sabato 7 dicembre 2013

Piccola favola messicana

Una piccola (ma neppure troppo) favola messicana. O meglio, un umile tentativo di risposta alla domanda: perchè ha ancora senso essere comunisti nel XXI secolo?

Quello che qualcuno chiama “sogno”, “utopia”, “impossibile”, “bei desideri”, “delirio”, “pazzia”, qui, nella terra dello Yaqui, si è sentito con un altro tono, con un altro destino. E c’è un nome per questo di cui parliamo ed ascoltiamo in tante lingue, tempi e modi. C’è una parola che viene dall’origine stessa dell’umanità, e che segna e definisce le lotte degli uomini e delle donne di tutti gli angoli del pianeta. Questa parola è libertà.

(Subcomandante Marcos)


C’era una volta, tanto tempo fa, un ricco possidente terriero che viveva in una grossa hacienda da qualche parte del Messico. Non importa quale. A dire il vero, non importa neppure che sia davvero in Messico. Potrebbe essere nel Brasile, o nella Colombia, o fra le vaste steppe dell’Argentina. Potrebbe perfino essere in un paese mai esistito. Ma dato che, quando uno deve scrivere un racconto, la prima cosa che gli consigliano è di ambientarlo in un posto, così che il lettore possa in qualche modo localizzare lo svolgimento dei fatti e meglio immaginarsi la vicenda, possiamo benissimo fare sì che il nostro ricco possidente terriero abiti da qualche parte del Messico, e figurarci il caldo sole di quelle terre, il cielo terso e spietato, e un immenso latifondo coltivato dalle braccia robuste di decine di lavoranti, provati dall’arsura e dalla fatica, costretti dalla miseria a spremere sudore su quei campi in cambio di uno stipendio da fame.

Lavoravano per il padrone, ma al padrone non importava poi molto dei loro sforzi. Erano altre, le questioni che catturavano la sua attenzione. Forse ignorava addirittura esistesse un mondo al di fuori delle feste e dei ricchi pranzi, delle partite a poker con i notabili del vicino paese e delle passeggiate a cavallo. Amava il vino e le belle donne, la musica e il gioco d’azzardo, la poesia e il buon cibo. I suoi vestiti erano fatti di tessuti pregiati, e i mobili della sua grande dimora, fatti venire direttamente dall’Europa, erano creati per lui dai migliori artigiani italiani, spagnoli e francesi.

I suoi banchetti erano la più grande attrattiva della regione. Ufficiali dell’esercito, giudici, alcaldes, il governatore stesso, tutti attendevano con trepidazione una delle periodiche cene offerte dallo spirito generoso di Don Josè Fonseca.

Molti di queste erano ormai entrati nella leggenda, come quella in cui il governatore, ubriaco come un indio alla sua prima sbronza, era crollato al suolo iniziando a camminare a quattro zampe imitando con una tale perizia i grugniti dei maiali che tutti ne rimasero impressionati, o quella in cui Don Josè, il sottoprefetto e un colonnello della milizia avevano dato inizio ad una partita a poker che si sarebbe protratta per novanta giorni, tanta era la determinazione di tutti a non alzarsi sconfitti dal tavolo.

“Fare prima a finire una partita a poker da Don Josè” divenne un’espressione proverbiale nella zona, usata per sottolineare l’impossibilità di un’azione.

Ma non era solo il poker, abbiamo detto, l’unico vizio di Don Josè. Un’esteta, amava definirsi lui. “E’ stupido amare i soldi per sé stessi” ripeteva sempre a chi gli stava vicino. “Non sono altro che pezzi di carta anche sgradevoli al tatto, ma quante porte possono aprire! Sono loro, sono i segreti nascosti dietro quelle porte che mi interessa amare. Datemi bellezza, datemi intensità, datemi varietà di piaceri. Non chiedo altro. Che io possa sprofondare nella tomba sazio di quel che ho goduto”.

