venerdì 15 giugno 2012

Sartre e la letteratura- Intervista a Sandra Teroni

di Andrea Porcella

1) Vorrei iniziare con una domanda di carattere generale e introduttivo riguardante il rapporto tra filosofia e letteratura in Sartre. Qual è secondo lei il ruolo che riveste la riflessione filosofica all’interno della produzione letteraria di Sartre? Potrebbe ricostruire, nelle sue linee generali, il travagliato rapporto tra filosofia e letteratura che contraddistingue l’opera di Sartre e che, a dire dello stesso, trova il proprio epilogo nel 1963 con la pubblicazione di Les Mots?
Il rapporto tra filosofia e letteratura non mi sembra particolarmente travagliato, mi sembra invece particolarmente fecondo e riuscito. Non solo perché il sogno giovanile espresso nei termini iperbolici di “essere al tempo stesso Stendhal e Spinoza”, Sartre lo ha in qualche modo realizzato, ma per l’originale ibridazione tra filosofia e letteratura di cui tutta la sua opera testimonia. Il risultato più innovativo, e unanimemente apprezzato, è quello prodotto sulla scrittura filosofica: L’Etre et le Néant si nutre complessivamente di una scrittura letteraria e di un’immaginazione romanzesca che fanno di un “saggio di ontologia fenomenologica” una lettura appassionante, sciogliendo in splendide immagini una concettualizzazione ardua e formule potenzialmente ermetiche. Basti pensare alle pagine che concretizzano l’analisi della malafede in termini di commedia della vita quotidiana, attraverso la gestualità fra il professionale e l’affettato di un “garçon de café”, o quella della relazione con l’Altro mettendo in scena il corpo e la carezza tra amanti…
Sul terreno letterario, forse, le cose sono più complesse e non sono mancate le riserve. E tuttavia non c’è dubbio che con il suo primo romanzo, La Nausée, Sartre vince una duplice sfida: “dar forma letteraria a un’idea filosofica”, costruendo un personaggio e una storia attorno al concetto di “contingenza”; e al tempo stesso piegare la forma letteraria del diario, tradizionalmente utilizzata per l’esplorazione della vita interiore, alla scoperta della mancanza di senso del reale quando la coscienza non lo investa di categorie interpretative, si tratti di oggetti, luoghi, gesto, corpo. E Les Mots, che chiude il cerchio aperto una trentina di anni prima con La Nausée, sancisce questa sintesi di filosofia e letteratura, con un racconto autobiografico permeato di forza interpretativa alla luce delle nozioni elaborate dal filosofo e con una scrittura ad alta densità figurale che esibisce il suo carattere letterario e che rappresenta il massimo impegno sartriano sul piano stilistico. Con un serrato, sapiente, uso di citazioni e allusioni, riprese e rovesciamenti parodici, lo scrittore rivendica la sua identità e il suo irriducibile rifiuto di lasciarsi fissare in immagini codificate, ovvero fa rivivere attraverso l’auto-rappresentazione quelle analisi della coscienza e della funzione dello sguardo dell’altro che erano state al centro della sua prima grande opera filosofica..
Ma il discorso vale anche per il teatro, che non è un’illustrazione della filosofia bensì un’originale drammatizzazione di situazioni esistenziali e di conflitti morali, attraverso la creazione di situazioni-limite, di confronti implacabili, di colpi di scena, di dialoghi scintillanti. E si estende a quelle opere difficilmente classificabili con le quali Sartre ha interrogato e interpretato altri grandi scrittori, da Baudelaire a Mallarmé a Flaubert, passando per Jean Genet. Infine, le pagine pubblicate postume, perché non finite (come La Reine Albemarle ou le dernier touriste) o non destinate alla pubblicazione (come i Carnets de la drôle de guerre), proprio in ragione di questo loro particolare statuto, mostrano in maniera ancora più scoperta il continuo intreccio fra procedimenti letterari e riflessione filosofica.
