martedì 19 giugno 2012
l corpo nudo dell’eroina Jasad, n° 3, giugno 2009 / Il reportage, n° 1
Esce a stampa anche in Italia, sul primo numero de Il Reportage il saggio già pubblicato da Jasad nel 2009. In Italia è accompagnato dalle splendide foto di Jessica Dimmock tratte dal suo video The Ninth Floor, che potete vedere cliccando qui.
Il corpo nudo dell’eroina
Life is a killer
(John Giorno)
Se si chiede a un tossicodipendente da eroina cosa fa nella vita, ci sono buone probabilità che risponda: mi buco. Non: mi faccio d’eroina, o sono un junkie, oppure sono un drogato. No. Spesso vi sentirete rispondere: mi buco.
Bucarsi il corpo, introdurvi, attraverso un’azione violenta di self-harm, delle sostanze velenose è parte fondamentale dell’addiction, indipendentemente dalla sostanza. Del tutto indipendentemente. In quei ristretti club junkie, in cui sono ammessi solo veri junkie, chi ‘sniffa’ eroina è percepito come diverso, non appartenente al branco, straniero, ‘barbaro’.
Anche se la sostanza inalata è la stessa, e dunque più o meno simili sono gli effetti che provoca, sia pure con intensità e tempi diversi, ciò che è decisivo è il fatto che non si condivida il rito di questa puntuta autoflagellazione, il dolore e la miseria, ma anche la fierezza e il raffinato piacere delle vene sbrindellate, forate, ferite, torturate.
Se non c’è il ‘buco’ e tutto il rito accuratissimo che lo precede, non è affatto la stessa cosa. Da questo punto di vista, iniettarsi eroina è, sostanzialmente, una pratica solipsisticamente mistica. E assolutamente corporea. E’ il raggiungimento del distacco dal corpo attraverso una prassi integralmente fisica, come il cilicio degli asceti medievali. E’ il superamento del dolore dell’anima anche attraverso il dolore del corpo. Riguarda Sade, Jacopone da Todi, certi quadri di Frida Khalo, la Deposizione di Rosso Fiorentino e il San Sebastiano di Antonello da Messina, un quadro conservato a Dresda, che a me è sempre sembrato la rappresentazione più azzeccata di ciò che significa, per chi si buca, bucarsi.
Hai tutto? Cucchiaino, siringa da insulina, acqua? Hai una sigaretta? Serve per il filtro. Ok. Vieni qui che ti spiego: intanto bisogna diluire la roba.
Fammi vedere... Ma è brown, non è bianca... Allora vai in cucina a prendere un limone... Ecco: intanto mettiamo la roba nel cucchiaino.
Stai attento a non esagerare, o avrai la migliore delle buone morti. Per adesso, se è un buon ‘cavallo’, ti bastano 50, 60 milligrammi per avere un ‘flash’ memorabile. Non serve il bilancino. Col tempo imparerai a calcolarlo a occhio, come me...
Il quadro di Dresda raffigura un efebico San Sebastiano, teneramente bello, legato a un tronco d’albero.
Il suo corpo è trapassato da frecce, ma il suo sguardo è sereno, sembra quasi che mostri le sue piaghe con orgoglio. Di più: sembra quasi che ne tragga uno strano, perplesso piacere, misto a malinconia.
Non c’è nulla che esplicitamente alluda al dolore, come se il giovinetto raffigurato traesse una singolare, pacata forza da qualcosa che vede, che sente e che sta fuori dal quadro, dalla parte di noi che guardiamo. Il dolore, l’orrore, se ci sono, sono tutti concentrati nei punti in cui le frecce, sorta di enormi aghi, trapassano il suo corpo, come se le ferite attraessero su di loro, quasi fossero dei magneti, tutto il dolore e la pena, liberandone il resto del corpo e la mente del Sebastiano.
La scena è immersa in una calma surreale. Il San Sebastiano è solo: manca un elemento fondamentale per ogni martirio, per ogni pubblica esecuzione: il pubblico, per l’appunto.