Non era un bell’uomo, ma non era neanche brutto, e la sua ricchezza e le sue capacità affabulatorie aumentavano il suo fascino. Ebbe molte donne. Tutte le amò, ma come si ama una fresca brezza mattutina che spira dal mare. Subito spirava l’intensità del suo sentimento, subito ne aveva noia, subito giungeva l’ora di nuove conquiste. Nessuna traccia lasciavano su di lui gli amori passati.
Poco o nulla l’interessava la gestione dell’hacienda. Che inutile spreco di tempo e di energie! Tutta la contabilità era affidata ad un suo uomo di fiducia, un uomo grigio, anonimo, un freddo burocrate assolutamente privo di fascino, ma bravo nel suo lavoro. E così l’hacienda prosperava.

Per Don Josè, invece, iniziò ad affacciarsi la stagione della vecchiaia. Sempre inaspettata essa giunge, come il primo temporale d’autunno che soppianta l’estate. Ben sapeva, Don Josè, di dover divenire vecchio pure lui, un giorno, solo che quel giorno era arrivato e lui non se ne era reso conto.

Tremenda fu per lui quella scoperta. Non l’atterriva tanto la vecchiezza del corpo, quanto quella dello spirito. Davvero sembrava che i suoi mille piaceri gli fossero giunti a noia. Passava sempre più con frenesia dall’uno all’altro, ma senza più ricavare lo stesso godimento di un tempo: neppure i banchetti, o le sue amate, interminabili partite a poker riuscivano a distoglierlo dalla sua noia. Si ridusse a un’ombra infelice, l’ombra del sé stesso che era un tempo.

“Dove sono le mille gioie del mondo?” si lamentava spesso con coloro che gli erano più vicini. “Son qui, son qui, le vedo, non sono cambiate oppure fuggite via, eppure non riesco più a goderne il sapore. Nulla ha più il gusto trepidante della scoperta. Ho conosciuto il mondo e adesso mi chiedo: è davvero tutto qui?”
La sua ricerca di nuove esperienze divenne sempre più frenetica. Ogni giorno escogitava un vizio nuovo, ma il suo fisico non era più quello di un ragazzino, e rimase travolto da tanta dissolutezza.

Una sera calda d’estate, di quelle in cui la calura attacca le vesti al corpo e il sudore imperla le fronti di tutti, Don Josè sedeva sotto al patio della sua residenza, le carte in mano, un ufficiale di Città del Messico trasferito lì da poco di fronte a lui, all’altro estremo del tavolo, e ai lati l’alcalde del paese e un cugino del fazendero in visita di cortesia.

Dopo aver bevuto un bicchiere di Porto versatogli da un servo, il volto di Don Josè divenne giallo, poi rosso, poi viola e poi verde, il ricco possidente prese ad ansimare, annaspando faticosamente alla ricerca di aria, scivolando dalla sedia e cercando di aggrapparsi al tavolo per non cadere a terra. Gli altri cercarono di soccorrerlo, ma era troppo tardi. Con un tonfo sordo, Don Josè crollò riverso sul pavimento, gli occhi sbarrati, le mani fredde.

Qualcuno ancora oggi racconta che le carte della sua mano, sparse sul tavolo, erano due assi e due otto, di fiori e di picche, e un nove di quadri. “Favolette da gringos” ribattono invece altri, più scettici.

Arresto cardiaco, sentenziò il medico. Omicidio, sentenziarono altri sottovoce. Si rincorrevano dicerie secondo le quali Don Josè era stato assassinato dal suo sovrintendente, l’uomo che teneva in piedi l’hacienda e la faceva prosperare mentre Don Josè si dedicava agli stravizi. Il sovrintendente infatti era l’erede designato del ricco e vecchio proprietario terriero, e temeva, secondo molti, che Don Josè sperperasse tutte le ricchezze nella sua follia senile, lasciandolo con un’hacienda indebitata in mezzo a un mare di guai. Così aveva versato del veleno nel Porto con la complicità di un servo e aveva evitato che accadesse l’irreparabile.

Nessuna prova concreta fu mai portata a sostegno di questa tesi, eppure la voce si radicò così profondamente nell’anima popolare che tanti, ancora oggi, sono pronti a giurare che le cose siano andate effettivamente così. D’altronde non spetta a noi decidere come morì Don Josè, e neppure ci importa particolarmente. Ciò che importa, invece, è che il suo sovrintendente, quell’uomo grigio, dedito al lavoro, spiritualmente mediocre, così distante dal fascino istrionico del suo vecchio padrone da parerne l’antitesi vivente, divenne il legittimo proprietario dell’hacienda.

