leciti o illeciti interessi personali. Tuttavia quella frase è entrata fra i luoghi comuni della mediocre strategia di sopravvivenza della vita quotidiana tipica dell'atavica furbizia italiana, nonostante la riabilitazione postuma compiuta da grandi pensatori successivi, da Hegel a Gramsci. E soprattutto da Francesco De Sanctis il quale esclamò compiaciuto "Sia gloria al Machiavelli!" quando a Firenze ascoltò lo scampanio festoso che annunziava l'avvenuta breccia di Porta Pia.

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