lunedì 11 gennaio 2016

Cesare Pavese, una vita molto difficile!

La sua fine determinata e scelta il 27 agosto 1950 all' Hotel Roma di Torino.
Nelle sue opere, nelle sue poesie descrive molto bene la solitudine, la sua solitudine, quella solitudine che coinvolge molti comuni moltali.
SI RESISTE A STAR SOLI FINCHÉ QUALCUNO SOFFRE DI NON AVERCI CON SÉ, MENTRE LA VERA SOLITUDINE È UNA CELLA INTOLLERABILE (Cesare Pavese)
Solitudine è uno stato fisico, un’esperienza esistenziale, una forma mentis, un modo di vivere.
È una situazione difficile nella quale siamo costretti a confrontarci in continuazione con noi stessi e nella quale siamo privati di una grande priorità per la nostra sopravviven e la nostra specie: la socievolezza, la socializzazione, l’empatia.
La solitudine vera, come suggerisce Pavese, è una cella vuota, piena solo di noi stessi, delle nostre angosce, delle nostre sofferenze, dei tormenti che non ci abbandonano.
Una cella che, estremamente ricolma del nostro ingombrante fardello, non ha più spazio per gli altri.
È una prigione che, talvolta non è concreta ma evanescente, psicologica, in altri frangenti è fisica, di ossa e carne, è il nostro corpo.
La società che ci stiamo lasciando alle spalle ha creato un’infinità di celle, ha selezionato una cultura individualista che induceva la gente a chiudersi in se stessa, come un piccolo riccio, ad isolarsi dal prossimo perché troppo impegnata dai propri problemi, troppo stressata, troppo intenta a raggiungere il successo, ad accumulare denaro, troppo impaurita da un prossimo dipinto da tutti come rapace, aggressivo, violento.
Una società degna della vecchia definizione che la voleva gravitare attorno al principio dell’homo homini lupus.
Così, seguendo il diktat sociale, ciascuno restava chiuso nella sua piccola cella, serrato nella sua, più o meno sicura casa, ben isolato dal mondo reale e contento di trastullarsi con relazioni virtuali, di intrattenersi in una dimensione di bit e pixel, dove il pericolo sembrava minore che nel multiverso di atomi.
La solitudine della cella citata da Pavese è, però, ancora più dura della domestica, in quanto è, ancora prima che fisica, spirituale, mentale. Uno stato di completo abbandono ed oblio da parte della gente e del mondo che, continuano, noncuranti a proseguire nel loro svolgersi al di fuori del piccolo mondo del soggetto.
Ciò che rende insopportabile l’esistenza nella cella è l’assenza di una speranza, di un riferimento, di un punto fisso, di un aggancio emozionale ed affettivo con chi c’è al di là delle mura.
Recidendo il potete cordone dell’empatia che lega tutti gli uomini, ed il delicato filo del patos, della con-divisione, della complicità che unisce gli amici, i parenti, gli amanti, i conosceti… la prigionia, nel senso stretto del termine così come nel suo significato metaforico-traslato, affossa ogni bagliore di speranza, spegne ogni barlume di fede in sé, nel prossimo e, talvolta, persino, in Dio condannando l’individuo a pene infernali, a strazi insopportabili, ad immani angosce ai quali, spesso, non riesce a sopravvivere.
Per chi, invece, ha un vincolo affettivo, patemico, relazionale con almeno una persona all’esterno, la solitudine non è poi tanto devastante.
La sua forza viene dal sapere che, comunque, c’è qualcuno ad aspettarlo, che lo ama e patisce per la sua lontananza, che pensa a lui ed attende, impaziente, di poterlo riabbracciare, una volta liberato dal proprio isolamento.
(Marilena Pallareti)

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