Fu così che i banchetti, la più grande attrattiva della regione, finirono. E finirono anche le interminabili partite a poker. E per molto tempo non si ebbero più sbronze epiche del governatore da raccontare.

Il nuovo padrone di quelle terre si sposò con una figlia di un vecchio generale in pensione dell’esercito, una ragazza grigia e anonima quanto lui, e molto più giovane, e prese a svolgere lo stesso lavoro che aveva svolto prima della morte di Don Josè. Condurre una vita sobria e morigerata, libera dai vizi e dalle dicerie della gente, essere moralmente irreprensibile e fedele alla propria moglie, creare denaro al solo di scopo di creare denaro come se fosse una missione religiosa e allontanarsi dalle tentazioni che potessero distoglierlo da quel suo grandioso progetto sembravano essere le sue uniche attività nella vita.

Tutto ciò che non potevano il suo ascetismo e la sua dedizione, poteva la protezione del suocero, vecchio eroe della guerra cristera e ancora molto influente e rispettato negli ambienti giusti. Fu così che divenne uno dei più potenti hacienderos di tutta la regione, accrescendo di molto le proprietà già immense che erano state di Don Josè.

Eppure la gente non lo amava molto. Mai un pranzo organizzato, mai qualche parola scambiata che non fosse in più rispetto a quello che prevedevano le elementari norme di cortesia, mai una barzelletta raccontata da ubriaco nelle occasioni ufficiali. Denaro liquido sgorga nelle vene di quell’uomo, e un portafogli rigonfio batte al posto del suo cuore, diceva la gente. Sembra quasi un gringo.

Un bel giorno, più o meno un paio di anni dopo la morte di Don Josè, il sovrintendente, così continuavano a chiamarlo tutti, stava passeggiando per le sue terre. Pensieri confusi si rincorrevano per la sua mente, e probabilmente molti si sarebbero stupiti se avessero potuto guardargli nella testa e decifrarli. Anche quella sua apparente volontà incrollabile, infatti, aveva delle crepe. Che proprio in quel momento stavano rivendicando la loro presenza nella testa del sovrintendente.

Tutto appariva così spento e privo di significato. Tutta quella sua dedizione, tutta quella sua fatica, a cosa era servita in fondo? Fin da bambino gli avevano insegnato a rispettare i propri doveri, e da ragazzo gli avevano inculcato i dettami della fatica e del duro lavoro come unico modo per realizzare sé stessi e riuscire nella vita. Ora era un uomo ricco e influente, ora la sua hacienda cresceva, ora aveva fatto molta strada da quando era solo un giovane imberbe e indifeso nella giungla della vita. Eppure cosa poteva dire di avere in più rispetto a quando tutti lo educavano a quei precetti? Soldi e potere, certo. E la soddisfazione di poter dire di aver compiuto il proprio dovere. Lui nella vita era riuscito. Ma cosa era, in fondo, quel dovere che doveva compiere? Perchè era tanto necessario compierlo? Era stato un idolo a cui aveva sacrificato tutta la propria vita, eppure quell’idolo non pareva ricompensarlo. Doveva forse sentirsi soddisfatto, per averlo adorato. No, non lo era. Si sentiva solamente vuoto. Non capiva fino in fondo quel dovere, dopotutto, quella era l’unica grande verità. Quel dovera era fuori da lui, una convenzione alla quale si era assoggettato, convinto che fosse la cosa più giusta perché tutti gli dicevano così. Ma forse lui non ci aveva mai creduto fino in fondo. Non sapeva cosa fosse, se non un immane, imponente totem che con la sua ombra lo aveva guidato durante tutto il corso dell’esistenza. Un’ombra rassicurate e protettiva, certo, che gli impediva di perdersi e uscire di strada, ma che in fondo l’aveva soffocato. Aveva soldi, potere. E aveva compiuto il proprio dovere. Un dovere che non capiva. Che non sentiva parte di sé. Così noiosa era stata l’esistenza, sotto quell’ombra opprimente! Era questo lo scopo del raggiungimento del dovere? Una noia che ammantava ogni cosa? Davvero non capiva. Davvero sembrava mancargli qualcosa. Fare denaro dal denaro, e poi da quel denaro altro denaro, ecco tutto ciò che aveva.
 
