Un assai lungo momento è il soffrire.
Noi non possiamo dividerlo per stagioni, ma soltanto renderci conto
de'suoi modi e calcolarne i ritorni. Per noi, il tempo stesso non
cammina; e sembra piuttosto descrivere un circolo intorno ad un centro
di dolore. La paralizzatrice immobilità di un'esistenza in cui ogni
particolare è regolato da un immutevole despota (in modo che noi
mangiamo, beviamo, dormiamo e preghiamo o, almeno, c'inginocchiamo per
pregare, secondo le leggi di una formula ferrea); questo carattere
statico che rende, fino nei più piccoli atti, ogni giornata uguale alla
precedente, pare che si comunichi a tutte quelle forze esterne delle
quali l'essenza consiste appunto in un mutamento continuo.
Noi non sappiano nulla del periodo della semina o del raccolto, dei
mietitori proni in mezzo alle spighe, o dei vendemmiatori sparsi tra i
vigneti; nulla sappiamo dei prati verdi che gli alberi di primavera
nevicano di petali e che gli alberi del verziere, in autunno, cospargono
di frutti maturi, e nulla mai ne possiamo sapere.
Per noi non c'è che una stagione: quella del dolore. Sembra che ci
abbiano anche defraudato del sole e della luna. Fuori il cielo può
essere d'azzurro e d'oro, ma la grossa vetrata del piccolo abbaino dalle
sbarre di ferro sotto cui ci si accuccia non lascia filtrare appena
appena che una povera luce sporca. Dentro le celle c'è sempre
semioscurità del crepuscolo; e il crepuscolo invade pure ogni cuore.
Nell'orbita del pensiero, come in quella del tempo, il moto non esiste
più. La cosa stessa che da lungo tempo voi, personalmente, avete
dimenticato o che potete dimenticare con facilità, la medesima cosa mi
succede ancora in questo stesso momento e mi accadrà nuovamente domani.
Tenete presente tutto ciò e vi sarà possibile comprendere il perché io scrivo in questo tono. . .
Una settimana dopo mi trasferiscono qui... Passano ancora tre mesi e mia
madre muore. Nessuno seppe quanto profondamente io l'amassi e la
venerassi.
La sua morte fu per me una cosa terribile; ma io, già un tempo principe
dello stile, non trovo nemmeno una parola per esprimere la mia angoscia e
la mia vergogna. Essa e mio padre mi avevano lasciato in retaggio un
nome glorioso d'onore e di nobiltà, non solo nei campi della
letteratura, dell'arte, dell'archeologia e della scienza, ma anche nella
storia del mio paese d'origine e nella sua evoluzione nazionale.
Ebbene, io ho macchiato questo nome d'un obbrobrio eterno. Io ne ho
creato un epiteto ignobile per il volgo. Io l'ho trascinato nel fango.
Io l'ho dato in balìa dei bruti, affinchè lo rendano brutale ed ai
nemici perché ne facciano un sinonimo di follia. Quel che ho sofferto
allora e lo strazio che ancor oggi io provo, no! nessuna penna lo potrà
scrivere, nessun foglio di carta lo potrà rivelare.
Mia moglie, sempre buona e nobile verso di me, temendo che la notizia
della sciagura mi giungesse per mezzo di estranei, quantunque tanto
malata, si mise in viaggio da Genova per l'Inghilterra per venire essa
stessa ad annunciarmi questa perdita irreparabile, irrimediabile.
Lettere di simpatia mi arrivarono da tutti coloro che avevano ancora
serbato dell'affetto verso di me. E perfino delle persone che io non
avevo mai conosciuto direttamente, quando seppero che una nuova
disgrazia era venuta ad abbattersi sulla mia vita, scrissero, pregando
di comunicarmi ch'essi m'erano accanto nel grande dolore...
Tre mesi passano. La tabella-calendario della mia condotta e del mio
lavoro giornaliero, appesa esternamente sull'uscio della mia cella, con
scrittovi sopra il mio nome e la mia condanna, m'informa che siamo
giunti al mese di maggio...
La prosperità, il piacere e il successo possono essere volgari e
refrattari, ma il dolore è la più sensibile di tutte le cose create.
Nulla succede nel mondo del pensiero cui il dolore non faccia eco con
delle vibrazioni infinitamente vive e terribili. In suo confronto, la
sensibilissima foglia d'oro battuto, che indica la direzione delle forze
che l' occhio non riesce ad afferrare, è grossolana.
Il dolore è una ferita che sanguina quando una mano la tocca, tranne
quella dell'amore, ed anche premuta da una carezza buona essa fa sangue,
quantunque non la strazi più la sofferenza.
Dovunque c'è il dolore qui santa è la terra. Un giorno si capirà ciò che
questo significa. Nulla si saprà prima di questo.... e delle indoli
come la sua, sì, possono comprendere. Quando, costretto fra due
gendarmi, io fui condotto dalla mia prigione alla Corte dei
Fallimenti,....attese nel lungo e tragico corridoio per potersi togliere
con atto grave il suo cappello davanti a me, in cospetto della folla
che fu ridotta al silenzio da un gesto così semplice e così dolce,
mentre io passavo innanzi a lui colle manette ai polsi e colla testa
china.
Molti uomini si sono guadagnati il regno dei Cieli con delle opere assai
meno meritevoli di questa. Non è con tale spirito, forse, e animati da
simile amore che i Santi si inginocchiavano per lavare i piedi dei
poveri o si curvavano per baciare sulle guance i lebbrosi? Io non gli ho
mai detto una parola di ciò ch'egli fece quel giorno. Non so nemmeno,
in questo momento, s' egli pensa eh' io abbia potuto intravedere il suo
atto.
Oh, non è una cosa per la quale si rivolgono dei ringraziamenti formali
con delle parole formali ! Io l'ho racchiusa nel tesoro del mio cuore.
Ivi la serbo come un debito segreto che sono felice di pensare che non
potrò assolvere mai. La imbalsamo e la rinfresco con la mirra e gli
aromi d'infinite lacrime.
Guardate: la saggezza non mi riuscì di nessun profitto e la filosofia
rimase infeconda e gli adagi e le frasi di coloro che tentarono di
consolarmi furono come della polvere e della cenere nella mia bocca, ma
il ricordo di quel piccolo gesto d'amore, adorabile e silenzioso, ha
riaperto per me tutte le fonti della pietà, ha fatto fiorire il deserto
come una rosa, m'ha strappato dalla disperazione solitaria dell'esilio
per mettermi in armonia col grande cuore ferito e spezzato del mondo.
Quando gli uomini saranno capaci di comprendere non solo quanto quel
gesto fu bello, ma pure quale intimo significato ebbe per me e quale
valore avrà per me sempre, allora forse essi sapranno in che modo e in
quale stato d'animo mi devono avvicinare.
I poveri sono saggi e più caritatevoli e più propensi alla bontà di
noialtri. Per loro la prigionia è una tragedia nella vita di un uomo,
una sciagura, una disgrazia, qualche cosa, insomma, che merita la
simpatia altrui. Essi parlano di colui che è in carcere come di uno che
«passa un guaio», semplicemente. È l'espressione che adoperano sempre ed
essa contiene la perfetta saggezza dell'amore. Invece, con le persone
del nostro ceto, é diverso. Per noi, la prigione trasforma un uomo in un
paria. Io, e alcuni altri nel mio stesso caso, non abbiamo diritto né
all'aria, né al sole. La nostra presenza turba la gioia degli altri.
Siamo ricevuti come degli intrusi, quando ritorniamo nel mondo. Non ci
si vorrebbe lasciar godere nemmeno il chiaro di luna. E i nostri
figlioli non ce li portano via? Così ci si spezzano questi dolcissimi
vincoli che ci ricollegano all'umanità. Siamo dannati alla solitudine,
mentre i nostri figli sono pur vivi. Ci rifiutano l'unico mezzo che
potrebbe guarirci e farci rinascere, l'unica dolcezza che sarebbe in
grado di spandere un balsamo sul cuore angosciato e di mettere un po' di
pace nell'anima in pena...
Bisogna, sì, ch'io mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che
nessuno, piccolo o grande, non si può rovinare che con le sue proprie
mani. Io sono pronto a dirlo; mi sforzo di confessarlo, quantunque,
forse, in questo momento, non lo si creda. Senza alcuna compassione io
sostengo contro di me l'implacabile accusa.
Per quanto terribile sia stato ciò che il mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu più tremendo ancora.
Ero in simbolica comunione con l'arte e con la cultura del mio tempo.
Sul principio della mia virilità lo avevo compreso e avevo, in seguito,
forzato i miei contemporanei a comprenderlo. Pochi uomini, durante la
loro vita, hanno occupato un posto simile al mio col pieno
riconoscimento altrui. La posizione ideale di un artista é messa in
luce, di solito (se pure lo é), dallo storico o dal critico, molto tempo
dopo che l'artista e la sua età sono scomparsi. Invece, per me, la cosa
accadde diversamente. Io ne ebbi la coscienza e la diedi anche agli
altri.
Byron fu una figura simbolica, ma relativamente alla passione e alla stanchezza passionale della sua epoca.
Il mio rapporto col mio tempo fu più nobile, più costante, d'una importanza e d'un valore più grandi.
Gli dei m'avevano quasi tutto donato. Ma io mi lasciai poltrire e mi
concessi dei lunghi periodi di tregua insensata e sensuale. Mi divertii a
fare l'ozioso, il dandy, l'uomo alla moda. Mi circondai di poveri
caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio genio
e provai una gioia bizzarra nello sperperare una giovinezza eterna.
Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli
abissi per cercarvi delle sensazioni nuove. La perversità fu nell'orbita
della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera del
pensiero.
Infine il desiderio si cambiò in una malattia, o in una follia, o in
entrambe le cose. Divenni noncurante della vita altrui. Colsi il mio
bene dove mi piacque e passai oltre. Dimenticai che ogni più piccola
azione quotidiana forma o deforma il carattere e che, per conseguenza,
ciò che si é compiuto nel segreto della propria intimità si sarà poi
costretti a proclamarlo al mondo intero. Così, non fui più padrone di me
stesso. Non riuscii più a dominare la mia anima e la ignorai. Permisi
al piacere di governarmi e finii coll'essere abbattuto da una sventura
orrenda. Adesso non mi rimane più che una cosa: l'assoluta umiltà.
Ecco quasi due anni, tra poco, che io sono in prigione! Da principio una
selvaggia disperazione cominciò ad impossessarsi di me; mi abbandonavo a
una pena tale ch'era disprezzabile anche a vedersi, a un'ira terribile
ed impotente, all'angoscia e all'indignazione, alla tortura che mi
strappava i più acuti singhiozzi, a una miseria che non aveva nessuna
voce per esprimersi, a un dolore muto. Sono passato attraverso tutte le
forme possibili della sofferenza. Meglio ancora di Wordsworth, io ben so
ciò ch'egli intese di dire in quel suo distico.
"La sofferenza é costante e oscura e misteriosa, e ha la natura dell'Infinito".
Ma quando, talvolta, io mi rallegravo all'idea che le mie sarebbero
interminabili, non potevo, però, sopportare ch'esse fossero prive di
significato. Ora, io trovo riposta in un oscuro angolo della mia natura
qualcosa che mi dice: nulla c'é al mondo che sia vuoto di senso ed il
soffrire meno di qualunque altra cosa. Questo quid, nascosto nel più
profondo del mio « io », come un tesoro in un campo, è l'Umiltà.
È l'ultima cosa che mi resta, e la migliore; é l'estrema scoperta alla
quale io sono arrivato, è il punto di partenza di tutto uno sviluppo
nuovo. E' una verità che si é formata nel mio intimo essere e così pure
io so ch'essa é venuta in un momento favorevole. Se alcuno me ne avesse
parlato, l'avrei respinta; ma siccome l'ho trovata io stesso, ci tengo a
conservarla. Bisogna ch'io la conservi ! Ê l'unica cosa che ha in sé i
germi della vita, di una nuova esistenza, una Vita Nuova per me. Tra
tutte le cose, essa é la più strana; non si può acquistarla che a patto
di rinunciare a tutto ciò che si possiede. E, solamente quando si è
tutto perduto, ci si accorge di averla guadagnata.
Ora che ho capito ch'essa è in me, io vedo assai chiaramente ciò che in
realtà occorre ch'io faccia. E allorché adopero una frase come questa,
non ho bisogno di aggiungere che non alludo a nessuna sanzione, a nessun
ordine imperativo dal di fuori. Io non ne ammetto. Sono molto più
individualista di quanto lo sia mai stato. Niente mi sembra che abbia il
minimo valore, tranne ciò che si estrae dalla propria intimità. La mia
indole é in traccia d'un nuovo mezzo di realizzazione: ecco tutto ciò di
cui io devo preoccuparmi. E la prima cosa che mi occorre è questa:
liberarmi di qualsiasi risentimento amaro contro il mondo.
Io sono completamente senza denaro, assolutamente senza focolare. Eppure
c'é qualcosa di peggio, sulla terra. Sono del tutto sincero quando
affermo che, piuttosto che lasciare questo carcere conservando nel mio
cuore dell'amarezza contro il mondo, preferirei di mendicare con gioia
il mio tozzo di pane di porta in porta. Se non ottengo nulla dal ricco,
riceverò pur qualche cosa dal povero. Coloro che molto posseggono sono
di solito avari; ma quelli che hanno ben poco lo dividono volentieri.
Non mi farebbe nessun caso il dormire sulla fresca erba in estate e, al
sopraggiungere dell'inverno, ripararmi al caldo in un mucchio di fieno o
sotto la tettoia di una capanna, purché avessi sempre dell'amore dentro
il mio cuore.
