giovedì 31 gennaio 2013

Dall’Islanda comincia la riscossa contro la servitù bancaria

«Dobbiamo lasciare che le banche falliscano, non possiamo essere i responsabili delle malversazioni dei privati».Queste le parole del presidente Ragnar Grímsson  al World economic forum  di Davos, dritte nel cuore di una piaga che affligge tutto il mondo e che da noi si è manifesta con la vicenda del Monte Paschi: le demenziali normative che impongono agli stati di intervenire col denaro pubblico per coprire in tutto o in parte le perdite di aziende di credito private, anzi privatissime. L’Islanda è reduce da una vittoria davanti alla corte dell’Efta (European free trade agreement): non dovrà pagare tutto il debito fatto dalle sue banche, ma solo la parte già sborsata che corrisponde alla garanzia in essere al momento del crack di  Landsbanki. Non si tratta dunque di un ripudio del debito come molti scrivono, ma certamente di una resistenza che alla fine ha salvato l’isola dal dover pagare una cifra che l’avrebbe distrutta economicamente.
Dunque le parole di Grimsson hanno un peso tutto speciale dentro la messa di rito finanziario che viene celebrata sulle Alpi svizzere e sembrano annunciare un giro di boa rispetto a meccanismi che si sono creati nel tempo, non solo ingiusti, ma anche perversi perché deresponsabilizzano le banche e le inducono alla speculazione più selvaggia. E deresponsabilizzano anche i correntisti e i clienti che non sono coinvolti nel rischio della scelta di un istituto di credito piuttosto che un altro. Anche questo è un meccanismo della speculazione che si autoalimenta e del potere finanziario che bestemmia il dio mercato quando occorre.
La cosa curiosa è che dopo averci appestato per decenni con l’esaltazione dell’iniziativa privata, dell’impresa, del mercato, del rischio, scopriamo – sulla nostra pelle in modo diretto, ma soprattutto indiretto – che nel cuore della società liberista esiste un porto franco dove tutto questo è valido finché va tutto bene, finché la spremitura riesce a sostenere la speculazione, ma  che viene improvvisamente negato quando i pasticci vengono a galla. A quel punto l’inefficiente Stato sfruttato e deriso, da ridurre in ogni caso ai minimi termini, diventa il garante universale, il salvagente, il soggetto che moralmente e politicamente ha il dovere di salvare dalla rovina tanti cittadini. Dico che è una cosa curiosa perché da una parte si vorrebbe ridurre lo stato in quanto garante della cittadinanza e dell’idea di diritto opposta a quella di mercato, per poi riesumarlo quando il privato fallisce.
E’ del tutto evidente che questa situazione di fatto, questo assetto incoerente con le stesse teorie economiche nelle quali si abbevera, non è che l’effetto di una pressione politica esercitata negli anni dai poteri finanziari e che si è tradotta in leggi corrive, in accordi internazionali, in normative e prassi tutte favorevoli alla speculazione e a quel profitto illimitato che pochissime persone possono ricavare da una simile condizione di privilegio e di irresponsabilità. E’ ora che il pubblico torni ad essere il motore attorno a cui si organizzano anche i rapporti finanziari, cominciando col negare reti di protezione e paracadute che tutti i cittadini devono pagare. E’ davvero assurdo che uno si debba assicurare per avere una pensione o l’assistenza sanitaria, ma non pensi nemmeno di assicurarsi come correntista e cliente di una banca: quasi che il welfare si sia ridotto ad essere di supporto alle attività speculative private.
Tutto questo finora è stato possibile grazie alla progressiva subalternità della politica ai poteri economici grazie alle generose mance distribuite e soprattutto alla perdita di idee e di partecipazione che hanno coinvolto le società del mondo sviluppato, sempre più a responsabilità limitata. Se volessimo guardare bene dentro il pasticcio del Monte dei Paschi di Siena, scopriremmo che non era il Pd a guidare la banca, ma la banca a guidare il Pd e a indurlo a non contestare, cambiare, elaborare evoluzioni di uno status quo enormemente favorevole ai poteri economici e alle loro logiche. Per questo la rivolta dell’Islanda, ancorché non sia stata una rottura radicale con “il sistema” del liberismo reale, è l’inizio di un cambiamento, il segnale che il pendolo sta invertendo la sua direzione. E  non a caso il giro di boa prende le mosse da un piccolo Paese dove fare comunità non è difficile come altrove dove le persone sono state “atomizzate”. Anche questo è qualcosa di cui fare tesoro.  

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