Mentre era immerso in quei suoi pensieri, il sovrintendente andò quasi a sbattere contro un uomo dalle vesti sdrucite e dall’ampio cappello di paglia che vagava anch’egli per quelle terre. Era magro, e aveva i lineamenti tipici dei mezzi indios, e una parte del loro sangue doveva sicuramente scorrergli nelle vene. Un paio di intensi occhi neri brillava sopra un naso ben proporzionato e una cascata spiovente di folti baffi. Poteva avere sulla quarantina d’anni, o giù di lì. Sul momento lo scambiò per un suo lavorante. E chi poteva essere altrimenti, così conciato? Con quella pelle così grinzosa e scurita dal sole, con quel lezzo di sudore così intenso che i braccianti avevano dopo ore passate a lavorare la terra in quell’inferno bollente?

Eppure, non gli sembrava di averlo mai visto prima. Forse non riusciva a ricordarsi, si disse. I braccianti, in fondo, son tutti uguali fra loro.

Senor, siete per caso voi il padrone di queste terre?” si sentì all’improvviso chiedere il sovrintendente.

Questi alzò lo sguardo stupito. Quel bracciante doveva avere l’intenzione di prenderlo in giro. O forse davvero non era un suo bracciante, ma un tipo che non aveva mai visto prima. Ma allora cosa diavolo ci faceva lì?

“Si, sono io”, si limitò a rispondere il sovrintendente, trattenendo per un momento le sue perplessità in attesa di riuscire a capire qualcosa in più.

“Me lo stavo giusto chiedendo. Non avete l’aria del peon, infatti”.

Senza dubbio lo stava prendendo in giro. Gesù, certo che non aveva l’aria del peon, lui che era il padrone di quelle terre.

“No. No, non la ho. Non mi ci scambiano, infatti, di solito” rispose irritato. “E voi invece chi siete, senor?”

“Un semplice viandante” ribatté l’uomo con un sorriso.

“E cosa fate per le mie terre, è lecito saperlo?”

“Passavo di qui. Non sono mica recintate”.

No, in effetti non lo erano, pensò il sovrintendente. Ma nessuno passava mai per le vecchie terre di Don Josè Fonseca. Tutti, nella regione, sapevano dove iniziavano e tutti sapevano a chi appartenevano. Tranne quello strano uomo, evidentemente. Forse doveva venire da molto lontano.

“E dove andate, di preciso, senor, nel vostro cammino?”

“Da nessuna parte. Ve l’ho detto. Sono un viandante, non ho una meta precisa”.

“Vi avevo scambiato per uno dei miei peones”.

“Già, probabile. In fondo i peones sono tutti uguali agli occhi del padrone, non è vero? Tutti sudici, rubizzi, segnati dalla fatica. Voi invece vestite bene. Vi godete la vita”.

Madre de Dios, pensò il sovrintendente. Magari si godesse la vita. No, davvero non sapeva come fare a godersi la vita, lui. Ma non ribatté.

“Non vi rompete la schiena sotto il sole, voi, nossignore” continuò l’uomo. “Voi avete chi lavora per voi, e non dovete guadagnarvi il pane”.

“Lavorano per me perché queste terre sono mie” rispose il sovrintendente. Nessuno gli si era mai rivolto con quel tono impudente.

“Ma la terra è di tutti. O quantomeno, di chi la lavora”.

“Dite, senor, siete forse un comunista?” chiese il sovrintendente iniziandosi ad insospettire.

“Si. O un seguace di Marx, se preferite”.

“Marx?” Un’espressione dubbiosa apparve sul volto del sovrintendente. Poi ebbe la fugace visione di una faccia barbuta, dallo sguardo arcigno. “Oh, si, quel Marx”.

“Già, quel Marx”.

Madre de dios. Un tipo così barbuto. Quasi lo si direbbe al solo vederlo, che deve per forza essere una specie di Gesù Cristo di voi altri”.

“Noi altri? Noi altri chi?”