Le poche figure presenti, in secondo e terzo piano, sono distratte, un soldato (forse uno di quelli che hanno scagliato le frecce) giace addirittura addormentato alla sinistra. Tutto accade in un’assoluta intimità. In silenzio.
Tutto avviene su e attraverso il corpo del San Sebastiano. Come in una sorta di orgasmo immobile, bloccato, siderato.
E’ precisamente questo che intendo quando parlo del misticismo solipsista a cui sembra alludere la pratica auto-flaggellante dell’iniezione di eroina. E’ precisamente questo che un junkie intende quando parla del flash, dell’onda calda che gli invade il corpo nel momento in cui la sostanza si diffonde nelle vene.
Ed anche se al profano, pensando al flash, viene in mente un corpo che magari si contrae, una mente che delira, nella realtà il flash immobilizza, e insieme decontrae, rilassa e abbandona, come un’onda che riempie e porta altrove, non la mente, che viene piuttosto annullata, ma precisamente il corpo di chi si inietta eroina.
E in questo meccanismo è il dolore del buco (della freccia e della siringa) che è il primo, discriminante, caratterizzante gradino per ciò che poi diviene, per San Sebastiano e per qualsiasi tossicodipendente, il veicolo per una pace che altrimenti sarebbe impossibile. Una pace dove la vita finalmente sparisce, senza diventare morte, lasciando solo il corpo abbandonato, in bilico, a un passo dal baratro della fine, travolto da un piacere che è, prima di tutto, desiderio soddisfatto.
Ma comunque sta attento, se non conosci la roba che ti danno. Potrebbe essere troppo buona e dunque la prima’pera’ con roba nuova falla sempre più blanda, capito?
Ogni tossico ha un bilancino di precisione nelle pupille. Ma non ‘Il piccolo chimico’.
Dunque sta attento: se sbagli, non ci sarà la possibilità di ritentare. Sarà una buona morte, e basta. E l’eroina non serve a questo, a morire, a morire davvero, intendo, una volta per tutte, ma piuttosto a ripetere la tua morte, a ripeterla, senza saziartene mai, come fosse un orgasmo.
A ripeterla per allontanarla, o, per lo meno, per illuderti che sarai tu a fissare il momento di quell’appuntamento.
Non crederci quando dicono che qualcuno è morto per overdose, l’overdose non esiste, esiste il suicidio, o la roba troppo buona, chiaro?
Siamo tossici, non deficienti, lo sappiamo bene quanta roba mettiamo nel cucchiaino, lo sappiamo al milligrammo, ma se la roba è troppo buona (o la vita è troppo una merda), allora... La roba cattiva, generalmente, al massimo ti fa cagare per qualche giorno, o ti fa gonfiare il braccio come un pallone e ti avvelena il fegato...
La roba troppo buona ti ammazza.
Lascia perdere quello che dicono in TV, l’eroina è una cosa seria, come la vita, la morte, il sesso,il desiderio, la fame, o la sete...
Se è alla pittura che mi rivolgo in cerca di paragoni, piuttosto che a tanta letteratura sull’argomento, è perché sono rimasto spesso piuttosto deluso dalla lettura delle centinaia, delle migliaia di pagine che gli scrittori e i poeti della modernità hanno dedicato alle droghe in generale e, segnatamente, all’eroina.
Il fatto di aver personalmente utilizzato questa sostanza per un periodo così lungo nella mia vita (circa nove anni) e in modo intenso e continuativo, il fatto insomma di essere stato un junkie professionale, e di essere poi diventato, in un momento successivo, uno scrittore, mi pone in una situazione piuttosto singolare.
Conosco bene ciò di cui si parla, ma so altrettanto bene che occorre diffidare delle cronache ‘in diretta’ e la letteratura sulle droghe è piena di instant books, di diari spesso fin troppo abbelliti da retoriche para-surrealiste, o da orpelli romantici e decadenti.
