Il 5 gennaio 1984 Cosa nostra uccide il direttore de I Siciliani Pippo Fava con cinque colpi di pistola alla nuca. Il ricordo del figlio Claudio, giornalista e parlamentare di Sel.
La testimonianza di Claudio Fava è stata pubblicata su isiciliani.it.
Sono passati 30 anni dall’omicidio di Giuseppe Fava, detto Pippo, voluto dalla mafia siciliana. Il fondatore del giornale antimafia I Siciliani, era appena uscito dalla redazione del settimanale. A bordo della sua Renault 5 raggiunse via dello Stadio a Catania. Davanti al Teatro Verga, dove la nipote recitava in Pensaci Giacomino!, non ebbe il tempo di scendere dall’auto: cinque proiettili di pistola lo raggiunsero alla nuca uccidendolo.
Come era avvenuto per Peppino Impastato, ci fu un tentativo per depistare la verità, etichettando l’omicidio come delitto passionale. Ci sono voluti 14 anni - era il 1998 - perché un tribunale italiano condannasse all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola.
di Claudio Fava
Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come al solito, attorno al tavolo della cucina a casa della signora Roccuzzo. Riccardo scelse i gialli, che non voleva mai nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia sfida di colori dominati che non si risolveva mai. Io mi presi i verdi, colore fesso, tiepido, di quelli che non la¬sciano traccia.
Giocammo con candore e accanimento, come sempre, improvvisando alleanze, atacchi e ripiegamenti, sacrifici, tradimenti: tutto.
Il canovaccio prevedeva ruoli immutabili. Miki con la sua bella faccia da guappo dava la scalata al mondo spostando armate attraverso oceani immaginari. Antonio, prudente come un segretario di sezione, puntava alla Cina, cuore immobile di un’Asia attraversata da straordinarie mito¬logie, la Yacuzia, la Kamchatca, il Siam...
Riccardo intanto s’ammassava da qualche parte e lì aspettava la guerra, saggio immobile, come se quell’unico territorio posseduto fosse l’isola di Stromboli, pro¬tetta dal mare e dagli dei.
Di me non so, non ricordo: applicavo le regole del gioco, attaccavo, arretravo, passavo la mano. Pensavo che le guerre si vincono provando a non perderle, facendo i ragionieri sulle baionette. Avevo ancora un’età onesta, mi era consentito non capi¬re un cazzo.
Insomma la partita fu come altre cento prima di quella sera: lunga, sfacciata, riotosa. Nessuno vinceva, nessuno vinse. Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro cartone del risiko e lo fece saltare in aria mescolando definitivamente carri armati, territori, ambizioni. Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino in fondo: ci mandammo allegramente affanclo e ce ne andammo a dormire strippati di amaro averna, sazi e giusti come chi crede di essere immortale.
Il giorno dopo ammazzarono mio padre.
Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una cartolina di quei giorni e degli anni che vennero dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia ancora immacolata di quattro ragazzi che si stanno giocando l’ultima partita, prima che la vita gli precipiti addosso.
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