Le cose esterne della vita mi pare ora che non abbiano più alcun valore.
Voi vedete, dunque, a quale intensità d'individualismo io sono
arrivato, o, piuttosto, io vado accostandomi, poiché il viaggio é ancor
lungo e "sulla strada per la quale io cammino ci sono delle spine".
Certo, so bene che andare elemosinando per la via non sarà il fatto mio e
che, se io mi stendessi la sera sull'erba fresca vi comporrei dei
sonetti alla luna. Quando uscirò di prigione, R ../Ross/ mi aspetterà al
di là dell'enorme portone ferrato ed egli é il simbolo non solo del suo
proprio affetto, ma anche di quello di molti altri. Credo, ad ogni
modo, che avrò da vivere per circa diciotto mesi e, se non potrò per il
momento scrivere de' bei libri, almeno potrò leggerne; e quale felicità
sarà più grande?
In seguito spero d'essere capace di riacquistare le mie facoltà creatrici.
Ma se accadesse altrimenti, se non mi restasse più un amico al mondo, se
nessuna casa mi fosse più aperta, neanche per pietà, se dovessi
prendere la bisaccia e il tabarro logoro della miseria assoluta fino a
quando io fossi libero da ogni risentimento, da ogni rancore, da ogni
indignazione, potrei sempre affrontare la vita con molta più calma e
fiducia che se il mio corpo fosse coperto di porpora e di lino prezioso e
la mia anima scoppiasse di odio.
Né avrò, veramente, nessuna difficoltà. Quando si desidera con fede l'amore, lo si trova là, che ci attende.
Inutile dire che il mio compito non termina qui. Se così fosse, sarebbe
troppo facile. C'é ben altro davanti a me. Devo scalare delle montagne
assai più irte; ho da attraversare delle valli infinitamente più cupe. E
mi bisogna trarmi d'impaccio colle mie sole mani. Né la religione, né
la morale, nè la ragione mi possono dare alcun giovamento.
No, la morale non mi aiuta. Io sono un antinomista nato. Sono di quelli
che son fatti per le eccezioni e non per le regole. Ma mentre io vedo
che non c'é niente di male in ciò che si compie, mi accorgo però che c'é
qualcosa di cattivo in ciò che si diventa. Ê bene anche aver imparato
questo.
La religione non mi aiuta. La fede che altri nutrono per ciò che è
invisibile io la dedico a quel che si può toccare e osservare. I miei
dei abitano nei templi costruiti dalla mano dell'uomo ed è solo
nell'ambito dell'esperienza reale che la mia fede si definisce e si
completa: essa è troppo integra, forse, perché, come molti di coloro o
tutti coloro che hanno collocato il loro cielo sopra la terra, io vi ho
scoperto non pure la bellezza del paradiso, ma anche dell'inferno.
Quando penso alla religione, sento che mi piacerebbe fondare un ordine
monastico per coloro che non possono credere: si dovrebbe chiamare la
Congrega degl'Infedeli e nei suoi riti, davanti a un altare, privo di
qualsiasi fiamma di ceri, un prete senza pace nel cuore, celebrerebbe
l'officio con del pane profano o un calice vuoto.
Ogni cosa, per essere vera, deve diventare una religione, e
l'agnosticismo, come una qualunque altra religione, dovrebbe avere le
sue cerimonie. Non ha esso seminato dei martiri?, Ebbene, dovrebbe
mietere i suoi santi e lodare ogni giorno il Signore d'essersi nascosto
agli occhi degli uomini. Ma, sia la fede o l'agnosticismo, nè l'una nè
l'altro mi devono rimanere due fatti esterni. Bisogna che i loro simboli
siano una mia creazione stessa.
Spirituale è soltanto ciò che foggia la sua propria forma. Se non posso
riuscire a trovarne il segreto nel mio intimo « io », non lo scoprirò
giammai: se non lo reco con me, non mi si rivelerà mai più.
La ragione non mi aiuta. Essa mi dice che le leggi secondo le quali mi
hanno condannato sono ingiuste e crudeli e che il sistema sociale per
cui ho sofferto é ingiusto e malvagio. Ma, tuttavia, occorre ch'io le
creda giuste e rette. E, precisamente come nel campo dell'arte non ci si
occupa se non del valore che un fatto particolare ha di per sé stesso
in un particolare momento, così succede nell'evoluzione etica del
carattere.
Occorre ch'io ritenga come un bene per me tutto ciò che mi e accaduto.
Il letto di tavole, il cibo nauseabondo, le dure funi che si devono
sfilacciare in istoppa sino a che le dita indolenzite divengono
insensibili, le vili « corvées » con le quali cominciano e finiscono le
giornate, gli aspri comandi che sembrano una necessità dell'ordine,
l'orribile casacca che rende persino grottesco il dolore, il silenzio,
la solitudine, la vergogna - tutto questo bisogna ch'io lo trasformi in
esperienza spirituale. Non c'e neppure una degradazione del corpo che
non contribuisca a spiritualizzare l'anima.
Voglio arrivare ad un punto tale che mi sia possibile dire semplicemente
e senza ostentazione di sorta che le due grandi date della mia vita
corrispondono ai giorni in cui mio padre mi mandò ad Oxford e in cui
entrai in galera. Io non dirò che la prigionia sia la miglior cosa che
mi sia capitata, perché questa frase avrebbe un sapore di eccessiva
amarezza verso di me. Preferirei dire o sentir dire di me stesso ch'io
sono stato una natura così tipica del mio tempo che, nella mia
perversità e per l'amore di questa perversità, ho mutato le buone cose
della mia vita in male e le cattive in bene.
Tuttavia, ciò che gli altri dicono o che io dico interessa poco. La cosa
importante che mi si offre e che devo fare - se il breve periodo dei
miei giorni a venire non sarà sciupato, né perduto, né troncato -
consiste nel l'assorbire in me tutto ciò che mi é stato fatto e
d'incorporarmelo e di accettarlo senza rimpianto, senza paura, senza
ripugnanza. Il male supremo è la superficialità. Tutto ciò di cui ci si
rende conto é bene.
Nei primi tempi della mia prigionia, alcuni mi consigliarono di
dimenticare chi io ero. Disastroso consiglio! Invece, soltanto
rendendomi ragione di quel che sono ho potuto trovare un po' di
conforto.
Adesso, altri mi esortano a dimenticare, quando sarò libero, d'essere
mai stato in carcere. So bene che sarà fatale ugualmente. Ciò significa
che io sarei senza tregua torturato da un sentimento intollerabile di
sventura e che tutte le cose create per me come per gli altri: la
bellezza del sole e della luna, il corteo delle stagioni, la musica
dell'aurora e il silenzio della notte fonda, la pioggia che scroscia tra
le foglie o la rugiada che inargenta i prati, tutte queste meraviglie
diventerebbero opache per me, perderebbero il loro potere di guarire e
di comunicare la gioia.
Rammaricarsi delle esperienze fatte, vuol dire arrestare il proprio
sviluppo; negarle equivale a mettere una menzogna sulle labbra della
nostra vita. Sarebbe come rinnegare l'anima.
Perché, come il corpo assorbe sostanze di ogni sorta, cose volgari ed
impure, ed anche quelle che un sacerdote o una visione hanno purificato,
e le converte in forza e in agilità, in gioco armonico di muscoli, in
carni delicate, in capelli ricciuti e multicolori, in labbra, in occhi
ridenti, così l'anima a sua volta ha le proprie funzioni nutritive e può
trasformare in nobiltà di pensieri e in passioni di gran valore ciò che
per sé stesso é vile, crudele e degradante; e a maggior ragione essa
può trovarvi i suoi più efficaci mezzi di affermazione e rivelarsi più
perfettamente mediante ciò che era destinato alla profanazione e alla
distruzione.
Mi occorre sottomettermi francamente al fatto d'essere stato il
carcerato ordinario d'una ordinaria prigione e, quantunque ciò sembri
curioso, bisognerà ch'io impari a non provarne nessuna vergogna. È
necessario accettare la cosa come un castigo, e, se uno é vergognoso
della pena sofferta, tanto valeva non averla mai nemmeno patita.
Certamente, ci sono molte colpe di cui mi hanno accusato e che io non ho
mai commesso; ma ce n'è gran numero che mi hanno rimproverato e che in
realtà ho compiuto e un numero più grande ancora di quelle che ho
commesso e delle quali non sono mai stato accusato. E poiché gli dei
sono strani e ci puniscono tanto per ciò che é umano e buono in noi
quanto per ciò che e cattivo e perverso, io devo sottomettermi alla
legge che fa pagare il fio sì per il bene che per il male compiuto.
Non ho nessun dubbio sulla perfetta giustizia di ciò. Questo giova o
dovrebbe giovare a comprendere le due cose e a non provare nessuna
vanità né per l'una nè per l'altra. Se, dunque, io non ho alcuna
vergogna del mio castigo (come spero), sarò capace di pensare, di
camminare e di vivere libero.
Non pochi uomini, dopo la loro liberazione, portano con sé la prigione
nell'aria che li circonda, e, alla fine, come delle povere creature
avvelenate, si cacciano in qualche buco per morirvi. É ben triste
ch'essi siano ridotti a questo e la società che ve li costringe é
ingiusta, tremendamente ingiusta. La società s'arroga il diritto
d'infliggere all'individuo dei castighi spaventevoli, ma essa ha anche
il difetto supremo d'essere superficiale e di non giungere a comprendere
ciò che fa.
Quando il castigo è subìto, la società abbandona l'Homo a sé stesso,
vale a dire proprio nel momento nel quale dovrebbe cominciare il suo più
alto dovere verso di lui. Essa ha paura delle sue azioni e rifugge da
coloro che ha punito come si evita un creditore del quale non ci si può
liberare, o l'uomo a cui si è imposta una irreparabile sorte. Da parte
mia io esigo che, se mi rendo ragione di quanto ho sofferto, la società
deve capire ciò che mi ha inflitto, e, per conseguenza, non c'é amarezza
né odio da una parte né dall'altra.
Oh, lo riconosco che, da un certo angolo visuale, le cose saranno per me
molto diverse da quel che sono per gli altri; ed é necessario, per la
natura stessa del mio caso, ch'esse siano così. I poveri ladri e gli
ammoniti, incarcerati qui con me, sono, sotto molti rispetti, assai più
felici ch'io non sia. Il cantuccio di città oscura o di campo
verdeggiante che assistette alla loro colpa é piccolo. Per trovare gente
che ignori il loro delitto essi non hanno da superare una distanza
maggiore di quella che un uccello percorre dal crepuscolo all'alba. Ma,
per me, il mondo é ridotto ad un palmo e, da qualsiasi lato io mi volga,
il mio nome é vergato con lettere di piombo sulla roccia. Poiché io non
sono entrato dall'oscurità nella sfera di luce effimera del delitto, ma
bensì da una specie di eternità di gloria in una specie di eternità
d'infamia, e mi sembra talvolta d'aver dimostrato - se pure occorre
questa prova - che tra l'uomo famoso e l'infame non c'è che un passo e
forse anche meno d'un passo.
Pertanto, nel fatto che gli uomini mi riconosceranno dovunque io vada e
che conosceranno la mia vita, almeno nelle sue ore di follia, io vedo un
bene per me; ciò mi costringerà ad affermarmi nuovamente come artista e
al più presto possibile. Se riuscirò a creare una sola e bella opera
d'arte, mi sarà possibile di trovare un antidoto al veleno della
malizia, di smontare i sarcasmi dei vili e di sradicare la lingua del
disprezzo.
Se la vita, com'essa è sicuramente, deve anche per me essere un
problema, io non sono un quesito di minor valore per la vita stessa. Gli
uomini dovranno assumere qualche attitudine a mio riguardo, attraverso
un giudizio su sé medesimi e su di me. Non faccio nessuna allusione
personale. I soli con i quali mi piacerebbe di trovarmi in compagnia,
ora, sono gli artisti e coloro che hanno sofferto: coloro che sanno
cos'é la bellezza e che sanno cos'e il dolore; tranne costoro, nessun
altro m'interessa.
E non domando più niente alla vita. In tutto ciò che ho affermato fin
qui, io non mi preoccupo che della mia attitudine mentale verso la vita
considerata nel suo insieme. Presento che uno dei primi punti che devo
toccare per la mia propria perfezione e perché io sono così imperfetto,
si è di non vergognarmi d'essere stato punito.
In seguito bisognerà imparare ad essere felice. Un tempo conoscevo la
felicità per istinto o almeno credevo di conoscerla. C'era sempre la
primavera, nel mio cuore, una volta ! Mi occorreva la gioia ed ero nato
per essa. Sino all'estremo limite io riempivo la mia vita di piacere,
come si colma sino all'orlo una coppa di vino. Adesso è da un punto di
partenza del tutto nuovo che mi accosto alla vita, ed anche il concepire
la felicità mi riesce, spesso, difficile. Mi ricordo, durante il mio
primo semestre a Oxford, di aver letto nel Rinascimento di Walter Pater -
un libro che ebbe sulla mia vita una così strana influenza ! - che
Dante pone nel profondo Inferno coloro che vivono spontaneamente nella
tristezza. Andai subito in biblioteca e cercai quel passo della Divina
Commedia, là dove è detto che al di sotto della sinistra palude
giacciono quelli che furono " tristi nella dolcezza dell'aria "
ripetendo
Tristi fummo
Nell'aer dolce che dal sol s'allegra.