Chiunque abbia esperienza di hashish, ad esempio, rimarrà piuttosto stupefatto a leggere certe cronache di fine Ottocento, che trasformano la canapa in un allucinogeno e chiunque non ne abbia fatto mai uso e la provi dopo certe letture è destinato a cocenti delusioni.
Il problema è, ovviamente, che si tratta di letteratura, ma fatto sta che il coté ‘ottico’ è assolutamente predominante nei referti di poeti e romanzieri e, alla fine, ogni droga si riduce ad essere una specie particolare di allucinogeno, se non altro per legittimare la catena di luoghi comuni che collega le droghe, tutte le droghe, con le cosiddette ‘allucinazioni’.
L’attenzione verte, comunque, quasi sempre sugli effetti mentali delle droghe. Il loro aspetto materialmente, direi carnalmente, corporeo è spesso totalmente ignorato, persino, da un certo punto di vista, da Burroughs e dal suo Naked Lunch, che pure è tra quanto di meglio si sia scritto al riguardo.
E questa è peraltro una delle ragioni per le quali la ‘letteratura’ sull’eroina è, tutto sommato, scarsa, se confrontata alle centinaia, migliaia di pagine dedicate a droghe come l’oppio, il laudano, gli allucinogeni, il vino, o l’hashish.
Apri la fialetta dell’acqua distillata ora, aspirala nella siringa...
Ma qualsiasi acqua va bene, quella del rubinetto, o di una fontana, io conosco gente che si è fatta usando la pioggia accumulata sui tergicristalli delle auto, quella delle pozzanghere, o l’acqua di mare e poi è stata male, ma proprio male... Tu non farlo mai...
Ma tieni presente, amico mio, che quando la roba ti avrà catturato, quando il suo cappio sarà ben stretto al tuo collo, allora, se sarai ‘a rota’, anche l’acqua, solo l’acqua, sarà un sollievo per te. Ciò che conterà sarà bucarsi comunque, per iniettarsi qualcosa, qualsiasi cosa... E quel buco d’acqua ti farà passare la smania. Solo per poco certo, ma, mentre inietterai, la ‘rota’ sembrerà passare e, attraverso quel piccolo dolore che ti infliggerai, troverai una briciola del piacere che ti manca.
E’ il buco, amico mio, la vera droga, in un certo senso, ma questo è ancora troppo presto perché tu possa capirlo, questa è una parte del gioco che si scopre solo quando il gioco ormai è finito e la partita è chiusa...
Molto più efficace di tante pagine fin troppo note è, piuttosto, un film di molti anni fa, Trash (1970), una pellicola diretta da Paul Morissey ed uscita direttamente dalla Factory di Andy Wharol. Nelle scene cupe, asfittiche, disperate del film, la dimensione corporea dell’esperienza di assumere eroina è evidente: la telecamera non ci risparmia niente, in un vortice in cui piacere ed infezione, self-harm e sessualità si mescolano senza posa.
D’altra parte, l’eroina, con la morfina, è praticamente l’unica droga che per essere assunta preveda una violazione corporea così estrema, come l’iniezione attraverso ago. L’unica che costringa la mente del drogato a un commercio così intimo con il suo corpo, con la sua carne, con la sua pelle. Questo, oltre ad essere un simbolo del club esclusivo dei junkies, è anche la ragione della loro ghettizzazione sociale, del rifiuto violento della società nei confronti dell’eroina, associata molto più facilmente di altre sostanze a pratiche ritenute ‘mostruose’, come l’automutilazione (si pensi alla pazzia tutta corporea del Van Gogh che si taglia l’orecchio, nella celeberrima lettura che dell’episodio da Antonin Artaud). Ed è questa la ragione della pratica, assolutamente incomprensibile per un ‘profano’, per la quale un junkie ‘a rota’ se non ha eroina, proverà comunque un certo sollievo, per quanto momentaneo, nell’iniettarsi in vena della semplice acqua. Ma l’utilizzo di queste pratiche come succedaneo delle droghe (e dunque la parentela stretta tra le due cose) è in realtà molto più diffusa di quanto non si creda.