Il rapporto travagliato è semmai quello fra impegno politico e letteratura. Su questo terreno, anche per Sartre come per altri scrittori moderni, l’equilibrio è precario e i prezzi pagati sono alti. Quando, negli anni trenta, Sartre studia Husserl nella Germania hitleriana (1933-1934) e fin dai primi viaggi si entusiasma per l’Italia e per Tintoretto nonostante il fastidio delle camicie nere, quando scrive il saggio sull’immaginazione, La Nausée e le novelle riunite in Le Mur, tra il 1929 e il 1938, totalmente assorbito dalla sua passione di farsi scrittore e filosofo, lo fa a prezzo di una totale sordità rispetto a ciò che avviene intorno a lui, nel mondo reale e nella coscienza di vasti ambienti artistici e intellettuali che si mobilitano contro i fascismi, le persecuzioni, l’antisemitismo, l’incombente minaccia di guerra. E viceversa. Nel ’52, la decisione di abbandonare il libro sull’Italia a cui sta lavorando e che vuol essere un’altra grande sfida, La Reine Albemarle ou le dernier touriste, per dedicarsi a un testo-manifesto, Les Communistes et la Paix, assume il valore emblematico di una rinuncia più sostanziale che approderà alla decisione, presa durante la guerra di Algeria, di chiudere con gli scritti di finzione e di mettere la propria penna al servizio delle ingiustizie. L’intellettuale impegnato che diventa il portavoce degli oppressi di tutto il mondo e si fa carico di intervenire sulla sclerosi del marxismo dotandolo di un’antropologia lo fa a prezzo di una rinuncia alla scrittura letteraria; salvo recuperarla per sancire e proclamare questa rinuncia nel racconto parodico della propria vocazione di scrittore, appunto con Les Mots, iniziato nel ’53 e portato a termine una decina di anni dopo.

2) Vorrei ora spostare l’accento su quelle che sono le influenze, i debiti che Sartre contrae con il mondo delle lettere. Molti sono a cui la critica fa da anni riferimento per spiegare e rintracciare la genesi del romanzo e del teatro sartriano. Prima di tutto Flaubert, a cui Sartre dedica l’ultima e la più voluminosa delle sue opere, poi Stendhal, Malraux, Gide, Proust e Celine, da cui Sartre riprende, in La Nausée, una delle poche epigrafi presenti nelle sue opere, e infine gli anglofoni Faulkner, Dos Passos e Joyce. Qual è a suo avviso la figura più rilevante rispetto alla quale Sartre, sia per continuità che per contrapposizione, prende maggiormente spunto per formare la propria originalità letteraria?
Sartre è uno scrittore che si definisce “contro”, come lui stesso ha visto lucidamente. Da questo punto di vista, fra i nomi che lei ha citato, si impone quello di Proust, soprattutto negli anni Trenta e per La Nausée, ma ancora negli anni Cinquanta per quello che si può ricavare dalle pagine finora ritrovate della Reine Albemarle. E’ uno scrittore che ha praticato in maniera disinvolta quanto insistita il riuso della scrittura altrui, in un’intertestualità diffusa e puntuale magistralmente realizzata con una giostra di riprese, ammiccamenti, rovesciamenti parodici. Ancora una volta, La Nausée è esemplare da questo punto di vista, polemizzando con Maupassant, ridicolizzando il Malraux umanista della Prefazione a Le Temps du mépris, riformulando dal basso la malinconia cara alla letteratura romantica e post-romantica, e così via. In quanto all’epigrafe di Céline, ha il valore di un omaggio a una scrittura di cui negli anni Trenta Sartre vede tutto il carattere dirompente e alla creazione di un personaggio come Bardamu (L’Eglise, ma anche e soprattutto Voyage au bout de la nuit), un anti-eroe “senza importanza collettiva, appena un individuo”. Ma La Nausée non è un caso isolato: Les Mots riprende e amplifica fino alla vertigine questa scelta stilistica, tanto da far parlare di una scrittura-palinsesto (si veda la raccolta di studi a cura di Michel Contat, Pourquoi et comment Sartre a écrit ‘Les Mots’, PUF 1996). Sartre è anche uno scrittore estremamente attento ai procedimenti narrativi, giustamente convinto che “ogni tecnica narrativa rinvia a una metafisica”, come non manca di esplicitare nella sua virulenta stroncatura di Mauriac (1939). Da qui il suo interesse per gli scrittori americani, della cui lezione si serve per gli Chemins de la liberté.
Lo stesso avviene nella scrittura per il teatro. Pirandello è il drammaturgo che sicuramente sente a lui più congeniale; in Strindberg vede un genio e con Brecht condivide l’estetica dello straniamento anche se con riserve e riformulazioni. In quanto al riuso, basti pensare che su undici pièces, due sono “adattamenti” (Kean e Les Troyennes), due sono riscritture di miti cristiani e classici (Bariona e Les Mouches) e che tutte, o quasi, si fondano su “prestiti” talvolta esibiti e comunque ormai puntualmente reperiti dalla più recente critica (si vedano le “Notices” nell’edizione della Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard 2005). Ma questa pratica dell’innesto su altri testi (anche sui propri) non toglie nulla alla originalità dei testi sartriani, semmai ne evidenzia il carattere intrinsecamente dialogico o, bachtinianamente, pluridiscorsivo.
In quanto a Flaubert, la questione è diversa: si tratta di un confronto con uno scrittore che ha fatto la scelta della letteratura contro la vita, un confronto che assume il carattere di un corpo a corpo perché si tratta anche di fare i conti con un proprio fantasma. Su questo piano, del resto, non meno interessante è il confronto con Mallarmé, da cui Sartre è stato altrettanto affascinato e con cui è stato meno severo. Sarebbe da approfondire, ma penso che l’abbandono dell’ambizioso studio su Mallarmé stia in una qualche relazione con la decisione, posteriore di qualche anno, di realizzare quello su Flaubert.

3) Mi sembra che negli ultimi anni gli studi su Sartre si siano particolarmente concentrati sull’aspetto più fenomenologico della sua produzione. L’interesse si è rivolto principalmente alla prima produzione filosofica, quella che intercorre tra la Trascendence de l’ego e L’Etre et le Néant, nel tentativo di misurare, attraverso la specificità dell’interpretazione sartriana della filosofia di Husserl, l’apporto di Sartre al «movimento» fenomenologico della prima metà del ‘900. Questa prospettiva, che ha l’indubbio merito di rendere meno vago l’esistenzialismo sartriano, e non solo, mi sembra trascurare l’aspetto letterario della sua produzione. É possibile secondo lei rintracciare nei romanzi e nel teatro un approccio, per così dire, fenomenologico alla narrazione?
Penso di sì, e ancora una volta in maniera più vistosa nei testi degli anni Trenta, La Nausée e le novelle, relativamente allo statuto della coscienza, innnanzitutto. Roquentin si vuole privo di vita interiore, rifiuta la psicologia, è pura coscienza del mondo, che è tutto fuori di lui, compresa la Nausea da cui è assalito; al suo diario affida di registrare non un’esplorazione bensì una dissoluzione del soggetto. Ma anche le sue percezioni degli oggetti risentono di questo approccio; basti pensare al boccale di birra, alla nauseante evanescenza dei colori, alle metamorfosi del sedile dell’autobus o della radice del castagno, e così via. In forme diverse e più mediate anche nel teatro gli oggetti hanno questo tipo di presenza: penso al “bronzo di Barbedienne” in Huis clos o alla caffettiera di cui si serve Hoederer e su cui si interroga Hugo nelle Mains sales. Un vero e proprio esercizio di approccio fenomenologico mi sembra perseguito nei diari di guerra (pubblicati postumi col titolo di Carnets de la drôle de guerre), soprattutto quando oggetto dello sguardo sono i commilitoni.
Però non saprei dire di più sulla questione. Che è tuttavia del massimo interesse e che non mi risulta sia stata affrontata sistematicamente rileggendo in questa prospettiva i testi letterari. Varrebbe la pena di farlo, forse intrecciando le competenze filosofiche e letterarie. Non è facile, ma un approccio combinato permetterebbe di approfondire e rinnovare le letture dell’opera sartriana. Personalmente ho fatto un’esperienza in tal senso con Silvano Sportelli, a proposito della nozione di “autenticità” quale emerge nella scrittura diaristica dei Carnets (“Ecriture de soi et quête de l'authenticité », Etudes Sartriennes, IV, 1990) ; ed è stato appassionante.

4) Veniamo ora al suo libro su La Nausée. Potrebbe sinteticamente riassumere la sua tesi sul rovesciamento del cogito cartesiano operato da Sartre nel testo, e quindi tratteggiare la centralità del corpo nel superamento di una posizione egologica di tipo trascendentale?
Ci proverò, anche se si tratta di un lavoro ormai molto lontano nel tempo. Cominciamo col dire quali sono stati i miei punti di partenza: 1) l’osservazione di Georges Poulet, in un bellissimo studio ripreso in Etudes sur le temps humain (Plon, 1964), che La Nausée può essere letta come una parodia del Discours sur la méthode; 2) la lettura del testo originario del monologo di Roquentin, ridotto ed edulcorato da Sartre su richiesta del consulente legale di Gallimard in quanto suscettibile di incorrere nel reato di oscenità (M. Contat e M. Rybalka lo danno nelle varianti in Oeuvres romanesques, Bibliothèque de la Pléiade 1981; personalmente, ne ho curata la pubblicazione a fronte della versione definitiva in “Melancholia” seguito da “Eros e Cogito”, In forma di parole, luglio-settembre 1983). Dagli interventi censori sono uscite modificate non soltanto alcune fra le tante provocazioni alla morale dominante bensì quelle ben più nuove (non fosse che per la forma in cui venivano espresse) a uno dei pensieri fondanti della razionalità occidentale, attraverso la declinazione del cogito cartesiano nell’iterazione e nella ridondanza, l’irrisione del dubbio metodico trasformato in oppressivo, caotico, affastellarsi di pensieri appena abbozzati e giustapposti, l’intrecciarsi della meditazione filosofica con la volgare concretezza di una fantasia sessuale. La ripresa caricaturale, in funzione di un rovesciamento dall’essere all’esistere, è ancorata sul primato del vissuto corporeo, più precisamente dell’immediatezza della pulsione sessuale e del bagaglio di immagini – del vischioso, del fallico, della lacerazione, della ricaduta, della violenza sul corpo altrui e sul proprio - che l’accompagna, in un miscuglio di attrazione, orrore, angoscia. Provocatoriamente sovrapposti e confusi, i due linguaggi – della riflessione astratta e del sessuale – non si ricongiungono a comporre un’unità, a dare spessore a un soggetto, producono al contrario un effetto di vertigine, che l’abolizione della punteggiatura mima al livello dell’enunciazione. Eros e cogito sono investiti da una carica negativa, da uno spirito corrosivo che padroneggia le armi dell’ironia, della parodia e del pastiche per dare forma e “salvarsi” trascendendo la “dolorosa ruminazione” e la fascinazione della materia.

5) Il teatro. Lei ha collaborato insieme a Michel Contat alla recente pubblicazione dell’edizione critica di tutto il teatro di Sartre. Come per i romanzi, gli avversari politici e culturali di Sartre hanno spesso sostenuto che il teatro sartriano manca di originalità e di «purezza», essendo una macchina, un “test” vivente dell’apparato concettuale della sua filosofia. Ora, come spesso accade, le critiche si basano su una parte di verità. Lo stesso Sartre considerava infatti il teatro come un’arte impura, un ibrido con fini pedagogici, nei confronti del quale il romanzo costituiva la forma letteraria per eccellenza, la rappresentazione totale. Ma poi, con la solita incoerenza che contraddistingue la produzione sartriana, è proprio al teatro che Sartre affida il compito di rappresentare e sciogliere alcune delle problematiche più spinose e aporetiche della sua produzione teorica. Penso a Les Mouches in cui Sartre di fatto mette in chiaro il senso del suo umanesimo o al Diable e le bon Dieu a cui affida l’annosa questione della morale, o opere come Porte Chiuse e la Puttana rispettosa, in cui Sartre sviluppa e definisce la sua posizione politica. Qual é dunque la valenza e l’originalità del teatro sartriano? É possibile una collocazione e una valutazione storico-letteraria della produzione teatrale di Sartre al di là della semplice valenza pedagogica, morale e politica?
Sul teatro di Sartre ha pesato troppo a lungo, come un’ipoteca, l’idea di una subalternità nei confronti della riflessione filosofica, di cui i drammi non sarebbero che “illustrazioni” o addirittura ”applicazioni”. Ma è evidente che esso ha una sua autonomia di statuto ed è comprensibile e godibile a prescindere dall’opera filosofica; se così non fosse, fra l’altro, non si spiegherebbe il grande successo decretato da un vasto pubblico, ovviamente non sempre familiarizzato con la filosofia sartriana. Questo non significa che non esista un nesso con la ricerca filosofica, come del resto con l’opera romanzesca, e anche con le problematiche politiche. I drammi si configurano come esplorazioni teatralizzate delle teorie filosofiche, che sviluppano con diverso linguaggio e che talvolta anticipano, permettono di sciogliere certe aporie della riflessione teorica, di uscire da certe impasses dell’opera narrativa, di dialettizzare le posizioni rispetto alle aspre polemiche politiche, aprendo un’altra scena, che ha un suo linguaggio e offre altri dispositivi, una scena in cui le tematiche prendono corpo, sono rappresentate dal vivo e nello scambio di battute fra personaggi presenti in carne ed ossa.
Inoltre il ricorso alla forma drammatica è per Sartre contestuale a quella “svolta” di cui avrebbe detto e ripetuto che aveva diviso la sua vita in due: la svolta prodotta dall’irruzione della storia e dallo sgretolarsi di una facile buona coscienza. La crisi da cui nasce l’intellettuale militante del dopoguerra sollecita anche la ricerca di nuove modalità espressive, di cui quella dialogica si rivelerà la più feconda. E non solo perché il teatro, oltre che alla lettura è destinato alla rappresentazione e si configura dunque come strumento più diretto ed efficace rispetto all’intento politico di “unificare il pubblico”. Le ragioni sono più intrinseche: la forma drammatica gli si presenta come la più idonea a esprimere la perdita di una coscienza felice, il disgregarsi di una prospettiva egocentrica, il carattere problematico e contraddittorio delle relazioni tra gli uomini, la teatralità dell’esistenza. Nell’arco di tempo che va dalla guerra alla metà degli anni sessanta il teatro è la forma letteraria privilegiata per l’espressione di questo nuovo spessore del reale, di questo dibattito storico e interno; il terreno privilegiato, anche, per l’espressione della dialettica tra il filosofo, lo scrittore e il militante
E’ quanto evidenzia già il primo testo teatrale destinato alla rappresentazione pubblica e alla stampa, Les Mouches. La scoperta della libertà e dell’azione nell’impatto con un cataclisma storico - ovvero il passaggio da una libertà al grado zero come quella di Roquentin a una libertà della scelta nell’azione e nella situazione - annunciata come tema del ciclo romanzesco iniziato prima della partenza per la guerra, “Les Chemins de la liberté”, questa scoperta a cui Sartre non riesce a portare il suo personaggio, Mathieu, trova espressione sulla scena teatrale. Il dramma gli permette di isolare questa problematica e di metterla al centro dell’azione, secondo uno schema già collaudato con il testo di circostanza scritto per e con i prigionieri del campo (Bariona). Scritto tra l’estate del’41 e la primavera del ‘42 Les Mouches, attraverso la riscrittura di un mito classico, fa assistere alla “conversione” di Oreste nell’impatto con una situazione che rappresenta allegoricamente l’attualità storica – quella della Francia occupata dalle truppe naziste e doppiamente sconfitta perché accetta la collaborazione, avvelenata da un’ideologia della colpa e del rimorso. Nel contempo, le tematiche della libertà e dell’échec, dell’essere e del progetto, dell’inerzia e della tensione, escono dalla dimensione teorica (durante e non dopo la redazione dell’Etre et le Néant) per essere rapportate a precise situazioni e confrontate con le problematiche dell’azione; senza subire alcuna riduzione, accedendo al contrario a una dimensione mitica.