Il sovrintendente parve interdetto da quella domanda. “Beh, voi altri”. Gli sembrava talmente ovvio, il significato di quell’espressione, che non pensava avrebbe dovuto spiegarlo. “Voi” si limitò ad aggiungere, non trovando di meglio da dire.

“Noi che viviamo miseramente fra gli stenti, noi che passiamo l’intera giornata sotto il sole a lavorare i campi dei padroni, noi che patiamo il caldo e il freddo e la fame? I dimenticati della terra, i reietti da Dio, da tutti fuggiti tranne quando c’è bisogno di un po’ di manodopera da sfruttare? E’ questo forse che volevate intendere, con il vostro ‘voi’?”

“Quanto siete ricolmi di cattiveria e di rancore, voi comunisti. Dio ha stabilito che le cose funzionino così. Che ci sia chi comanda e chi obbedisce. Inutile farsi il cuore cattivo, tanto le cose non cambieranno, non in questo mondo, almeno. Perchè non accettare la vita così come è e farsene una ragione?”

“Facile dirlo, quando si è chi comanda. Eppure non abbiamo il cuore pieno di rancore come dite, no, tutt’altro. Lo abbiamo rigonfio di speranza e di amore, invece, ma questo voi non sembrate capirlo”.

Il sovrintendente inarcò un sopracciglio. Se gliel’avessero chiesto non avrebbe saputo dire perché, e forse neppure voleva ammetterlo a sé stesso, ma quel tizio lo incuriosiva, in qualche modo. Aveva un modo insolito di parlare.

“Speranza e amore? Che intendete dire?” chiese. Gli suonavano tanto come quelle parole che troppo spesso si trovavano sulla bocca dei preti, buone per ovviare alla mancanza d’ispirazione nella scrittura dei sermoni, e talmente abusate da aver perso ormai qualsiasi significato. Non andava spesso in Chiesa. Don Josè era un frequentatore più assiduo, ma lo faceva più per mettersi in mostra che per altro.

“Speranza” rispose l’uomo, come se la risposta a quella domanda fosse la cosa più ovvia del mondo. “Speranza per la vità che verrà. E amore per l’uomo, per l’uomo privato della sua dignità, marchiato come un animale e ridotto in catene. Amore per tutti gli oppressi della terra”.

“Non vi avevo mai visto sotto questa luce”. Gli sembrava davvero linguaggio da preti. D’altronde, si fermò a riflettere, non erano pochi i preti comunisti di cui lui aveva sentito parlare. Che lo fosse anche lui, pensò? Eppure tutto aveva, tranne che l’aspetto di un prete.

“Non potevate” rispose l’uomo alla constatazione del sovrintendente. “Siamo così incomprensibili, ai vostri occhi. Siamo uno spettro che si aggira per il mondo. Ci odiate e avete paura di noi perché siamo la vostra cattiva coscienza. E siamo forse ciò che nel profondo anche voi vorreste essere”.

“Le vostre parole diventano sempre più strane”.

“Le vostre menti sono così offuscate. Noi abbiamo qualcosa che voi non avete. Noi abbiamo una speranza, un motivo per cui lottare. Abbandoniamo ogni sicurezza, quella minima sicurezza che ci può fornire la nostra vita di stenti, per combattere per la nostra liberazione, la liberazione degli oppressi. Per amore dell’uomo. Una fede nell’uomo così scandalosa, per voi. Presi dal vostro accumulare ricchezze, avete dimenticato ogni altra cosa. La nostra passione è così antieconomica che costituisce davvero ai vostri occhi oggetto di scandalo e fonte di continue domande. Cosa ci muove? vi chiedete, sorpresi voi stessi dalla vostra incapacità di capire. Cosa muove noi strani spettri tanto lontani da voi? Qualcosa di molto semplice. Noi abbiamo fatto una scommessa”.

“Una scommessa?” chiese il sovrintendente incredulo.

“Già, una scommessa. Una scommessa che sembra illogica e irrazionale vista con i vostri metri di giudizio, che sono i metri di giudizio di chi conosce solo profitti e denaro da accumulare. La scommessa della possibilità dell’esistenza di un mondo nuovo e migliore, dove non esisterà più lo sfruttamento, o la guerra, o la miseria. Noi abbiamo scommesso su questa possibilità. E se anche ci fosse una sola probabilità su un milione che questa possa mai verificarsi un giorno, è una possibilità sulla quale conviene comunque scommettere, perché è un buon motivo per cui lottare e sacrificarsi. Cosa ci resterebbe altrimenti? La posta in gioco è incomparabile. A voi può sembrare un salto nel buio, ma voi siete così spaventati di volare. Non avete altro che il vostro mediocre interesse, e tanto vi basta, per vivere infelici e senza problemi.”

“Perché allora non scommettere nell’esistenza di Dio?” ribatté il sovrintendente. Avrebbe così capito se quell’uomo era una qualche strana sorta di prete pur non assomigliandoci oppure no. “Perché non scommettere nell’esistenza di un mondo migliore, si, ma eterno e posto nell’aldilà, dove tutti i problemi giungano ad una risoluzione? Non è forse quello in cui credono molti uomini da secoli? Credete in lui, credete nel Cristo, invece che nel vostro comunismo e nel vostro profeta barbuto. Portate i vostri sogni e le vostre speranze nell’aldilà. Non sono cose da questo mondo, queste. La realtà è una cosa seria, e non c’è posto per i sogni. Zapata e Pancho Villa sono rimasti stesi nella polvere ormai anni orsono, per non averlo capito. E tanti di voi faranno ancora quella stessa fine”.

L’uomo sorrise a quelle parole, ma era un sorriso triste. “Credere nella religione? Sarebbe molto più comodo per voi che comandate, vero? Credete in ciò che volete, è il vostro motto, basta che non ci intralciate la strada. Sognate di essere tutti liberi e uguali dopo la morte, ma non vi azzardate anche solo minimamente a farvi venire strane idee su questo mondo. Su questo mondo comandiamo noi, dite, e non vi è permesso farvi illusioni. Ma io non posso credere nel Paradiso ultraterreno di cui parlano i preti. Perché credere in qualcosa che non posso vedere e non posso controllare?”

“Perché non potete vedere neppure il vostro comunismo, ecco perché”.

“Ma posso combattere per esso. E so che possono combattere per esso anche altri uomini, uomini che conosco, fatti di carne e sangue, e in cui io ho fiducia. Uomini, non creature angeliche. Insieme possiamo lottare e far di tutto per rendere le nostre speranze e i nostri ideali realtà. Possiamo scrivere la nostra storia, distruggere i vecchi destini e costruirne di altri. Cosa ci resta da fare, invece, se scommettiamo sull’esistenza del Paradiso? Pregare e rispettare la morale cristiana, attendere piamente la morte, restar fermi ad aspettare una non meglio specificata volontà divina senza possibilità alcuna di vedere il nuovo mondo che si plasma davanti a noi come frutto dei nostri sforzi? I cristiani dicono che l’uomo è il figlio di Dio, la più degna di tutte le sue creature. E che una scintilla divina vive in lui. Ma per chi l’uomo ha più dignità, per il cristiano che gli nega ogni possibilità di costruirsi un destino o per il comunista che lo esalta e che nonostante tutto ha fiducia in lui, anche a costo di peccare di eccessivo ottimismo? E se poi l’uomo ha una scintilla divina, come possono i cristiani non fidarsi di questa? Così scarsa è la fiducia che ripongono nel loro Dio? Sempre dovremo rimanere bambini che affidano la propria esistenza ad un padrone onnipotente e incomprensibile, che sa cosa è più giusto per noi? Prendiamo in mano la storia, e osiamo, questo è il nostro motto. E di certo sappiamo vivere meglio di voi”.

“Un po’ presuntuosa come affermazione da parte vostra, mi perdonerete se ve lo dico”.

“Sarà forse presuntuosa, ma potreste forse negarlo? Potreste forse negare di essere profondamente insoddisfatto della vostra esistenza, come se qualcosa mancasse?”

No, non poteva negarlo. Ma non lo disse. Scrutò lo strano uomo in attesa che continuasse a parlare.

E lo strano uomo, da parte sua, continuò a parlare. Non attese una risposta alla sua domanda perchè sapeva che non ci sarebbe stata, ma allo stesso tempo sapeva quale era.