Io stesso ho raccolto, tempo fa, per il quotidiano italiano L’Unità, le dichiarazioni di una giovane studentessa che per anni aveva placato le sue ansie e i suoi disagi esistenziali tagliuzzandosi minuziosamente il corpo con un lametta. Ed è di pochi mesi fa l’articolo dedicato da Alice Fordham, su Now Lebanon, al self-harm, diffusissimo nelle periferie del Libano del Nord, in cui si dà notizia addirittura di pratiche di auto ferimento collettive, quasi fossero una sorta di rito socializzante, capace di rinsaldare il gruppo, come l’assunzione comune di droghe. «“I used to cut myself, and I know what the guys are going through. It is not easy.” The cuts on his body, he says, he inflicts alone, but, "I have friends that do it together."»
È precisamente a questo che si riferisce il protagonista di un romanzo di Léon Daudet Le lutte (1907), uno degli scritti più veritieri sugli effetti della morfina, che, descrivendo i suoi dolori da astinenza, dichiara: «Imploravo una sofferenza positiva e che s’installasse in un punto preciso del mio corpo».
Ecco, ora che hai messo l’acqua, aggiungi due gocce di limone. Vedi come si scioglie adesso? Ora il filtro, metti nel cucchiaino un pezzetto del filtro della sigaretta. Bravo, così. Usa l’ago per mescolare, prendi il filtrino con la punta dell’ago e mescola.
Mentre mescoli, io riscaldo con l’accendino. Vieni, metti il cucchiaino sulla fiamma. Così, bravo. Attento a non farla bollire, però, o ti ustionerai le vene. Bene.
Ora tira su nella siringa, poi, con l’ago puntato in alto, battila con la punta delle dita. Esatto, così, in modo che il liquido vada tutto sul fondo.
Poi fai uscire tutta l’aria dalla siringa, spingi lo stantuffo sino a che non esce una piccola goccia dalla punta.
In vena è meglio che non ti entri aria, o ti partirà un embolo. Esatto così.
Leccala. Leccala quella goccia che cola lungo l’ago, cazzo! Impara a sentire con la lingua il sapore della roba che ti spari in vena...
Sentito com’è amara? Questo è il sapore del paradiso, piccolo mio. Non dimenticarlo più. E’ come il sapore che hai sentito la prima volta che hai leccato una fica.
Non dimenticarlo più: è il sapore del desiderio e del piacere...
Insomma, nel commercio che si instaura tra il tossico e la sua tossina la violazione corporea è un aspetto strutturale, una parte fondamentale, al punto che, parafrasando Mc Luhan, si potrebbe sostenere che in questo caso davvero medium is message e questo medium è l’atto di bucare il corpo, punirlo, segnarlo attraverso una siringa.
Del rapporto strettissimo tra l’ago e la sostanza che esso inietta si accorge immediatamente anche la stampa degli anni in cui la morfina va addirittura di moda in Europa, più o meno tra il 1870 e la fine del secolo, quando ormai è stata sostituita dall’eroina, che sarà, invece, immediatamente ghettizzata. Il quotidiano francese Le temps, in una cronaca del 1882, può sottolineare, così, sia come la diffusione sia massiccia, soprattutto tra le donne, sia il valore, in certo modo simbolico, delle siringhe di Pravaz che diventano un cadeau á la vogue: «Si vedono signore della migliore società che si regalano delle piccole siringhe in astucci d’oro o d’argento come dono in occasione delle feste».
Il fatto che la morfina sia considerata una droga da donne, non è, peraltro, senza significato: le donne sono il diavolo e sono il corpo e, d’altra parte, la morfina diventa per loro un modo per sfuggire, in un certo senso, a una condizione di subordinazione ed esclusione sociale.
Lo scrittore e occultista francese Joséphin Péladan, nel suo Le Panthée (1892) non può fare a meno di annotare che: «... la stessa donna che nel secolo scorso si sarebbe presa un amante prende ora una puntura di morfina (...) la graziosa siringa sostituisce per le signore ai giorni nostri sia l’amante che Dio stesso». E chi abbia dubbi sulla credibilità di Péladan, potrebbe rivolgersi alla testimonianza di uno dei fondatori del dadaismo, Hugo Ball, che parla delle riunioni di morfinomani come un luogo in cui gli uomini sono tollerati, ma certo «non sono ricercati».