Sapevo che la chiesa condannava l'accidia, ma questa idea mi pareva
assolutamente fantastica, come un genere di peccato inventato da un
sacerdote ignorante della vita reale. Non potevo neppure capire come
Dante, il quale dice che "il dolore ci unisce a Dio", fosse così aspro
verso gli innamorati della melanconia, dato che davvero ne esistessero.
Non sospettavo allora che questa diverrebbe un giorno una delle più
grandi tentazioni della mia vita.
Durante la mia permanenza nel carcere di Wandsworth, io ero malato d'un languore di morte. Era il mio unico desiderio morire.
Poi, quando fui trasferito qui, dopo due mesi d'infermeria, e m'accorsi
che la mia salute andava migliorando a poco a poco, fui preso dall'ira.
Decisi di suicidarmi il giorno stesso in cui sarei uscito di prigione.
Dopo qualche tempo, questo furioso accesso si calmò e stabilii, invece,
di vivere, ma di fasciarmi tutto di tristezza come un re si panneggia
nella sua porpora, di mutare in un luogo di pianto ogni casa della quale
avessi varcato la soglia, di imporre ai miei amici la sottile tortura
della mia ipocondria, d'insegnar loro che la tristezza é il vero segreto
della vita, di tormentarli con un dolore che fosse loro estraneo, di
soffocarli con la mia pena.
Ora ho i sentimenti molto diversi. Capisco che sarebbe un'ingratitudine
ed una crudeltà da parte mia atteggiarmi in modo che, quando i miei
amici m'incontrassero, fossero costretti a mostrarsi ancora più
melanconici di me per testimoniarmi la loro simpatia; oppure - per
riceverli e offrir loro un degno trattamento - invitarli a sedersi
silenziosamente davanti a delle erbe amare o a dei cibi funerari. No;
bisogna ch'io impari ad essere gaio e felice.
Le due ultime volte che io ebbi il permesso di vedere qui i miei amici,
provai d'essere allegro per quanto m'era possibile e di mostrare la mia
gaiezza per compensarli, un poco, del disturbo che essi s'erano presi,
venendo sin qua dalla capitale. Non fu che un compenso molto, molto
lieve, lo so, ma son certo che a loro piacque. Son passati otto giorni
sabato da che ho visto R ... per un'ora e ben mi sforzavo di mostrare
nel modo più espressivo possibile la gioia che provavo in
quell'incontro.
Il fatto che ora, per la prima volta in tutta la mia prigionia, io sento
un reale desiderio di vivere, mi prova che ho ragione nelle idee e
nelle opinioni che formulo qui per me stesso.
Tanto lavoro ho davanti a me che mi parrebbe una terribile tragedia il
morire prima d'averne potuto compiere almeno una parte! Scorgo nell'arte
e nella vita degli sviluppi imprevisti di cui ciascuno è un nuovo mezzo
di perfezione.
Bramo di vivere per esplorare questo mondo nuovo per me. Volete dunque
sapere in che consiste questo nuovo mondo? Credo che lo possiate anche
indovinare. E'il mondo nel quale ho vissuto. Il dolore, infine, e tutto
ciò che il dolore insegna: ecco il mio nuovo mondo.
Vivevo, un tempo, esclusivamente per il piacere. Allontanavo da me i
patimenti e il dolore in ogni loro aspetto; li odiavo; avevo risoluto
d'ignorarli sino a quando mi fosse stato possibile - vale a dire di
considerarli come delle forme d'imperfezione. Sofferenza e dolore non
sarebbero entrati nell'orbita della mia vita. Non avevano nemmeno un
posto nella mia fisolofia. Mia madre, che conosceva la vita intera, mi
citava spesso i versi di Goethe scritti da Carlyle su una pagina d'un
libro ch'egli le aveva donato una volta e tradotti così da lui stesso:
Colui che non ha mai mangiato il suo pane nel dolore,
Che non ha mai passate le ore della notte ad attendere piangendo il mattino che tarda,
Colui non vi conosce, o potenze del Cielo!
Erano i versi che quella nobile regina di Prussia - trattata da
Napoleone con tanta grossolana brutalità - recitava nella sua
umiliazione e nel suo esilio; erano i versi che mia madre mi ripeteva
spesso nel tormento della sua vita, prossima a spegnersi. Io rifiutai,
allora, assolutamente, di riconoscere o d'ammettere l'enorme verità che
essi contenevano. Mi rammento molto bene ch'io le ripetevo di non aver
nessun desiderio di mangiare il mio pane nel dolore e di trascorrere le
notti aspettando in pianto un'alba d'amarezza.
Non avevo nessuna idea che proprio là vi era nascosta una delle
singolari sorprese tenute in serbo dal destino per me e che, veramente,
non altro io farei se non mangiare il mio pane nel dolore per un anno
intero. Ma è così che anch'io ho avuto la mia parte; e che, durante
questi ultimi mesi, ho potuto comprendere, mercé ostacoli e lotte senza
pari, qualcuno degli insegnamenti che si celano nell'intimo del dolore.
Preti e gente che adoperano frasi senza misura parlano, alle volte,
della sofferenza come d'un mistero. Invece essa é una rivelazione. Fa
distinguere delle cose che non si erano mai vedute prima e permette di
considerare l'insieme della storia da un punto di vista tutt'affatto
diverso. Quel che intorno all'arte, ad esempio, si era sentito in modo
vago e per istinto, ora lo si afferra intellettualmente ed
emozionalmente con una chiarezza perfetta di visione e con una intensità
assoluta, comprensiva.
Oramai io sono persuaso che, poiché il dolore è la suprema emozione di
cui é suscettibile l'uomo, esso é ad un tempo il tipo e il modello di
ogni grande arte. Ciò che l'artista ricerca continuamente e quella certa
maniera d'essere nella quale anima e corpo divengono uni e
indivisibili; nella quale l'esteriore è l'espressione dell'intimità, in
cui la forma stessa è una rivelazione. Tali maniere d'essere non sono
numerose; in un dato momento ci possono servire di modello la giovinezza
e l'arte che si preoccupa della giovinezza; in un altro noi possiamo
credere invece che, per la sua finezza e sensibilità d'espressione, per
l'idea che suggerisce d'uno spirito diffuso negli oggetti esterni e che
si riveste a volta a volta d'aria e di terra, di nebbia e di volumi e
per la morbidezza de' suoi atteggiamenti, de' suoi toni, de' suoi colori
- l'arte del paesaggio moderno realizza per noi pittoricamente ciò che i
Greci ottennero con tanta perfezione plastica. La musica, nella quale
ogni soggetto é assorbito dall'espressione e non può separarsene, é un
esempio complesso di quel che io voglio dire, così come un fiore o un
fanciullo sono degli esempi semplici; ma il dolore e il tipo più alto
nella vita e nell'arte.
Dietro la gioia e il sorriso ci può essere un temperamento ruvido, aspro
e scaltro. Ma dietro il dolore non c'é che il dolore. L'angoscia,
contrariamente al piacere, non si maschera mai. La verità, in arte, non
consiste in una corrispondenza tra l'idea madre e l'esistenza
accidentale; essa non è la identità della forma con l'ombra o della
forma riflessa dal cristallo con la forma stessa; non è l'eco rinviata
dall'anfratto d'una collina - così come non è, nella valle, una sorgente
d'acqua argentata che mostra la luna alla luna e Narciso a Narciso. La
verità in arte é l'unità d'una cosa con sé stessa, é l'esteriore come
diretta emanazione dell'interiore; é l'anima connaturata con la carne e
il corpo con lo spirito. Per questa ragione non esiste nessuna verità
che sia comparabile al dolore. Ci sono alcuni momenti in cui il dolore
sembra divenire la Verità Unica. Le altre cose possono essere delle
illusioni dell'occhio o del desiderio, create per accecare l'uno e
soddisfare l'altro, ma é solo col dolore che si sono creati i mondi e
alla nascita di un fanciullo o di una stella presiede il dolore.
Ma, di più: v'é nel dolore una realtà intensa, straordinaria. Ho detto
di me stesso ch'ero in comunione simbolica coll'arte e colla cultura
della mia età. Ebbene: non c'é un solo infelice, chiuso con me in questa
galera miserabile, che non si trovi in comunione simbolica col segreto
stesso della vita. Perche il segreto della vita é di soffrire. È questo
che si nasconde in tutte le cose. Quando cominciamo a vivere, quel che é
dolce a noi sembra tanto dolce e quel che é amaro ci sembra tanto amaro
che noi rivolgiamo inevitabilmente tutti i nostri sforzi verso il
piacere e non cerchiamo soltanto di «nutrirci di miele per un mese o
due», ma non vogliamo altro alimento, in tutta la nostra vita, ignorando
così che corriamo rischio d'affamare la nostra anima.
Mi sovviene d'essere entrato una volta in questo argomento con una delle
più belle figure che abbia mai conosciuto, una donna di cui e
indicibile la simpatia, la nobile bontà verso di me, prima e dopo la
tragedia della mia prigionia; essa mi ha realmente aiutato, quantunque
ella lo ignori, a portare il fardello delle mie pene più di qualsiasi
altra creatura al mondo; e tutto ciò con il solo fatto della sua
esistenza, perché essa é quello che é : un ideale e una forza influente
ad un tempo, una suggestione di ciò che si potrebbe divenire quanto un
aiuto effettivo per divenirlo, un'anima che comunica la sua dolcezza
all'aria che si respira e fa sembrare il mondo dello spirito semplice e
naturale come la limpidità del sole e del mare; per lei la bellezza e il
dolore camminano dandosi la mano e recano la stessa novella.
Nell'occasione di cui parlavo mi ricordo d'averle detto che c'era in una
sola strada-budello di Londra abbastanza sofferenza per mostrare che
Dio non ama l'uomo e che, in qualunque luogo il dolore si rivelasse,
(fosse pure quello d'un fanciullo piangente in un piccolo giardino per
una colpa non commessa) la faccia intera della creazione ne era
completamente sfigurata.
Ebbene, avevo del tutto torto. Ella me lo disse, ma io non le credetti.
Non ero nell'ordine d'idee nel quale si arriva a una simile scoperta.
Adesso constato che l'amore e la sola spiegazione possibile della somma
straordinaria di dolore che esiste nel mondo. Non posso concepire
nessun'altra spiegazione. Sono convinto che non ce n'è una diversa, e se
veramente il mondo é stato costruito col dolore, le mani che lo hanno
edificato son quelle dell'amore, perché l'anima dell'uomo, per cui il
mondo fu creato, non poteva altrimenti raggiungere il limite della sua
perfezione. Il piacere per un bel corpo, ma il dolore per una bella
anima.
Ma quando dico che sono convinto di queste cose, io parlo con troppo
orgoglio. Di lontano, simile a una perla perfetta, si scorge la città di
Dio. La vista ne é così meravigliosa che sembra che un fanciullo possa
raggiungerla in un giorno d'estate. Ma per me e per coloro che sono
simili a me, é differente. Si può, sì, assimilarsi una cosa in un solo
istante; ma poi la si perde nelle lunghe ore che seguono interminabili,
con piedi di piombo. È troppo difficile rimanere sulle "cime su cui
l'anima sa d'innalzarsi".
Noi pensiamo sotto la specie dell'eterno, ma pure noi procediamo
lentamente col tempo e il tempo come lentamente cammina, per noi che
siamo in prigione! Non occorre ch'io ne parli ancora e nemmeno della
stanchezza e dello scoraggiamento che s'insinuano dentro le celle o
nella cella del nostro cuore con una così strana insistenza che bisogna
(per così dire) lustrare e adornare la casa, affinché essi entrino come
ospiti volgari o padroni crudeli dei quali si é, per caso o per
elezione, lo schiavo.
Benché ora i miei amici non lo credano, é pur vero che per essi (che
vivono liberi, nell'ozio e nelle comodità) é più facile imparare lezioni
d'umiltà che per me, per me che comincio la mia giornata mettendomi in
ginocchio a lavare il pavimento della mia cella. Perché la vita della
prigione, colle sue privazioni e i suoi sacrifici innumerevoli, spinge
alla rivolta. E il più terribile non é già che essa spezzi il cuore - i
cuori non sono fatti per essere infranti? - ma che lo trasformi in una
pietra.
Talvolta, si sente che solo con una fronte di bronzo e delle labbra
sprezzanti si può arrivare alla fine della giornata. Ma colui che si
trova in stato di ribellione non può ricevere il dono della grazia, (per
usare la frase che la Chiesa ama, con tanta ragione, oserei dire),
perché, nella vita come nell'arte, lo stato di rivolta preclude le vie
dell'anima e non lascia passare i soffi del cielo. Tuttavia, se pur devo
impararle in qualche luogo, é qui che mi eserciterò nelle lezioni
d'umiltà e devo essere pieno di gioia, se i miei piedi sono sulla buona
via e il mio volto guarda verso «la porta che e chiamata bella», sebbene
io debba cadere ancora tante volte nel fango e spesso disorientarmi in
mezzo alla bruma.
Questa Vita Nuova, come la chiamo sovente per il mio amore di Dante, non
é a rigore una vita nuova, ma semplicemente la continuazione, per via
di sviluppi e di evoluzioni, della mia prima vita. Quando ero ad Oxford,
l'ultimo anno, una mattina in cui passeggiavamo per gli stretti viali
gorgheggianti del Magdalen College, mi ricordo di aver detto a un amico
che io volevo gustare tutti i frutti del giardino del mondo e che stavo
per metter piede nella vita con questo desiderio chiuso nel profondo
della mia anima. È così, infatti, che vi entrai e così che io vissi.
Il mio solo errore fu di limitarmi esclusivamente agli alberi di quel
che mi parve il lato luminoso del giardino e di fuggire l'altra parte,
impaurito com'ero delle sue zone d'ombra e della sua oscurità. La non
riuscita nel mondo, la sventura, la povertà, il dolore, la disperazione,
la sofferenza, le lagrime stesse e le parole monche che sfuggono alle
labbra in pena, il rimorso che costringe a camminare sui rovi, la
coscienza che condanna, il volontario umiliarsi che avvilisce, la
miseria che ricopre i suoi capelli di cenere, l'angoscia che si lacera
con un cilicio e mescola il fiele nel calice della sua bevanda - di
tutte queste cose insieme io ero spaventato.
E siccome ero risoluto a non sperimentarne mai nessuna, fui poi
costretto a gustarle ad una ad una, a nutrirmene e ad abbeverarmene, a
non avere altro nutrimento durante una intera stagione.
Neppure per un istante io ho rimorso d'aver vissuto per il piacere.
Pienamente mi abbandonai ad esso, come é necessario fare tutto quel che
si fa. Non c'é voluttà che io non conoscessi. In una coppa di vino
gettai la perla della mia anima. Discesi al suono dei flauti per il
sentiero fiorito delle primavere. Mi cibai di miele. Ma non sarebbe
stato buon consiglio continuare la medesima vita, perché ciò sarebbe
equivalso ad una limitazione. Occorreva procedere oltre. Anche l'altra
metà del giardino aveva dei segreti per me. Certo, tutto ciò è detto e
previsto nei miei libri. Una parte, nel Principe Felice; un'altra, nel
Giovine Re, specialmente nel passo nel quale il vescovo dice al
fanciullo inginocchiato: "Colui che ha creato il dolore non é più saggio
di te?".
È una frase che, quando la scrissi, mi parve veramente più di una
semplice frase. Una gran parte di verità é dissimulata sotto l'accento
fatale che, simile a un filo di porpora, serpeggia attraverso la trama
di Dorian Gray. Nel Critico considerato conte artista il presagio si
rivela in molte maniere, nell'Anima dell'Uomo é manifesto in chiare
lettere, anche troppo facili a leggersi; e non é, esso mònito, uno dei
ritornelli che ripetuti motivi rendono Salomé simile ad uno squarcio
musicale e le danno l'unità organica d'una ballata?; inoltre é incarnato
nel poema in prosa dell'uomo che, col bronzo della statua "Del piacere
effimero" deve foggiare l'immagine del "Dolore Eterno".
Non poteva essere diversamente. In ciascun momento della vita si é quel
che si sta per essere, oltre a ciò che si già stati. L'arte é simbolica,
perché tutto un simbolo é l'uomo.
Se potrò conquistarla completamente, questa Vita Nuova, essa sarà la
definitiva realizzazione della vita artistica; in quanto la vita
artistica è semplicemente lo sviluppo di se stesso. L'umiltà per
l'artista consiste nell'accettare con cuore franco tutte le esperienze,
come l'amore per l'artista è il puro senso della bellezza che rivela al
mondo il suo corpo e la sua anima.
In Mario l'Epicureo, Walter Pater cerca nel senso profondo, solenne e
dolce della parola, di riconciliare la vita artistica con quella della
religione. Ma Mario, quasi, non è che uno spettatore - uno spettatore
ideale cui è concesso «di contemplare lo spettacolo della vita con delle
emozioni adeguate», ciò che Wordsworth definisce lo scopo vero del
poeta; tuttavia è uno spettatore un po' troppo preoccupato della
delicata grazia del santuario per fare attenzione al santuario del
dolore che ha pur sotto gli occhi.
Io vedo un vincolo molto più intimo ed immediato tra la vera vita di
Cristo e la vera vita dell'artista e provo un grande piacere pensando
che, assai tempo prima d'essere dominato e legato al carro del dolore,
io avevo scritto, nell'Anima dell'Uomo, che colui il quale volesse
condurre una vita simile a quella di Cristo dovrebbe essere interamente e
assolutamente se stesso e avevo preso come esempi non solo il pastore
sulla montagna e il prigioniero nella sua cella, ma sì anche il pittore
per cui il mondo e una festa di colori e il poeta per il quale
l'universo intero è un canto.
Mi rammento, una volta che si discuteva in un caffè di Parigi, d'aver
detto ad Andrea Gide : la metafisica ha poco interesse reale per me e la
morale nessuno; ma tutto ciò che e uscito dalla bocca di Platone o di
Cristo può essere trasportato immediatamente nella sfera dell'arte e
trovarvi la propria espressione integrale.
Non solo noi possiamo notare in Cristo quel vincolo intimo della
personalità con la perfezione in cui consiste la vera differenza tra il
movimento classico e il romantico nella vita; ma è un fatto che la sua
stessa natura era identica a quella dell'artista - una immaginazione
intensa come una fiamma.
Egli ebbe nel campo dei rapporti umani quella tale simpatia immaginativa
che, nel dominio dell'arte, forma il segreto unico della creazione.
Comprese la lebbra del lebbroso, la tenebra del cieco, la crudeli
miseria di coloro che vivono non cercando altro che il piacere, la
strana povertà del ricco. Qualcuno mi ha scritto, durante il periodo più
acuto delle mie angosce: "Caduto dal vostro piedistallo, non siete più
interessante".
Oh, quanto egli era lontano; dicendo questo, dal "segreto Gesû" !-- per
adoperare una espressione di Matteo Arnold. L'uno e l'altro gli
avrebbero potuto insegnare che ciò che succede, ad un uomo succede
ugualmente a voi e se volete una massima da leggere dall'alba alla
notte, nelle ore di gioia e nelle ore di tristezza, incidete sulle
pareti della vostra casa queste lettere (che saranno dorati dal sole,
inargentate dalla luna): "Tutto quel chi capita a me stesso, capiterà
anche ad altri".
Senza dubbio, Cristo va collocato assieme con i poeti. La sua concezione
dell'Umanità era una risultante diretta della sola immaginazioni - che
può comprenderla. Egli considerò l'uomo come il panteista aveva
considerato Dio. Fu il primo a concepire l'unità delle razze divise.
Avanti ch'Egli apparisse, c'erano stati degli dei e degli uomini, e
Cristo, sentendo per mezzo della sua mistica simpatia che ciascuno di
essi era incarnato in se, si denomina, a seconda, o il figlio di Dio o
il figlio dell'Uomo. Più di qualsiasi altro nella storia Egli dista in
noi quella facoltà del meraviglioso cui si rivolge sempre l'elemento
romanzesco.
C'e ancora in me qualcosa d'incredibile nell'idea di questo giovane
artigiano galileo che s'immagina di poter portare sulle sue spalle il
peso del mondo intero: tutto quel ch'era già stato compiuto e sofferto e
tutto ciò che dovrebbe ancora essere compiuto e sofferto, i delitti di
Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI i di colui che fu Imperatore
di Roma e sacerdote del sole, le torture di coloro i cui nomi sono
legioni e che riposano nei cimiteri, le nazioni oppresse, i fanciulli
martiri delle officine, i ladri, i carcerati, i proscritti, coloro che
sono diventati muti nel servaggio e dei quali solamente Dio comprende il
silenzio; e tutto questo non era una semplice immaginazione, ma un
fatto vero, compiuto, in modo che ora tutti quelli che cercano di
penetrare nella sua personalità - quantunque non si curvino davanti ai
suoi altari, ne s'inginocchino innanzi ai suoi preti - s'avvedono, in
qualche modo, che la macchia del loro peccato è lavata ed hanno la
rivelazione della bellezza del loro soffrire.
Dicevo che Cristo va messo assieme con i poeti. È vero. Shelley e
Sofocle l'accompagnano. Ma tutta la sua vita intera e il più
meraviglioso dei poemi. Quanto a "pietà e terrore", non c'e niente di
simile nel ciclo complessivo della tragedia ellenica. La purità del
protagonista innalza tutto il piano della sua vita ad un'altezza d'arte
romantica donde - a causa dell'orrore - sono eliminate le tribolazioni
di Tebe e della schiatta dei Pelòpidi ; ed essa mostra ancora quanto
avesse torto Aristotile ad affermare, nel suo trattato sul dramma, che
riuscirebbe impossibile sopportare lo spettacolo d'un personaggio
irreprensibile nel dolore.
Né in Eschilo né in Dante, questi geni austeri della più accorata
poesia, né in Shakespeare, il più umano di tutti i grandi artisti, e
nemmeno nell'insieme dei miti e delle leggende celtiche (ne' quali la
bellezza del mando s'intravvede sotto un velo di lacrime e in cui la
vita d'un uomo non e da più della vita d'un fiore) si può trovare
qualcosa che, per la semplice emozione unita alla sublimità dell'effetto
tragico, stia alla pari o soltanto s'approssimi all'ultimo atto della
passione di Cristo.
La cena con i suoi discepoli, da uno dei quali è già stato venduto per
una somma di danaro; l'angosciosa agonia nell'orto tranquillo illuminato
dalla luna; il falso amico che gli si avvicina per tradirlo con un
bacio; l'amico - che credeva ancora in Lui e sul quale Egli, come su una
roccia granitica, aveva sperato di poter costruire un rifugio per
l'Uomo - che lo rinnega, invece, nell'ora in cui il gallo saluta
l'aurora; il suo isolamento assoluto, la sua sottomissione, la sua
rassegnazione; inoltre: le scene nelle quali il gran sacerdote
dell'ortodossia gli lacera con furia le vesti, e il magistrato civile
dell'impero chiede dell'acqua, sperando invano di lavarsi quella macchia
di sangue che dovrà contrassegnarlo come la rossa figura della storia;
la cerimonia dolorosa della corona di spine - una delle cose più
meravigliose nella cronaca dei tempi; la crocifissione dell'Innocente
sotto gli occhi di sua madre e del discepolo che l'amava, i soldati che
si giocano a dadi gli abiti del martire; la morte terribile con la quale
egli ha dato al mondo il suo più eterno simbolo; e poi la sepoltura
finale nella tomba dell'uomo ricco; il suo corpo fasciato di bende
egiziane e profumato di aromi costosi, come se fosse stato il figlio di
un re...
Quando si considera tutto ciò unicamente dal punto di vista dell'arte,
bisogna pure essere riconoscenti alla Chiesa del fatto che il supremo
rito della Chiesa stessa consista nella rappresentazione della tragedia
senza spargimento di sangue: mistica rappresentazione della Passione del
Signore per mezzo di dialoghi, di costumi e di gesti. Ed è per me una
ragione di piacere e di rispetto commosso il pensare che il coro greco,
altrimenti perduto per l'arte, sia sopravvissuto infine nel chierico che
risponde al prete celebratore della messa.
E però la vita di Cristo - a tal punto dolore e bellezza si possono
fondere nella loro manifestazione piena di significato - e realmente un
idillio, quantunque essa termini col velario del tempo che si lacera,
colle tenebre che si addensano sulla faccia della terra e colla pietra
trascinata fino all'ingresso della sepoltura. Si pensa sempre a Cristo
come ad un fidanzato in mezzo ai suoi compagni e, d'altronde, è proprio
così ch'egli si compiace di chiamarsi in alcuni luoghi; come ad un
pastore che trascorra di valle in valle col suo gregge alla ricerca di
verdi prati e di ruscelli d'argento; come a un cantore che provi colla
sua musica di costruire le mura della città di Dio; o come a una amante
le cui capacità d'amore sono troppo vaste per il nostro piccolo mondo.
I suoi miracoli mi sembrano squisiti come il primo soffio della
primavera ed altrettanto naturali. Non ho alcuna difficoltà a credere
che il fascino della sua persona doveva essere tale da poter dare la
pace alle anime tormentate con la sua sola presenza e che coloro i quali
gli toccavano la tunica e le mani dimenticavano le proprie sofferenze; e
che, quando egli passava sulla grande via della vita, uomini che non
avevano mai visto nulla nel mistero di vivere, ad un tratto si sentivano
aprire gli occhi ed altri, rimasti sempre sordi a tutte le voci, tranne
che a quella della voluttà, udivano per la prima volta la voce
dell'amore e la trovavano "così musicale come la lira d'Apollo"; ne ho
difficoltà a credere che le malvagie passioni s'involavano al suo
avvicinarsi e gli uomini, le esistenze dei quali erano sempre state
meschine, simili alla morte, balzavano fuori della tomba - per così dire
- appena egli li chiamava; oppure, quando egli predicava sulla
montagna, la moltitudine obliava la fame, la sete e le cure del mondo; e
quando egli conversava con gli amici e i discepoli durante la cena, il
cibo grossolano sembrava delicato e l'acqua assumeva il gusto del vino e
tutta la casa si riempiva del profumo dolce del nardo.
Nella Vita di Gesù - questo delizioso quinto evangelo, l'evangelo
secondo San Tommaso, si potrebbe chiamarlo - Renan dice in qualche passo
che il grande segreto di Cristo fu quello di farsi amare dopo la morte
quanto era stato amato in vita.
Certamente, se il suo posto ètra i poeti, egli è il principe degli
amanti. Egli vide che l'amore è il principio primordiale del mondo, il
segreto che cercavano i saggi - ed è soltanto per mezzo dell'amore che
ci si può accostare al lebbroso e al signore.
Ma, oltre a tutto ciò, Cristo è il supremo individualista. L'umiltà, in
quanto accettazione artistica di ogni esperienza, è un semplice modo di
manifestarsi. E' l'anima dell'uomo che Cristo cerca di raggiungere senza
tregua. Egli la chiama « regno di Dio » e la trova in ciascuno di noi.
La còmpara a delle piccole cose, a una sottile semenza, a un pugno di
lievito, ad una perla. E non si afferra la realtà della propria anima se
non liberandosi di tutte le passioni estranee, di ogni coltura
sovrapposta, di ogni possesso acquisito - sia esso buono o cattivo.
Io mi ostinai contro tutto, con tenacia e con ribellione, sino a che non
restasse in me più che una sola cosa al mondo. Avevo perduto il mio
nome, la mia posizione, la mia felicità, la mia libertà, la mia
ricchezza. Ero povero e prigioniero. Ma mi rimanevano ancora i miei
figli. A un tratto anch'essi mi furono tolti. Fu un colpo così tremendo
che non seppi più cosa fare; mi gettai in ginocchio, curvai la testa e
piansi, esclamando: «Il corpo del Signore è come quello d'un fanciullo;
io non sono più degno né dell'uno né dell'altro ». Ed ecco : in questo
istante mi parve di salvarmi. Vidi allora che la sola cosa per me era di
accettare tutto. Da quel momento in poi - per quanto ciò paia curioso -
io fui più felice. Si è che io avevo toccato la mia anima nella sua
essenza suprema. In molte maniere me l'ero inimicata, ma essa mi
attendeva ancora come un amico. Quando si entra in comunione coll'anima,
si diventa puri come fanciulli - Cristo l'ha detto.
Ê veramente tragico che così poche persone riescono a «possedere la loro
anima» prima di morire. «Nulla e più raro in un uomo - dice Emerson -
di un'azione che sia proprio sua ». È assolutamente vero. La maggior
parte degli esseri sono degli altri esseri. I loro pensieri sono
l'opinione di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro
passioni un'eco di riflesso. Cristo non fu soltanto il supremo
individualista, ma anche il primo degl'individualisti della storia. Si e
tentato di considerarlo come uno dei tanti filantropi e l'hanno pure
accomunato agli altruisti, come un'ignorante e un sentimentale.
Ma non fu, realmente, né una cosa, né l'altra. Certo, egli ha il senso
della pietà per i poveri, per coloro che sono relegati nelle prigioni,
per gli umili, per i miserabili, ma egli ha molta più compassione per i
ricchi, per gli edonisti, per coloro che sacrificano la propria libertà e
divengono gli schiavi delle cose, per quelli che portano abiti preziosi
e abitano in palazzi regali.
Le ricchezze e la voluttà a lui sembrano invero delle tragedie più
grandi che la penuria e il dolore. Quanto all'altruismo, poi, chi sapeva
meglio di lui che non é la volontà, ma bensì la vocazione quella che ci
spinge a compiere il bene e che non si potrebbero cogliere dei grappoli
su dei roveti, nè dei fichi sui cardi?
Vivere per gli altri, come scopo cosciente e definito, non era già la
sua fede. Non era la base della sua fede. Quando egli dice «perdonate ai
vostri nemici», non afferma questo per amor del nemico, ma per amor di
sè stesso, perché l'amore é più bello dell'odio. Consigliando al giovane
ricco: «va e vendi tutto ciò che possiedi e donalo ai poveri» non è ai
poveri che Cristo pensa, ma all'anima del ricco giovane, l'anima che era
rovinata dalla ricchezza. Nella visione della vita egli è d'accordo
coll'artista il quale sa che, per l'inevitabile legge del perfetto
sviluppo di se stesso il poeta deve cantare, lo scultore pensare nel
bronzo e il pittore fare del mondo lo specchio delle proprie emozioni;
appunto come il biancospino deve sbocciare in primavera, il grano
tingersi d'oro nel giugno e la luna, ne' suoi puntuali viaggi, deve
cambiarsi di scudo in falce e di falce in scudo.
Ma, mentre Cristo non ha mai detto agli uomini: "Vivete per gli altri"
egli ha mostrato, però, che non c'è nessuna differenza tra la nostra e
l'altrui vita. Con questo mezzo egli ha dato all'uomo una personalità
estesissima e titanica. Dopo la sua apparizione, la storia di ogni
individuo particolare si è trasformata o può trasformarsi nella storia
stessa del mondo. Senza dubbio, anche la cultura ha intensificato la
personalità dell'uomo. L'arte ci ha dato degli spiriti innumerevoli come
miriadi. Coloro che hanno temperamento artistico seguono Dante
nell'esilio e imparano « come sa di sale - lo pane altrui e com'è duro
calle - lo scender e il salir per l'altrui scale » ; essi acquistano per
un momento la serenità e la calma di Goethe e tuttavia non ignorano
quel che Baudelaire ha gridato a Dio:
"O Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare il mio corpo e il mio cuore senza vergogna".
Con loro proprio svantaggio, forse, traggono dai sonetti di Shakespeare
il segreto del suo amore e se ne impadroniscono; essi contemplano con
occhi nuovi la vita moderna, perché hanno ascoltato dei notturni di
Chopin o perché hanno maneggiato dei gioielli greci o hanno letto la
storia della passione che un uomo ebbe un tempo lontano per una donna
dalla capigliatura fine come l'oro e dalla bocca simile a una melagrana.
Ma la simpatia del temperamento artistico si rivolge di necessità a ciò
che ha trovato la sua propria espressione. Con delle parole o con dei
colori, con la musica o col marmo, dietro la maschera dei personaggi
d'Eschilo o con le fistule traforate d'un pastore siciliano, dovettero
rivelarsi l'uomo e la sua intimità.
Per l'artista, l'espressione e il solo aspetto secondo il quale egli
possa concepire la vita. Per lui ciò che é muto é morto. Ma per Cristo,
invece, non era così. Con una immaginazione meravigliosa e vasta, che
talvolta riempie di spavento, egli assunse per regno il mondo intero
dell'immobilità, il mondo senza voce del dolore e ne divenne
l'interprete. Scelse come suoi fratelli coloro che sono muti sotto il
servaggio e « il silenzio dei quali non é inteso altro che da Dio ».
Egli volle divenire l'occhio dei ciechi, l'orecchio dei sordi e un grido
sulle labbra di coloro che avevano la lingua recisa. Il suo desiderio
era d'essere una tromba per le miriadi d'uomini che non avevano mai
potuto esprimersi, una tromba con la quale egli lancerebbe il loro
anelito verso il cielo. Con la natura artistica d'un essere per il quale
sofferenza e dolore erano mezzi, attraverso cui giungere alla realtà
della sua concezione del bello, egli sentì che un'idea non ha valore se
non quando s'incarna, se non quando se ne forma un immagine e fece di se
stesso l'immagine dell'Uomo del Dolore; ed e appunto con questa figura
che egli ha affascinato e dominato l'arte come nessuna divinità greca
era riuscita a fare mai. Poiché gli dei dell'Ellade, nonostante il
bianco ed il roseo delle loro agili membra, non erano, in realtà, ciò
che mostravano d'essere.
La fronte ben tornita d'Apollo era simile al disco del sole che sorge
all'aurora dietro una collina e i suoi piedi erano come i soffi della
brezza del mattino, ma egli era stato crudele contro Marsia e aveva
rapito a Niobe i suoi figlioli ; nell'egida d'acciaio degli occhi di
Minerva non c'era mai stata pietà per Aracne ; il fasto e i pavoni di
Giunone erano tutto ciò che esisteva di veramente nobile in lei e il
Padre degli Dei esso stesso mostrò troppa tenerezza per le figlie dei
mortali.
Le due figure più profondamente suggestive della mitologia greca furono,
per la religione, Demetra, dea della Terra, che non era ammessa
nell'Olimpo, e, per l'arte, Dionysos, figlio d'una dotta effimera che
morì nel darlo alla luce.
Eppure la vita stessa, nella sua più modesta e più umile sfera, produsse
una meraviglia più ammirevole che la madre di Proserpina o il figlio di
Semele. Dalla bottega del falegname di Nazareth sorse una personalità
infinitamente più grande di tutte quelle create dalla leggenda e dal
mito e destinata -- cosa strana ! - a rivelare al mondo il senso mistico
del vino e delle reali bellezze del giglio nella valle, come nessuno
aveva fatto ancora, né sul Citerone, nè a Enna.
Il canto d'Isaia: "Egli é il disprezzato e l'ultimo degli uomini, un
uomo di colore che conosce l'angoscia e noi gli abbiamo nascosta la
nostra faccia" gli era parso una profezia e la profezia fu compiuta
nella sua persona. Ogni opera d'arte che è creata é il compimento d'una
profezia, perché ciascuna opera d'arte é la conversione d'un 'idea in
una immagine. Così pure ogni creatura umana dev'essere il compimento
d'una profezia, perché ciascuna creatura umana dovrebbe essere la
realizzazione di qualche ideale, sia nello spirito di Dio che nello
spirito dell'uomo.
Cristo trovò il tipo e lo delineò; talchè il sogno d'un poeta
virgiliano, a Gerusalemme o a Babilonia, nel lungo cammino dei secoli,
s'incarnò in colui che il mondo attendeva.
Per me, una delle cose più dolorose della storia si é che la vera
rinascita di Cristo - che produsse la cattedrale di Chartres, il ciclo
delle leggende d'Artù, la vita di San Francesco d'Assisi, l'arte di
Giotto e la Divina Commedia di Dante - non abbia avuto la libertà di
svilupparsi secondo le sue proprie linee interne, ma invece sia stata
interrotta e violentata dalla fredda rinascita classica che ci ha dato
gli affreschi di Raffaello, l'architettura del Palladio, la tragedia
francese convenzionale, la cattedrale di S. Paolo, la poesia di Pope e
tutto ciò, insomma, che è creato dal di fuori, secondo regole morte, che
non emana dall'intimo di un potente soffio inspiratore. Ma dovunque si
verifica un movimento romantico in arte, là, in un modo o nell'altro, si
trova Cristo o l'anima di Cristo. Egli é in Romeo e Giulietta, nel
Racconto d'inverno, nella poesia provenzale, nella -Ballata del Vecchio
marinaio, nella Belle dame sans merci e nella Ballata della carità, di
Chatterton.
Dobbiamo all'anima di Cristo le cose e i generi più diversi. I
miserabili di Hugo, I fiori del male di Baudelaire, la nota pietosa dei
romanzi russi, Verlaine e i suoi poemi; le vetrate, le tappezzerie e i
lavori quattrocenteschi di Burne-Jones e di William Morris le
appartengono non meno che il campanile di Giotto, Lancillotto e Ginevra,
Tannhauser e i marmi violenti di Michelangiolo, l'architettura gotica,
l' amore per i fanciulli e l'amore per i fiori.
A queste due ultime cose, veramente, l'arte classica non accorda che
poco posto, appena quel tanto che basta per farli crescere e giocare;
eppure dal dodicesimo secolo ai nostri giorni essi non hanno mai cessato
di comparire nell'arte in attitudini varie e in età diverse, a un
tratto e capricciosamente sorgendo, appunto come i fanciulli ed i fiori
la primavera dà sempre l'idea che i fiori si siano nascosti e che
ricompaiano al sole per la paura che gli uomini si stanchino di cercarli
e vi rinuncino; e la vita d'un fanciullo non è altro che un giorno
d'aprile con delle piogge e delle zone di sole per i narcisi.
Ora è questo carattere immaginativo della natura di Cristo che lo rende
il centro palpitante dello spirito romantico. Le strane figurazioni del
poema drammatico e della ballata sono create dalla fantasia d'un altro,
ma Gesù di Nazareth si é interamente creato per proprio conto. Il canto
d'Isaia, in vero, aveva da fare con la venuta di Cristo, tanto quanto il
gorgheggio dell'usignolo coll'alzarsi della luna - nulla di più e nulla
di meno. Egli fu la negazione come pure l'affermazione della profezia.
Per ogni speranza che realizzava, un'altra ne distruggeva. « In ogni
bellezza - dice Bacone - c'é qualche stranezza di proporzione » ; e di
coloro che nascono dallo spirito - vale a dire di coloro che, come lui,
sono delle forze dinamiche - Cristo dice che sono come il vento che «
soffia dove gli pare e nessuno può dire, né donde venga, né dove vada ».
Perciò il suo ascendente è così, grande sugli artisti. Egli ha tutti i
colori della vita: il mistero, la stranezza, il patetico, la
suggestione, l'estasi e l'amore. Si rivolge allo spirito del miracolo e
crea quel tale stato d'animo, solo nel quale può essere compreso.
E per me é una gioia, ora, il considerare che s'egli é «tutta immaginazione » il mondo stesso é di una identica sostanza.
Ho detto, nel Dorian Gray, che i grandi delitti del mondo accadono
nell'intimo del cervello. Ma non é pure nel cervello che tutto accade? Adesso
sappiamo che noi non vediamo con gli occhi, né udiamo con le orecchie.
Essi non sono che dei canali per trasmettere con più o meno di esattezza
le impressioni dei sensi.
È dentro il cervello, che il papavero e rosso, e la mela odora e l'allodola canta.
Da qualche tempo io studio con cura i quattro poemi in prosa che
riguardano la figura di Cristo. Per Natale son riuscito a procurarmi un
Testamento Greco ed ogni mattina, dopo aver spazzato la mia cella e
forbito i miei utensili, leggo un passo dei Vangeli, una dozzina di
versetti presi a caso, non importa dove. E' una deliziosa maniera di
cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una vita turbinosa e
disordinata, dovrebbe fare così. Ripetizioni interminabili, ad ogni
proposito e fuori scopo, ci hanno sciupato la freschezza, l'ingenuità,
la grazia semplice e romantica dei Vangeli. Li sentiamo leggere e citare
troppo spesso e troppo male, ed ogni insistenza di questo genere e
anti-spirituale. Quando si torna al testo greco, pare di entrare in
un'aiuola di gigli, uscendo da una casa angusta ed oscura.
Il piacere é raddoppiato per me dal pensiero che é assai probabile che
noi adoperiamo le medesime frasi, ipsissima verba, usate da Cristo. Si
ritenne per certo, a lungo, ch'egli si esprimesse in aràmico. Anche
Renan lo credeva. Ma ora sappiano che gli abitanti della Galilea, come
gli Irlandesi dei nostri giorni, erano bilingui e il greco era il
linguaggio ordinario che serviva per le relazioni quotidiane da un capo
all'altro della Palestina e, veramente, da un punto all'altro di tutto
il mondo orientale. Ero spiacente di non poter conoscere le parole di
Cristo, se non attraverso la traduzione di una traduzione. Sì, é per me
una delizia pensare che, almeno per la semplice conversazione, Carmide
avrebbe potuto ascoltarlo e Socrate parlare con lui e Platone
comprenderlo; ch'egli pronunciò esattamente: "io sono il buon pastore"; e
quando pensava ai gigli del campo, i quali non lavorano e non filano,
ma vivono, o la sua ultima parola, quando gridò: «Tutto é finito, la mia
vita è terminata, ha toccato il vertice della sua perfezione », fu
proprio quella che ci riporta San Giovanni e nulla più.
Leggendo i Vangeli - specialmente il Quarto, quello di San Giovanni o
del Gnostico, chiunque sia colui che assunse il suo nome e il suo abito -
io vedo di continuo che l'immaginazione è messa innanzi come la base di
ogni vita spirituale e materiale ; e, inoltre, per Cristo
l'immaginazione era una semplice forma dell'amore e l'amore era sovrano
nel senso più esteso del termine.
Circa sei settimane fa il medico mi accordò il permesso di mangiare del
pane bianco invece del ruvido pane nero o bigio del regime ordinario. È
una vera ghiottoneria. Parrà strano che del pane secco possa essere una
ghiottoneria. Per me lo è a tal punto che, alla fine di ciascun pasto,
io mangio accuratamente le briciole rimaste sul mio piatto di metallo o
cadute sulla grossa salvietta che ci serve di tovaglia per non sporcare
la tavola; e non lo faccio per fame - il vitto che mi dànno è
sufficiente - ma solo per non perdere nulla di ciò che mi e dato. È in
questo modo che bisogna considerare l'amore.
Cristo, come tutte le figure affascinanti, aveva il potere non soltanto
di dire lui stesso delle cose belle, ma anche di farsi dire delle belle
cose dagli altri. E a me piace la storia, che ci racconta San Marco,
d'una donna greca la quale, dicendole Cristo (per mettere alla prora la
sua fede) di non poterle dare il pane dei figli d'Israele, - replicò che
i piccoli cani accucciati sotto la tavola, si nutrono delle briciole,
che i bimbi fanno cadere.
La maggior parte degli uomini vivono per l'amore e per l'ammirazione, ma
invece é per mezzo dell'ammirazione e dell'amore che noi dovremmo
vivere. Se alcuno ci mostra dell'amore, noi dovremmo riconoscere che ne
siamo perfettamente indegni. Nessuno é degno d'essere amato. Il fatto
che Dio ama l'uomo ci prova che, nell'ordine divino delle cose ideali, é
stabilito che un eterno amore sarà dato a chi ne é eternamente indegno.
Ovvero, se questa frase sembra troppo amara, diciamo che tutti gli
uomini sono degni d'amore, tranne coloro che possono esserlo. L'amore é
un sacramento che bisognerebbe accogliere in ginocchio e Domine, non sum
dignus dovrebbe essere la frase di coloro che lo ricevono, sulle loro
labbra e nel loro cuore.
Se io scriverò ancora, nel senso di creare un'opera d'arte, due sono i
soggetti, soprattutto, sui quali e per mezzo dei quali voglio
esprimermi; uno é: "Cristo come precursore dell'atteggiamento romantico
nella vita", l'altro : "La vita artistica considerata ne' suoi rapporti
con la condotta umana". II primo é, senza alcun dubbio, assai seducente,
perché io vedo in Cristo non solo il principio essenziale del supremo
tipo romantico, ma anche tutte le contingenze e le stesse perversità del
temperamento romantico. Egli fu il primo a dire agli uomini di vivere
come i fiori e ha fissato per sempre la frase. Cristo prese i fanciulli
come tipo e modello per le aspirazioni umane. Li propose come esempio ai
loro genitori - cosa che io ho sempre pensato, se é vero che si deve
giovarsi di ciò che é perfetto. Dante descrive l'anima dell'uomo come
proveniente da Dio « che piangendo e ridendo pargoleggia » ed anche
Cristo aveva veduto che l'anima di ciascuno di noi dovrebbe essere a
modo di fanciulla - che piangendo e ridendo pargoleggia. Sentì che la
vita è mutevole, fluida, attiva e che permetterle di stereotiparsi in
una forma qualsiasi, significa farla morire.
Cristo disse che gli uomini non devono preoccuparsi eccessivamente dei
loro interessi materiali e comuni; che solo il liberarsi dalle faccende
pratiche é una cosa importante. Gli uccelli non si affannano per
interesse di sorta. Perché l'uomo, dunque, se ne cruccia? È delizioso,
quando afferma: "Non curatevi del domani; l'anima non val più che la
carne? E il corpo più della veste?".
Un greco avrebbe potuto usare quest'ultima frase. Essa é piena di
sentimento greco. Ma solo Cristo poteva enumerarle tutte e due e
riassumere così perfettamente la vita.
La sua morale é tutta di simpatia, appunto come dev'essere la morale. Se
non avesse mai detto altro che queste parole: "I suoi peccati le sono
perdonati, perché ha molto amato", metterebbe il conto di morire per
averle dette. La sua giustizia é una giustizia tutta poetica, appunto
come la giustizia dev'essere. Il malfattore andrà in paradiso, perché é
stato infelice; io non trovo una ragione migliore per mandarvelo. Gli
artigiani che non hanno lavorato che un'ora sola nella vigna e durante
la fresca brezza della sera, riscuotono lo stesso salario di coloro che
hanno sudato tutto il giorno in mezzo ai tralci, sotto la sferza del
sole. Probabilmente, nessuno meritava di essere pagato. O, forse, gli
artigiani erano differenti? Cristo non aveva nessun trasporto per i
sistemi meccanici, privi d'anima, che trattano gli uomini come se
fossero degli oggetti e trattano tutto il mondo alla stessa stregua: per
lui non esistevano leggi; c'erano semplicemente delle eccezioni; come
se ogni uomo od ogni cosa non trovassero alcun simile.
Ciò che forma il tono stesso dell'arte romantica era per Cristo il vero
fondamento della vita naturale. Non ne scorgeva altro. E quando gli fu
condotta innanzi una donna sorpresa in flagrante adulterio e gli fu
indicata la sentenza della legge e gli venne chiesto ciò che occorreva
fare, egli continuò a scrivere col suo dito sulla sabbia come se non
avesse udito, e quando lo si esortò a rispondere, alzò la testa e disse:
«Chi di voi é senza peccato, scagli la prima pietra». Mette conto di
vivere per pronunciare una simile frase.
Come tutte le nature poetiche, egli amava gl'ignoranti. Ben egli sapeva
che nell'anima d'un essere ignorante c'è sempre posto per una grande
idea. Ma non poteva sopportare gli stupidi, specie coloro che sono resi
tali dall'educazione: gli uomini pieni d'opinioni delle quali non ne
capiscono neppur una - tipo particolarmente moderno, messo in luce da
Cristo quando lo dipinge come il tipo di colui che possiede la chiave
della conoscenza, ma che, incapace di servirsene per conto proprio,
impedisce anche agli altri di usarla, quantunque essa possa aprire la
porta del regno del Cielo.
Contro i Filistei egli condusse la sua più fiera campagna. È la guerra
che devono combattere tutti i figli della luce. Il Filisteo era la
figura caratteristica dell'età e dell'ambiente nel quale Cristo viveva.
Con la loro massiccia inaccessibilità alle idee, la loro opaca
rispettabilità, la loro noiosa ortodossia, con la loro esclusiva
preoccupazione del lato volgarmente materialistico della vita e la loro
prosopopea di se stessi e della propria importanza, i Giudei di
Gerusalemme, al tempo di Cristo, erano l'immagine esatta del filisteismo
britannico del nostro tempo.
Cristo si beffò dei "sepolcri imbiancati" e la sua frase rimase eterna.
Trattò il successo materiale come una cosa da disprezzarsi
assolutamente. Non voleva vedere in esso nulla d'importante. Considerava
la ricchezza come un ingombro per l'uomo. Non voleva affatto sentir
parlare di sacrificio della vita a un qualunque sistema di pensiero o di
morale. Mostrò che le forme e le cerimonie erano fatte per l'uomo e non
già l'uomo per le forme, le convenzioni e le cerimonie. Prese
l'idolatria del sabato a bersaglio delle sue sfide. Le filantropie a
freddo, le ostentate carità pubbliche, i massacranti formalismi così
cari allo spirito dei mediocri - tutto denunciò con uno sdegno
implacabile. Per noi l'ortodossia e semplicemente un'acquiescenza facile
e idiota, ma per essi nelle loro mani era una tirannide terribile
paralizzatrice. Cristo la ripudiò. Sostenne e provò che soltanto lo
spirito contiene un valore. Quasi con un maligno piacere dimostrava loro
che, malgrado lo studio continuo della legge e dei profeti, essi non
avevano, in realtà, la più piccola idea di quel che le une e gli altri
significassero. Al contrario della loro suddivisione di ogni giornata in
una serie fissa di pratiche prescritte, come un tritume di menta e di
ruta, egli predicò l'enorme valore di vivere per l'ora presente.
Coloro ch'egli salvò dai peccati, furono salvi soltanto per merito di
alcuni momenti belli nella loro vita. Nel veder Cristo, Maria Maddalena
spezza il ricco vaso, d'alabastro donatole da uno dei suoi amanti e
sparge gli aromi sui piedi stanchi e polverosi del Maestro; ed è appunto
in forza di questo momento unico ch'ella è posta per sempre, con Ruth e
Beatrice, in mezzo alle ghirlande di rose bianche del Paradiso.
Tutto ciò che Cristo c'insegna con piccoli moniti si é che ogni istante
della nostra vita deve essere bello, che l'anima ha da essere pronta per
l'arrivo dello sposo, sempre attenta alla voce dell'amante - poiché il
Filisteismo é semplicemente quel lato dell'indole dell'uomo che non
s'illumina alla fiamma dell'immaginazione. Cristo vede tutte le più
splendide facoltà della vita come delle attitudini luminose: la stessa
immaginazione é la luce del mondo. Il mondo é creato da lei e tuttavia
non la comprende; il che si spiega, poiché l'immaginazione e un
manifestarsi dell'amore ed é l'amore e la facoltà d'amare che
distinguono tra loro gli esseri umani.
Sennonché, gli é nelle sue relazioni con i peccatori che Cristo é sopra
tutto romantico, nel senso più reale della parola. Il mondo aveva sempre
venerato i santi, perché sono i più prossimi alla perfezione di Dio. Cristo,
invece, guidato da un istinto divino, sembra che abbia sempre amato il
peccatore come il più prossimo alla perfezione dell'uomo.
Il suo desiderio originario non era già quello di redimere gli uomini
- come non era di lenire il dolore. Trasformare un ladro interessante
in un onest'uomo noioso - non era proprio il suo scopo. Egli avrebbe
avuto una ben misera idea della Società per la Redenzione dei Carcerati
e d'altre iniziative moderne del medesimo genere. La conversione d'un
pubblicano in un fariseo non gli sarebbe parsa un atto molto degno di
gloria. Ma egli considerava il peccato e la sofferenza in una maniera
che il mondo non ha per nulla compreso, come due cose belle e sante,
come forme di perfezione.
Questa sembra un'idea pericolosa ed é pericolosa, di fatti, come tutte
le grandi idee. Ma non c'é nessun dubbio ch'era veramente il credo di
Cristo. Ed io non esito a ritenerla una verità straordinaria.
Certo, occorre che il peccatore si penta. Ma perché? Per la semplice
ragione che, altrimenti, non potrebbe rendersi conto di ciò che ha fatto.
L'istante del pentimento é quello stesso dell'iniziazione. È anche più:
é il mezzo col quale si muta il proprio passato. I Greci non reputavano
possibile tutto ciò. Spesso affermano nei loro aforismi gnòmici:
"Nemmeno gli Dei potrebbero mutare il loro passato". Ebbene - Cristo ha
mostrato che il più comune dei peccatori può farlo e che anzi é l'unica
cosa che può fare.
Se ne fosse stato richiesto, Cristo, ne sono sicuro, avrebbe risposto
che nell'istante in cui il figlio prodigo cadde in ginocchio davanti al
padre e ruppe in singhiozzi, egli trasformò le sue orgie, le sue
umiliazioni e la sua degradazione in altrettanti momenti belli e santi
della propria vita. E' difficile, lo so, per la maggior parte degli
uomini, l'afferrare un'idea siffatta. Oso dire che bisogna andare in prigione per poterla comprendere. E se così è, vale veramente la pena di vivere in una galera.
C'é qualche cosa di così unico, in Cristo ! Certo, come ci sono delle
false aurore prima dell'aurora vera e dei giorni d'inverno
incredibilmente dolci di sole che ingannano il croco e gli fanno
sciupare l'oro anzi tempo o spingono il troppo ingenuo uccello al canto
per invitare la sua compagna a costruire un nido su delle frasche ignude
- così ci furono dei cristiani avanti Cristo. E siamone loro
riconoscenti. Ma il male si é che non ce ne furono più dopo di lui.
Faccio un'eccezione: San Francesco d'Assisi. Ma Dio gli aveva dato sin
dalla nascita un'anima di poeta ed egli stesso, nella sua prima
giovinezza, aveva tolto in mistiche nozze la sua sposa Povertà; con
l'anima d'un poeta e il corpo d'un mendicante, San Francesco non
percorre troppo difficilmente la via della, perfezione. Egli comprese
Cristo e così divenne simile a Lui. Non abbiamo bisogno del Liber
conforrmitatun per apprendere che la vita di San Francesco é la vera
Imitazione di Cristo; poema che, comparato al Liber, non è che una
prosa.
Sicuramente, il fascino di Cristo si é ch'egli é in tutto e per tutto
simile ad un'opera d'arte. Non c'insegna nulla, in realtà; ma per il
solo fatto d'essere condotti alla sua presenza si diventa qualcosa di
più. E ciascuno di noi é predestinato a questa presenza. Almeno una
volta nella sua vita, ogni uomo cammina con Cristo sino ad Emmaus.
Ora, per ciò che riguarda l'altro soggetto, vale a dire il rapporto
della Vita Artistica con la Condotta Umana, vi sembrerà certamente
strano ch'io l'abbia scelto. La gente si mostra a dito il carcere di
Reading e dice: "Ecco là a che cosa conduce una vita artistica ! " Che
monta? essa potrebbe menare anche a dei luoghi peggiori. Gli uomini
meccanizzati per i quali la vita é una continua speculazione, dipendente
da uno scrupoloso calcolo di mezzi e di sistemi, essi lo sanno sempre
dove vogliono arrivare e ci arrivano. Si mettono in cammino col
desiderio ideale d'essere sagrestani della loro parrocchia e, qualunque
sia la sfera in cui agiscono, finiscono sempre coll'essere sagrestani
della loro parrocchia, e nulla più.
Un individuo che brama di divenire qualcosa di diverso da sé stesso,
cioè: d'essere membro del Parlamento o pizzicagnolo che s'arricchisce o
avvocato famoso o giudice o qualche cos'altro d'ugualmente noioso,
riesce con ogni probabilità a divenire ciò che desidera. Ed é così che
trova il suo castigo. Coloro che vogliono una maschera sono condannati a
portarla per sempre.
Ma con le energie dinamiche della vita e con coloro ne' quali queste
forze s'incarnano, tutto é diverso. Quelli che desiderano soltanto di
essere se stessi non sanno mai dove vanno. Non possono saperlo. In un
senso del termine, é necessario e naturale il conoscere se stessi, -
come disse l'oracolo ellenico questo é il primo passo della conoscenza.
Ma riconoscere che l'anima d'un uomo é inconoscibile - ecco l'ultimo
risultato della saggezza. Il mistero finale risiede in noi stessi. Dopo
aver pesato il calore e la massa del sole, misurate le fasi della luna,
disegnate le mappe dei sette cieli, stella per stella, e ancora l'io in se, che rimane.
Chi può calcolare l'orbita della propria anima? Quando il figlio si pose
in cammino per rintracciare gli asini di suo padre, egli non sapeva che
l'uomo di Dio lo aspettava con la cresima della consacrazione e che la
sua anima era già quella di un re.
Spero di vivere abbastanza per produrre un'opera di tal carattere ch'io
possa: dire alla fine dei miei giorni: « Sì !; ecco a che cosa può
condurre un uomo, una vita Artistica ! »
Due delle vite più perfette ch'io mi conosca sono quelle di Verlaine e
del principe Kropotkine. Entrambi hanno passato degli anni in prigione;
il primo é l'unico poeta cristiano dopo Dante; l'altro possiede una
bella anima di Cristo candido, come ci si attende che debbano venirne
dalla Russia. Durante gli ultimi sette od otto mesi, - nonostante una
serie di crucci che mi son venuti dal mondo esterno (quasi senza
interruzione) - mi sono messo in contatto immediato con uno spirito
nuovo che agisce- in questo carcere per mezzo degli uomini e delle cose e
che mi ha soccorso in modo indicibile; cosicché io, che per tutto il
primo anno della mia reclusione non ho fatto che torcermi le mani, ben
mi ricordo, e gridare con una impotente disperazione: «Quale tracollo!
Quale spaventevole fine !», adesso invece tento di dirmi e, qualche
volta, quando non mi torturo da me stesso, realmente e sinceramente mi
dico: "Quale nuovo principio! Quale meraviglioso principio !" Può darsi
che sia così, in realtà. Può darsi che la cosa divenga così. E allora
quanto io dovrei a questa personalità nuova che trasforma l'esistenza di
ognuno, anche qua dentro!
Vi sarà possibile comprenderlo, quando vi dirò che, se fossi stato
liberato nel maggio scorso (come desideravo), avrei lasciato questo
luogo con l'anima piena di amaro odio contro di esso e contro i
carcerieri - ma questo sentimento cattivo avrebbe poi avvelenato la mia
vita. Ho subìto un anno di reclusione di più, ma un senso vivo d'umanità
è pur stato in carcere con tutti noi ed ora, quando me ne andrò, io mi
rammenterò sempre le grandi premure che quasi tutti qui hanno avuto per
me ; e il giorno della mia liberazione rivolgerò un grazie a non pochi, e
domanderò loro in ricambio che si ricordino qualche volta di me.
I sistemi della prigione sono assolutamente e interamente crudeli. Molto
darei per poterli cambiare. Ho intenzione di fare questo tentativo. Ma
quantunque un sistema sia così difettoso, lo spirito d'umanità che é poi
lo spirito d'amore (lo spirito di Cristo che non si trova dentro le
chiese) - riesce almeno a farlo sopportare senza troppa amarezza, se non
proprio a mutarlo radicalmente.
So anche che, fuori, mi aspettano innumerevoli e deliziose cose, - da
quelle che San Francesco chiama « frate vento e sorella piova » alle
vetrine dei negozi e ai tramonti delle grandi città. Se facessi un
elenco di tutto ciò che ancor mi rimane, non so dove mi fermerei, perché
veramente Dio ha creato il mondo tanto per me quanto per gli altri.
Forse io uscirò di qui in possesso di qualche cosa che prima non avevo.
Non ho bisogno di dirvi che per me le riforme della morale sono
insignificanti e volgari come quelle della teologia. Ma, mentre la
risoluzione d'essere un uomo migliore é un atto sperimentale ed ipocrita
- essere divenuto, invece, più profondamelte uomo é il privilegio di
coloro che hanno sofferto; - ed io credo d'esserlo divenuto.
Se, quando sarò libero, uno de' miei amici darà una festa senza
invitarmi, io non troverò nulla a ridire. Posso essere perfettamente
felice solo con me stesso. Con la libertà, i fiori, i libri e la luna,
chi non sarebbe felice? D'altra parte, le feste non sono più fatte per
me. Ne ho date troppe, perché debba curarmene ancora. Questo lato della
vita é finito per me - assai fortunatamente, oso dire. Ma se, quando
sarò libero, uno de' miei amici avesse un dolore e m'impedisse di
prendervi parte, mi risentirei un'amarezza infinita. S'egli mi sbarrasse
le porte della casa in lutto, io ritornerei chissà quante volte a
supplicarlo d'esservi ammesso, pur d'avere la mia parte di ciò cui ho
diritto. S'egli mi reputasse incapace e indegno di piangere con lui, ne
proverei l"umiliazione più sanguinosa; considererei la sua ripulsa come
la maniera più terribile per avvilirmi.
Ho un diritto di partecipare al dolore e colui che può contemplare la
bellezza del mondo, sentendone anche la sofferenza, comprendendo
entrambe le meraviglie, - colui é in contatto con le cose divine e si é
avvicinato al segreto di Dio per quanto é possibile.
Giova credere che nella mia arte, non meno che nella mia vita, vi sarà
una nota più profonda ancora - una nota di più grande unità di passione e
d'impulso. È l'intensità e non la latitudine lo scopo vero dell'arte
moderna. Nell'arte non dobbiamo più occuparci del tipo, ma
dell'eccezione. Io non posso dare alle mie sofferenze nessuna delle
forme reali che assunsero. L'Arte comincia là dove l'Imitazione finisce;
ma qualcosa penetrerà nella mia opera, una pienezza di memoria verbale,
di cadenze più ricche, di effetti più curiosi, di un ordine
architettonico più semplice - per lo meno di un'altra qualità estetica.
Quando Marsia fu "strappato dalla vagina delle sue membra", per usare la
frase di Dante, d'una concisione terribile, addirittura tacitiana, egli
non ebbe più nessun canto sulle sue labbra, dicono i Greci. Apollo
aveva vinto. La lira aveva vinto la zampogna. Ma forse i Greci si sono
ingannati. Io odo il grido di Marsia in una gran parte dell'arte
moderna. È amaro in Baudelaire, dolce e lamentevole in Lamartine,
mistico in Verlaine. Si ritrova nelle catharsi lente della musica di
Chopin. E nelle donne di Burne Jones. Anche Matteo Arnold ce lo fa
udire, sebbene egli ci parli, nel suo canto di Callicle, del trionfo
"della dolce e suadente lira e della famosa ultima vittoria", con una
così bella, tersa nota di lirismo. Nel mormorio irrequieto di dubbio e
di affanno che pervade i suoi versi, né Goethe né Wordsworth giovarono
in alcun modo a Matteo Arnold, per quanto egli li abbia seguiti di volta
in volta; e quando vuol dolersi del fato di Tirsi o celebrare lo
scolaro Gypsy, gli occorre pur prendere la zampogna per esprimere il suo
tormento.
Ma, insomma, sia o non sia stato muto il fauno di Frigia - io non posso
essere silenzioso. L'espressione mi é tanto necessaria quanto le foglie e
i fiori lo sono per i rami neri degli alberi che s'intravedono al di là
delle mura della prigione e che senza posa si agitano nel vento. Tra la
mia arte e il mondo, c'é ora un vasto gorgo, ma tra l'arte e me stesso
non ce n'é alcuno, almeno io lo spero.
A ciascuno di noi - la sua sorte. Il mio destino è stato di pubblica
infamia, di lunga prigionia, di miseria, di rovina, di sventura, di
fiele, ma io non ne sono degno - in ogni caso non ne sono ancor degno.
Mi sovviene d'aver detto spesso che avrei potuto sopportare una tragedia
reale, pur ch'ella mi si presentasse con un mantello di porpora e con
la maschera d'un nobile dolore; ma ciò che v'é di orribile nella vita
moderna si é ch'essa riveste la tragedia con i cenci della commedia, in
modo che le più grandi realtà sembrano banali o grottesche o prive di
stile. Questa é la perfetta verità intorno all'esistenza moderna. Si
dice che tutti i martiri sembrano meschini a chi li osserva. Il secolo
decimonono non fa eccezione alla regola.
Tutto, nella mia tragedia, é stato orrido, ripugnante, privo di stile:
la nostra casacca stessa ci rende grotteschi. Noi siamo i buffoni del
dolore; siamo i pagliacci dal cuore spezzato. Siamo designati in modo
speciale per essere gli zimbelli dei belli-spiriti. Il 13 novembre 1895
fui condotto da Londra a qua. Quel giorno, dalle due alle due e mezza,
fui costretto a restare sulla banchina centrale della stazione di
Clapham Junction, in uniforme da prigioniero colle manette ai polsi -
come uno spettacolo per la folla. Mi avevano fatto uscire
dall'infermeria senza darmi un momento di riposo.
Ero più grottesco di qualsiasi altro immaginabile oggetto. Nel vedermi,
la gente si metteva a ridere. Ad ogni treno, il circolo dei curiosi
s'ingrossava. Nulla li avrebbe divertiti maggiormente. E tutto ciò, é
naturale, fino a che non seppero chi io ero; ma appena ne furono
informati, risero ancor di più. Per una mezz'ora intera io rimasi là,
sotto la pioggia sottile di novembre, in mezzo alla folla che mi
scherniva !
E durante un anno da quel giorno, ad ogni volger di sole, alla medesima,
ora, io piangevo per uno stesso spazio di tempo. Oh, non é una cosa
tanto tragica come sembra ! Per i prigionieri, le lacrime fanno parte
dell'esperienza quotidiana. Una giornata in carcere senza pianto è una
giornata in cui il cuore è duro e non é una giornata in cui il cuore
possa essere felice.
Adesso, però, comincio a provare più rimorso per coloro che risero di
me, che per me stesso. Certo, quando essi mi videro, io non ero più sul
mio piedestallo - ero alla gogna. Ma sono le nature assai poco
fantasiose che si preoccupano solamente degli uomini eretti su un
piedistallo. Un piedistallo può essere una cosa del tutto irreale. Una
gogna; invece, - é una terribile realtà. Essi avrebbero dovuto saper
meglio interpretare il dolore. Ho detto già che dietro il dolore c'è
sempre il dolore. Sarebbe più esatto dire che dietro il dolore c'é
sempre un'anima.
Ora - beffarsi di un'anima in pena é cosa terribile. Nell'economia
stranamente semplice del mondo non si riceve se non ciò che si dona e a
coloro, che non hanno abbastanza forza, per penetrare l'aspetto esterno
delle cose e sentire la pietà, quale pietà si può dare se non quella del
disprezzo?
Riferisco queste cose semplicemente perchè si comprenda quanto mi é
stato difficile trarre dal mio castigo ben altro che amarezza e
disperazione. Eppure mi tocca estrarne una cosa diversa e, di quando in
quando, ho dei periodi, di sottomissione e di rassegnazione. La
primavera intera può essere racchiusa nell'unica gemma d'una pianta e il
nido dell'allodola a fior della terra può contenere la gioia che
annuncerà la comparsa di innumerevoli aurore color di rosa e di porpora.