Questo spiega come i primi, notevolissimi, studi sulla produzione teatrale di Sartre (Francis Jeanson, Pierre Verstraeten) ne abbiamo valorizzato i contenuti e gli apporti originali sul terreno di quella Morale programmata fin dal ’43 e mai compiutamente realizzata. Più recentemente, con l’importante contributo di John Ireland (Sartre un art déloyal. Théâtralité et engagement, Jean Michel Place 1994) e con studi puntuali su singoli drammi, l’attenzione si è spostata sulla drammaturgia, la teatralità, la natura e le funzioni del dialogo, la pratica dell’intertestualità, delle riscritture e delle riprese parodiche. La recentissima pubblicazione del Théâtre complet nella Bibliothèque de la Pléiade, col suo ricco apparato critico, contribuisce notevolmente a una più articolata lettura del teatro sartriano, ne evidenzia l’originalità e lo ricolloca nel contesto (non solo francese) della drammaturgia novecentesca.

6) Infine una domanda di carattere più personale. In questi anni che ha dedicato allo studio del pensiero sartriano, qual è il lascito, il suo debito personale nei confronti del pensiero di Sartre?
Ho cominciato a leggere Sartre da adoloscente, La Nausée e L’Age de raison, come quasi tutti i miei amici, uniti dalle stesse inquietudini e dalla stessa ricerca di linguaggi diversi da quelli dell’ambiente scolastico e familiare. Mi sono immediatamente riconosciuta nelle problematiche e nell’universo sartriano. Da allora, non ho mai smesso di riconoscermi; nel bene e nel male: i suoi entusiasmi per le prospettive rivoluzionarie, le sue repulsioni per i potenti e i “salauds”, i suoi errori di valutazione, la sua scarsa fiducia nella democrazia rappresentativa, la sua diffidenza per la rigidità delle forme istituzionali, sono stati anche i nostri. Solo attraverso penose esperienze personali e storiche sono arrivata a prendere le distanze da alcuni aspetti ideologici, volontaristici e predicatori delle sue manifestazioni di pensiero e di vita: il modello di coppia aperta, un certo messianesimo, il presenzialismo, il settarismo di certi giudizi categorici su altri scrittori, le pretese normative nei confronti della letteratura…Ma in questa messa a distanza ha svolto un ruolo fondamentale la lettura approfondita e ripetuta delle sue stesse opere, soprattutto letterarie, che mi ha permesso da una parte di sviluppare un atteggiamento critico, dall’altra di scoprire quanto i testi sartriani dicano di più e di diverso rispetto all’immagine che si è creata del personaggio. Così Sartre, che pure sa essere talvolta tanto perentorio e incisivo, ha anche sollecitato la riflessione, a partire proprio dal suo caso, sugli effetti riduttivi e perversi della comunicazione secondo le leggi del mercato e dell’ideologia.
Gli studi su Sartre non sono stati i primi a cui mi sono dedicata, proprio perché lo sentivo troppo interno alla mia vita e alla mia formazione per farne oggetto di ricerca accademica. Ma da quando li ho iniziati, nei primi anni 80, mi hanno sempre arricchita, permettendomi di approfondire problematiche esistenziali, etiche e politiche che per il respiro con cui sono trattate, soprattutto nella forma complessa del linguaggio letterario, non solo portano a un maggiore livello di coscienza ma producono effetti liberatori. La ricchezza di riferimenti, oltre che di problematiche, dei testi sartriani mi ha indotto anche a rileggere e studiare altri scrittori francesi del Novecento e dell’Ottocento, risalendo fino a Stendhal, e mi ha stimolato una riflessione su persistenze e trasformazioni sia delle problematiche che dei procedimenti letterari nel lungo arco di tempo che va dalla Rivoluzione del 1830 agli anni Sessanta, quello di una modernità segnata dalla conquista della democrazia ma anche da esplosioni di barbarie, dalla scoperta e dall’angoscia della libertà all’inquietudine sul senso, dal sospetto verso il linguaggio e dalla fascinazione della parola.

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