Proprio ad una morfinomane, una sorta di Erinni, o Baccante, in preda all’ebbrezza è dedicata un’opera di Eugène Grasset, intitolata, per l’appunto, La morphinomane (1897)
Non è informazione troppo diffusa che, in effetti, la siringa ipodermica viene inventata da Wood e Ferguson e migliorata da Pravaz proprio negli anni della prima diffusione della morfina e proprio per iniettare morfina essa viene massicciamente usata e diffusa in Europa, soprattutto da intellettuali donne, artisti, politici, in uno stupefacente elenco che affratella Bismark a Guy De Maupassant, Wagner a Jules Verne; una diffusione e un uso che trasformano ben presto un oggetto nato con scopi medici in un raffinato attrezzo di doloroso desiderio e di ‘devianza’.
Per altro verso, anche in un momento nel quale la sua distribuzione è praticamente libera, anzi la moda impazza, ciò che colpisce i cronisti e i narratori dell’epoca, che non ne siano consumatori essi stessi, è l’aspetto fisico, assolutamente corporeo, dell’atto dell’iniezione, del ‘buco’, degli ematomi sulla pelle, delle croste sulle braccia, basti al proposito citare la protagonista di Noris (1883), di Jules Claretie: «crivellata di punture di morfina», o quella di La Comtesse Morphine (1886), di Marcel Mallat de Bassilan: «marmorizzata dalle placche rosse dell’orticaria, dalle stigmate bianche di ascessi cicatrizzati e dalle infiltrazioni bluastre della pelle che lasciavano colare goccia a goccia un pus oscuro e sanguinolento».
Da questo punto di vista la morfina e l’acetilmorfina destra, cioè l’eroina, così come lo strumento che occorre per la loro assunzione, avrebbero una essenza luciferina, nel senso che, nate con l’angelico compito di curare, d’essere dei medicinali, esse avrebbero ben presto mutato la loro natura, si sarebbero ribellate al loro creatore, trasformandosi in demoni, in droghe, in strumenti di morte.
Infilala piano, se la spingerai dentro di colpo perderai tutto il piacere. Il piacere doloroso che viene prima del piacere, quello di sentire l’ago che ti apre la pelle, che la squarcia con un piccolo taglio netto, che scava nella tua carne alla ricerca della vena.
Imparerai a sentirla la vena, a percepire con chiarezza quando l’ago la raggiunge, come il tuo cazzo ha imparato a infilarsi in tutti gli orifizi di una donna, e allora il piacere si raddoppierà mentre la bucherai e, subito dopo, quando con lo stantuffo aspirerai un po’ di sangue per sincerarti di averla davvero presa, sentirai un dolore fresco che ti invade il braccio, immediatamente prima del calore bollente che te lo invaderà, quando infine la inietterai.
Godilo tutto questo buco, tu che puoi, le mie vene ormai sono ridotte a corde secche, sono collassate; vedi le croste sul mio braccio? Io mi buco qui, sulla crosta. Si chiamano ‘valvole’; infilare l’ago lì, dove l’hai già infilato decine di volte, fino a tumefare il braccio, è l’unico modo per continuare a usare certe vene. Altrimenti, terminate quelle delle braccia, puoi passare a quelle delle gambe e io conosco persone che hanno usato vene dappertutto, sulle mani, sulle tempie, sulla gola, sotto la lingua, sul cazzo.
Ma tu adesso non pensarci, stringi la tua cinta al braccio, usala come laccio emostatico: Scegli la vena adesso, la più grande, quella, sì, quella..
.
Da questo punto di vista l’eroina è nelle nostre società contemporanee, più o meno ad ogni latitudine, la droga per eccellenza. L’immagine del Male. Della Follia. Della Morte. È il centro focale di quella che il grande, coraggioso Thomas Szasz ha chiamato ‘la persecuzione rituale delle droghe’.