Così, forse, ciò che mi resta ancora di bellezza di vita é racchiuso in
qualche attimo d'abbandono, di diminuzione di me stesso e
d'umiliazione. Tuttavia, io posso semplicemente continuare a perseguire
il mio proprio sviluppo e, accogliendo tutto ciò che mi é accaduto,
rendermene degno.
Alcuni avevano l'abitudine di dire ch'io ero troppo individualista. Ora,
più che mai, mi occorre essere individualista. Devo cavar fuori da me
stesso molto di più di quel ch'io ne abbia tratto sin qui ed esigere dal
mondo assai meno di quanto gli abbia mai domandato. La mia rovina, in
vero, deriva non da eccessivo individualismo, ma dal suo difetto.
L'azione ignominiosa, imperdonabile ed eternamente disprezzabile della
mia vita fu di avere accondisceso a rivolgermi alla società per
ottenerne aiuto e protezione. Scendere a questo sarebbe stato un errore,
dal punto
di vista dell'individualismo, ma quale scusante invocare dopo aver
compiuto una cosa simile? Naturalmente, una volta messe in moto le
macchine della Società, essa si rivolse contro di me e disse: "Come ! tu
hai vissuto fino ad ora disprezzando le mie leggi, ed ora vieni a
domandarmi aiuto per mezzo di queste leggi stesse? Bene: ti saranno
applicate col massimo rigore. Sarai obbligato a sottometterti alle leggi
che hai invocato".
L'effetto é questo: ch'io sono in carcere. Certo, nessun uomo cadde così ignobilmente e con dei metodi tanto ignobili.
L'elemento filisteo della vita non consiste nell'incapacità di
comprendere l'arte. Ci sono degli esseri piacevoli, come ad esempio i
pescatori, i pastori, gli operai, i contadini ed altri che non
s'intendono d'arte, e pure sono il vero sale della terra. Filisteo é
quegli che sostiene ed aiuta le forze meccaniche, pesanti, ingombranti e
cieche della società; e che non arriva ad ammettere un'energia dinamica
quando s'imbatte in essa, sia incarnata in un uomo o in un'azione
qualunque.
Han giudicato spaventevole da parte mia il fatto d'aver invitato a
pranzo dei cattivi soggetti e d'essermi compiaciuto in loro compagnia.
Ma, dal punto di vista nel quale io mi ponevo come uomo d'arte, essi
erano deliziosamente suggestivi ed eccitanti. Il pericolo formava la
metà del piacere.... In quanto artista, avrei dovuto interessarmi solo
d'Ariele e non mettermi a lottare con Calibano...
Uno de' miei grandi amici - d'un'amicizia decennale - venne a trovarmi
qualche tempo fa e disse che non credeva nemmeno a una parola di tutto
ciò che si era macchinato contro di me e s'augurava ch'io mi persuadessi
d'essere considerato da lui assolutamente innocente e vittima d'una
vile congiura.
Non potei frenare le mie lacrime nell'ascoltarlo e gli risposi che,
nonostante le accuse interamente false formulate contro di me e a
malgrado delle colpe attribuitemi per malvagità imperdonabile, tuttavia
la mia vita era stata piena di piaceri crudeli e che non m'era più
possibile restare suo amico o trovarmi ancora in sua compagnia altro che
a patto ch'egli accettasse la mia confessione e vi credesse pienamente.
Fu per lui un grave colpo; ma noi siamo rimasti amici e almeno non ho
ottenuto il dono della sua amicizia con l'ipocrisia.
Le forze dell'emozione, come ho detto in qualche passo delle
"Intenzioni", sono altrettanto limitate in latitudine ed in durata
quanto le energie fisiche. La piccola coppa che è foggiata in modo da
contenere una data misura di liquido non può contenerne una stilla di
più, anche se le cantine della Borgogna traboccassero di vino e i
vinaiuoli pestassero sino al ginocchio il raccolto dei sassosi vigneti
di Spagna. Non c'é errore più diffuso del pensare che coloro i quali
sono le cause o le occasioni d'una grande tragedia siano poi partecipi
dei sentimenti che si convengono alla tragedia stessa; nessun errore e
più fatale che aspettarsi questi sentimenti da parte loro. Il martire,
nel suo « sudario di fiamma » può contemplare il volto del Signore, ma
per colui che ammucchia le fascine o che attizza i ceppi affinché
ardano, lo spettacolo non é più impressionante della morte d'un bue per
il macellaio, o della caduta d'un albero per il boscaiolo o d'un fiore
per il falciatore dei prati.
Le grandi passioni sono per coloro che hanno una grande anima e i grandi
avvenimenti non possono essere veduti e compresi se non da quelli che
sono al loro stesso livello.
In tutto il dramma, dall'angolo visuale artistico, io non conosco nulla
che sia da paragonarsi alla creazione shakesperiana di Rosencrantz e
Guildenstern, nulla che sia più suggestivo in quanto a finezza
d'osservazione. Essi sono i camerati di Amleto. Ne furono già i
compagni. Recano con sé il ricordo delle piacevoli giornate trascorse
assieme. Nel momento in cui essi incontrano Amleto, nel dramma, egli
vacilla sotto un peso insostenibile per chiunque abbia il suo
temperamento.. I morti sono balzati in armi dalla tomba per imporgli un
compito al tempo stesso troppo grande e troppo angusto per lui. È un
sognatore costretto all'azione. Amleto é un poeta e gli si comanda di
misurarsi con la doppia complessione della causa e dell'effetto, con la
vita nella sua contingenza pratica (della quale nulla conosce) e non con
la vita nella sua essenza ideale ch'egli penetra tanto bene. Egli non
ha nessuna idea di ciò che convenga fare e la sua follia consiste nel
simulare la follia.
Bruto si servì della demenza come d'un mantello per nascondervi sotto la
spada, la daga della sua volontà, ma la pazzia d'Amleto e una semplice
maschera per dissimulare la propria debolezza. Facendo dello spirito,
abbandonandosi a degli scherzi, egli crede di ottenere una via di
scampo. Si ostina a giocare coll'azione come un artista gioca con una
teoria. Fa la spia ai suoi stessi atti e, sentendosi parlare, egli sa
che non sono altro che « parole, parole, parole ». Invece di tentare
d'essere l'eroe della sua storia, cerca d'essere lo spettatore della sua
tragedia. Dubita di tutto, compreso se stesso, e tuttavia il suo dubbio
non l'aiuta, perché non é effetto di uno scetticismo, ma di una volontà
che si scinde.
Di tutto ciò Rosencrantz e Guildenstern non capiscono niente. Essi
sorridono, si piegano, fanno i graziosi e quel che l'uno dice l'altro lo
ripete, sempre sul medesimo tono. Quando, infine, per mezzo del dramma
intercalato nel dramma e delle tenerezze che si scambiano gli attori,
Amleto «sorprende la coscienza » del Re e lo caccia dal suo trono,
miserabile e spaventato, Guildenstern e Rosencrantz non vedono nel suo
gesto che una penosa infrazione alle regole dell'etichetta di corte.
Sino a questo punto e non più oltre essi possono giungere «nella
contemplazione dello spettacolo della vita con delle emozioni adeguate».
Essi sono i più vicini al suo segreto e non ne sanno nulla. E non
gioverebbe a niente il rivelarlo loro. Essi sono la piccola coppa che
contiene una determinata misura e basta. Verso la fine, com'è detto,
essi hanno trovato o troveranno una morte improvvisa, caduti in
un'insidia tesa per un altro. Ma una fine tragica di tal fatta, benché
lo spirito d'Amleto la sfiori un poco con la sorpresa e la giusta aria
della commedia, non si conviene realmente a dei personaggi come loro.
Essi non muoiono mai. Horazio, il quale, per «difendere dinnanzi ai
malcontenti Amleto e la sua causa », ( Absents him from felicity a while
And in this harsh world draws his breath in pain) muore, ma
Guildenstern e Rosenerantz sono immortali come Angelo e Tartufo e devono
essere collocati assieme a loro. Essi sono la metamorfosi che la vita
moderna ha fatto dell'antico ideale dell'amicizia. Colui che scriverà un
nuovo trattato "de Amicitia" dovrà serbar loro un cantuccio e tesserne
l'elogio in prosa tuscolana. Sono tipi oramai fissati per tutti i tempi.
Censurarli equivarrebbe a mostrare «una mancanza d'apprezzamento». Si
trovano semplicemente fuori della loro sfera - ecco tutto. Quanto a
sublimità d'anima, non c'è pericolo di contagio. Gli alti pensieri e le
grandi emozioni sono isolati dal fatto stesso della loro esistenza.
Se tutto va bene, io sarò liberato verso la fine di maggio e spero di
partir subito per qualche piccolo villaggio marittimo straniero, con
R... e M...
Il mare, come dice Euripide in Lino de'suoi poemi su Ifigenia, lava le macchie e le ferite del mondo.
Spero di vivere almeno un mese con i miei amici, di ritrovare la calma e
l'equilibrio, un cuore meno torturato e delle aspirazioni più
tranquille. Provo uno strano desiderio per le grandi cose semplici e
primordiali, come il mare che é una madre per me al pari della terra. Mi
sembra che tutti noialtri si contempli troppo la natura, e, viceversa,
si viva troppo poco in comunione con essa vedo una grande ragione
nell'attitudine dei Greci. Essi non ragionavano mai intorno ai tramonti
del sole e nemmeno disputavano per decidere se le ombre sui prati erano
violacee o no. Ma vedevano che il mare é fatto per il nuotatore e la
sabbia per il corridore. Amavano gli alberi per l'ombra che diffondono e
la foresta per il suo raccolto silenzio nell'ora del meriggio. Il
vignaiuolo intrecciava dell'edera ne' suoi capelli per difendersi dai
raggi del sole, quando s'affaticava intorno ai tralci appena nati; e
l'artista e l'atleta, i due tipi che l'Ellade ci ha dato, intrecciavano
in ghirlande le foglie d'alloro amaro e la cicuta che non sarebbero
state altrimenti utili all'uomo.
Siamo soliti denominare la nostra età utilitaria e non c'è una cosa sola
di cui noi sappiamo esattamente gli usi. Abbiamo dimenticato che
l'acqua può forbire, il fuoco purificare e che la terra é la madre di
noi tutti. Per conseguenza - la nostra arte é priva di luce, come la
luna, e si diverte con delle ombre, mentre l'arte dei Greci ha i
lampeggiamenti del sole e interpreta direttamente le cose. Sono convinto
che c'é una purificazione nelle forze elementari e voglio ritornare ad
esse e con esse vivere.
Certo, per uno spirito moderno come me, « figlio del mio tempo »,
contemplare semplicemente il mondo sarà sempre una delizia. Tremo di
piacere, pensando che il giorno in cui sarò libero il citiso ed i lillà
fioriranno nei giardini ed io vedro il vento agitare, con una
rabbrividente bellezza, l'oro dell'uno e la pallida porpora dell'altro,
in modo che la terra avrà per me tutti i profumi d'Arabia. Linneo cadde
in ginocchio e pianse di felicità, quando vide per la prima volta le
estese brughiere d'un altopiano inglese tutte gialle dei fiori agresto e
aromatici dei giunchi, ed io so che per me, posseduto dallo stesso
desiderio dei fiori, ci son delle lacrime che m'aspettano nei petali
d'una rosa.
È sempre stato così, sino dalla mia infanzia. Non c'è una sola sfumatura
nascosta in fondo al calice d'un fiore, non c'è la curva e molle linea
d'una conchiglia cui la mia anima - per una misteriosa e sottile
simpatia con
l'anima delle cose - non faccia eco. Come Teofilo Gauthier io son uno di quelli per i quali il mondo esterno esiste.
Pur tuttavia, ora ho coscienza che sotto tutta questa bellezza, per
quanto soddisfacente essa sia, c'é qualche spirito nascosto le cui forme
e i cui contorni dipinti non sono che pure manifestazioni ed é con
questo spirito ch'io voglio mettermi in armonia.
Sono stanco delle formule fisse degli uomini e delle cose. Il Mistico
nell'Arte, il Mistico nella Vita, il Mistico nella Natura - ecco ciò che
io cerco. Ho assolutamente bisogno di trovarlo in qualche luogo.
Ogni volta che si subisce un giudizio, tutta la vita vien giudicata -
come tutte le sentenze sono delle sentenze di morte; ed io sono stato
ben tre volte in giudizio ! La prima volta, lasciai la sala per essere
arrestato; la seconda, per essere ricondotto al carcere di detenzione;
la terza, per venir cacciato in galera per due anni.
La società, come noi l'abbiamo costituita, non avrà più alcun posto da
offrirmi; ma la Natura le cui sottili piogge cadono dolcemente sui
giusti e sugli ingiusti avrà nelle sue rocce delle fessure dentro cui mi
nasconderò e delle valli inesplorate nel silenzio delle quali potrò
piangere senza essere distratto !
Essa appenderà delle stelle alle pareti della notte, affinché io possa
camminare senza inciampi in mezzo alle tenebre, e manderà il vento a
soffiare sull'orma dei miei passi, in modo che nessuno mi dia una caccia
a morte; la natura mi laverà nelle sue grandi acque e mi risanerà con
le sue erbe amare.
SOTTOLINEO CHE QUESTO TESTO È STATO TRADOTTO DA DOUGLAS STESSO QUINDI NON CONFORME A PARTE DEL LIBRO, INSOMMA SONO DEI TRATTI... GRAZIE
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