“Voi cercate la vostra felicità in voi stesso” disse. “Nella vostra capacità di riuscire, nel vostro lavoro e nella vostra dura fatica. Eppure, nel fare questo, sbagliate. Perchè pensate che voi bastiate a voi stesso. E così non è. Cos’è l’uomo, da solo? Nient’altro che una cieca marionetta sottoposta alla leggi della storia e al cieco destino. L’uomo non può contare solo su se stesso, come un saguaro che si erge imponente e solitario nel deserto. Voi nel vostro folle egoismo avete dimenticato questo. Il mondo è solo il vostro strumento, e da tutto e da tutti vi credete indipendente. Ma così non è. Non è e non può essere. L’uomo non può contare solo su stesso. E non può contare su un Dio che non esiste e che, anche se esistesse, non potrebbe salvarci. Solo la solidarietà fra simili rende l’uomo degno di questo nome, la comunanza fra oppressi, e solo capendo questo si afferra il vero significato dell’esistenza umana, quel significato da cui voi nel vostro splendido isolamento rimanete così lontano.

Io ho fiducia nell’uomo. E credo che l’uomo esista solo in quanto esistono i suoi simili, e solo in quanto con i suoi simili si pone in relazione. Non posso ritirarmi in cima ad un monte lontano da tutti a cercare l’illuminazione interiore e la salvezza fornita dal Dio dei cristiani. Una salvezza di quel genere non può che essere illusoria. Tutti ci salveremo, o nessuno. Ripongo la mia fede nella solidarietà umana per giungere a questa liberazione definitiva. E ora giudicatemi pure un folle, un sognatore, un pazzo che si getta da un dirupo senza sapere cosa troverà sotto, e poi tornate ai vostri calcoli sugli utili giornalieri. Se in questi trovate uno scopo di vita, se per loro pensate che valga la pena soffrire e morire, fatelo pure. Io non ho altro da dirvi”.

Il sovrintendente non comprese tutte quelle parole. Forse ne comprese qualcuna, tanto da cogliere il senso generale del discorso, ma non avrebbe saputo giurarlo con certezza. Comunque capì abbastanza per confermare la sua ipotesi. Quell’uomo era un tipo singolare, ma non era un prete. Davvero sembrava un peon, ma non parlava come uno di loro. Sembrava più istruito, eppure di certo doveva avere del sangue indio nelle vene. Lo osservò che se ne andava mentre strane sensazioni gli si agitavano in corpo.

Poi, all’improvviso, l’uomo si girò, e fece per riprendere a parlare. “In quanto a Zapata e Pancho Villa…” disse. “Lo avevano capito eccome, che la vita è una cosa seria. Lo avevano capito molto più di voi. Era tanto seria per loro che per essa sono morti”. Fece una pausa, e guardò il sovrintendente. Per un attimo i suoi occhi parvero brillare, o forse era solo il riflesso del sole. Da lontano giungeva attutito il rumore dei braccianti che dissodavano il terreno. “Hanno fatto la loro scelta e ne hanno pagato tutte le conseguenze. Fu un vecchio compagno di imprese a tradire Emiliano Zapata per cinquantamila pesos ed una promozione a generale. Come Giuda con Gesù Cristo. Una beffa, per chi aveva scommesso sulla solidarietà universale degli uomini, vero? Forse voi potreste considerarlo un fallimento, eppure io vi dico che nonostante questo Zapata aveva capito della vita molto più di quanto abbiate mai capito voi, con tutte le vostre ricchezze e con tutta la vostra indaffarata hacienda. Quale è infatti lo scopo dell’esistenza? Diventare umani o produrre di più? Rispondete, senor, se ci riuscite”.

E detto questo si voltò nuovamente e, senza alcuna parola di commiato, riprese il suo cammino. Il sovrintendente lo guardò allontanarsi e diventare sempre più piccolo all’orizzonte, fino a che la sua figura non si ridusse ad una piccola macchietta sotto l’immensità del cielo azzurro. Il sole picchiava caldo e crudele. Giungeva ancora alle orecchie il rumore attutito dei braccianti che dissodavano il terreno, monotono, sempre uguale a se stesso.

 

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