D’altra parte, chi abbia dubbi sul valore simbolico, emblematico che l’eroina riveste nelle società contemporanee provi a riflettere sul fatto che, nonostante i morti d’eroina siano davvero poca cosa, se confrontati con quelli dovuti all’alcol o al tabacco, o agli incidenti automobilistici, o all’eccesso di grassi e zuccheri nell’alimentazione, gli sforzi repressivi e la condanna sociale nei suoi confronti sono enormemente superiori.
Ciò dipende sostanzialmente da due fattori, la presunta socialità e/o produttività di molte altre droghe (dall’hashish, alla cocaina, o ai già nominati alcol e tabacco) e il suo aspetto crudamente corporeo, il suo lasciare piaghe, il suo mostrare, attraverso le lesioni inferte a un corpo vivo, la fragilità della vita, la sua materialità, inevitabilmente destinata a decomporsi. Cioè il fatto che l’eroina nomini la morte e il corpo ( e la ‘malattia’ e il desiderio) che sono precisamente ciò che non si può e non si deve nominare nelle società postmoderne, di ogni genere e confessione (Sontag). L’eroina, come il cancro e come l’AIDS, è il rimosso, l’orrore puro, la negazione di tutto ciò che questa società dell’eterna giovinezza e del privato benessere ha posto alle sue basi.
Con il suo creare piaghe, croste, essa simboleggia la fragilità del corpo; con la sua necessità di bucare la carne, allude all’insostenibile orrore che è il corpo ‘sotto’ la pelle, così come la pornografia offende il ‘comune senso del pudore’ per il suo mostrare, senza mediazioni, né altri scopi, il corpo che è sotto i vestiti, il suo agire e congiungersi, nudo di abiti e di ogni altro fine che non sia la sua pura vista, l’abbandonarsi dello sguardo al desiderio che annega nella materia dei corpi.
Prendi la siringa, mettila quasi parallela al braccio, non devi trapassarlo, devi insinuarti, come fa un cazzo in una fica stretta, devi aprire la pelle piano, ma con decisione come faresti con le piccole labbra di quella fica...
Bravo così, spingi, ora, spingi, eccola! L’hai presa... tira su... perfetto... Lo vedi il sangue nella siringa che colora la roba? Vuol dire che sei dentro, che hai bucato la vena. Che il piccolo cazzo duro del tuo ago ha sfondato la grande, materna, accogliente figa della tua vena, dove col sangue scorre la tua vita...
Brucia, vero? Ora inietta, ma pian piano... Impara a sentire che puoi sentire anche con le tue vene, che il tuo corpo sente anche ‘dentro’, non solo fuori, sulla pelle...
Bravo, tutta, iniettala tutta, ma no, no, non togliere subito la siringa dal braccio, aspira di nuovo altro sangue nella siringa, e ora iniettalo ancora: si chiamano risciacqui, più ne farai, più sarai certo che neanche una molecola di roba andrà persa....
Lo senti come al dolore del buco si sostituisce il piacere caldo della roba?
E’ per questo, amico mio, che l’eroina non è semplicemente una droga, è una filosofia... Ma tu non puoi capire, è troppo presto, anche se presto sarà già tardi, per te come per me...
E ora togli la siringa e succhiati via dal braccio la goccia di sangue che ti sta colando verso il gomito. Impara che sapore ha il tuo sangue e goditi la tua piccola morte, che è l’unica cosa per cui vale la pena di vivere questa piccola vita.
Hai voglia di fumare vero? Proprio come dopo una scopata, come dopo un orgasmo, sì... Tieni... Fuma una sigaretta. Ne accendo una anch’io...
Per comprendere meglio ciò che intendo può essere utile, in chiusura, fare riferimento ad un altro dipinto, la già citata Deposizione di Rosso Fiorentino, un capolavoro del Manierismo italiano, un’opera dalle tinte acide, stridenti, dalla funambolesca architettura dei personaggi che lo abitano. Un Cristo morto, dall’espressione dolce, serena, è appena stato staccato dalla croce. Intorno a lui si affollano tanti personaggi, alcuni acrobaticamente protesi a sostenere la spoglia, altri (Maria con Maddalena, ad esempio) sono in gruppo sotto la croce. I loro volti sono tesi, sconvolti dalla fatica e soprattutto dal dolore e dall’indignazione per la morte che sostengono tra le braccia. Le deformazioni dei corpi e dei volti giungono all’estrema esasperazione: il vecchio affacciato dall’alto, sulla croce, ha il viso contratto come una maschera. Ma da Cristo, dal Cristo Crocifisso, sulle cui mani, sui cui piedi, sul cui costato sono evidenti i buchi dei chiodi, le ferite inferte dalla lancia, ci giunge il sorriso distaccato e assolutamente appagato di chi ha cercato quella morte, esattamente quella. Il suo piacere, o, se preferite, la sua serena ‘assenza di vita’ (che nel Cristo rappresenta, evidentemente, il compimento della propria missione in Terra, attraverso il sacrificio del suo corpo) è la medesima cosa che suscita l’orrore sociale, il dolore, lo spavento di chi, intorno a lui, vive la sua morte, una morte, occorre ricordare, assolutamente momentanea. Nello stesso modo, la morte momentanea, la ‘piccola morte’ dell’eroina (e le sue piaghe), che per il tossico è, in fondo, il compiersi di un disegno, il suo disegno, è per la società che lo circonda, anche per chi gli è più vicino, solo dolore, è l’insulto estremo, l’estremo scandalo, come lo erano i corpi flagellati e violati del desiderio sadiano. E la piccola morte dell’eroina, come quella dell’orgasmo, passa attraverso il corpo, la sua violazione, il buco. E, come l’orgasmo, essa deve essere nascosta, negata, ha diritto di cittadinanza solo in un ambito strettamente privato, quando diviene pubblica, trasformandosi in martirio, essa produce scandalo, violenza, repressione, rimozione. E se è ancora tollerabile che, alla luce del sole, avvenga questo, o quello scambio di droga, l’immagine del tossicodipendente che si buca all’aria aperta, davanti a tutti, continua a conservare, per buona parte della società, tutta la sua potenza di insopportabile oscenità. Come un amplesso consumato in piazza, all’ora dell’aperitivo, come un orgasmo esibito su una panchina, tra la gente, facendo del proprio desiderio e del proprio stesso corpo l’unica, invisibile, cortina.
Ora sei vuoto nel vuoto. Nulla nel nulla. Ora non esistono temperature, né odori, né luce, né ombra, né fame, né sete, né fatica, né dolore, né colpa, né pentimento...
Tutto è vuoto. Ora.
Sei una casella vuota. Come un desiderio, un attimo prima di essere desiderato...
NOTA: Questo non è un testo clinico-scientifico, né un’indagine medica, né un’analisi sociologica e neanche uno scritto antropologico sull’uso di eroina e sulle liason che questo ha con il corpo di un tossicodipendente. Non è nemmeno un’analisi storico-filologica sulla letteratura, o l’arte dedicate a questo argomento.
E’ soltanto un piccolo saggio (dunque uno scritto ibrido, fatto di tante facce, di tante anime, di tanti toni, un esperimento, un’acrobazia del pensiero e della parola).Uno scritto, insomma, spiccatamente letterario, di cui io ( e parte della mia vita) sono tanto l’autore, quanto l’argomento. Nulla di più.
Desidero poi sottolineare come per alcuni dei dati filologico-letterari ed artistici che ho utilizzato, io sia debitore alla bella e informata ricerca di Alberto Castoldi, Il testo drogato (Einaudi, 1994).
Il testo è stato appena pubblicato sul terzo numero della rivista in lingua araba JASAD, dedicata alle arti e alle scritture del e sul corpo, diretta dalla poetessa libanese Joumana Haddad.
La traduzione in arabo è di Dima Saad, che ringrazio.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento