domenica 8 aprile 2018

IL MAGO JOKE di Antonio Recanatini

Da Antonio Recanatini un altro Racconto di strada sul nuovo numero della rivista Lavoro e Salute. ” Sui marciapiede Joke rapiva la scena. I passanti si fermavano ad ammirare il suo spettacolo. Giocava con dieci palline o cento palline, le lanciava verso l’alto e le riprendeva durante il volo, mostrava le carte ai passanti e li invitava a sceglierne una. Le indovinava tutte. “


Il Mago Joke


Quel giorno avevo un appuntamento importante alle nove di mattina. Dovevo raggiungere un paese a pochi chilometri da casa, in un bar di Spoltore (PE). Solitamente trattavo altri casi, molto più complessi, di famiglie rovinate, uomini al limite, donne a un passo dal suicidio.
Quel martedì dovevo incontrare Joke, un artista di strada, anche se a lui non scendeva affatto tale riconoscimento. Egli  si sentiva mago a tutti gli effetti. L’avevo conosciuto una sera d’estate, quando il lungomare è minato di gente e la strada è soffocata dalle auto. Ferme, come in un parco macchine di un grande autosalone, come vetture  in attesa del compratore.
Sui marciapiede Joke rapiva la scena. I passanti si fermavano ad ammirare il suo spettacolo. Giocava con dieci palline o cento palline, le lanciava verso l’alto e le riprendeva durante il volo, mostrava le carte ai passanti e li invitava a sceglierne una. Le indovinava tutte. Si calava in un baule e usciva dalle tendine, lasciando i passanti di stucco;  un mago gioviale, gentile, sempre ben disposto a regalare sorrisi, anche a chi lo evitava come fosse un appestato. Io capitai per caso, insieme al mio amico Piero, compagno di banco di Joke alle elementari. Aspettammo la fine dello spettacolo per poter scambiare due parole veloci con lui, troppo impegnato a raccogliere monete e l’applausi. Da quel giorno non diedi pace a Piero, volevo conoscere Joke. Colpa sua, del resto  se fosse stato compagno di banco di una donna mozzafiato,  sarei stato meno asfissiante
Scesi dall’auto supportato dai miei tormenti, dalla mia curiosità e dalla voglia di conoscere una persona molto  diversa da me. Lui si presentò appena alzai il capo “salve, io sono Joke”. Dall’aspetto sembrava piuttosto provato, gli anni e anni vissuti sui marciapiedi delle grandi città l’avevano segnato e certi segni sono permanenti, come la palpebra troppo corta per coprire l’occhio. L’occhio destro rimaneva aperto.
Gli strinsi la mano e mi presentai –piacere, io sono Antonio! Menomale, pensavo di arrivare tardi, a quest’ora c’è sempre traffico-. Per quel che vale, Joke mi piacque da subito, sin dalle prime battute “non ti preoccupare, sono io che ho bisogno, non tu”.
Sedemmo al bar, io presi un caffè, lui un tè. Joke  aprì la strada del dibattito “toglimi prima tu una curiosità. Tu sei amico di Piero, ne avete viste di tutti i colori e questo lo so per certo. Perché t’incuriosisce un tipo come me?”
Alzai le mani per arrendermi ed elencai i vizi “Non lo so! Forse perché mi è rimasta l’immagine del tuo occhio nella mente. Ad esempio, posso chiederti cosa gli è successo?”
Accompagnò la risposta con una risata fragorosa “allora non è un esame?” Tornò serio in un attimo e tracciò la via dei ricordi “fu molto tempo fa, un fine anno a Milano. Ely ancora “faceva spettacolo” con me. Sparavano ovunque botti e altro. Io lentamente stavo mettendo a posto, mentre lei andò a raccogliere dei fiori in un’aiuola e a mezzanotte mancava un’ora. La sfortuna ha voluto che le schegge di un botto finissero qua, sull’occhio. In ospedale provarono a saldare, ad allungare la pelle, ma l’occhio è rimasto così. Pensa tanti anni a camminare sui vetri, sui chiodi e mai un graffio. Evidentemente  la vita teneva in serbo un altro regalo per me.
Eh già! Quando stai dentro casa, neanche ti rendi conto quanto sia tragica la vita di chi vive fuori, anzi è fuori portata. Quell’anno tornammo presto dalle nostre parti, Ely smise di venirmi dietro, preferì rimanere nella cantina in cui abitiamo ancora oggi, si sentiva in colpa perché non era sul posto. Tu forse non la sai, ma non si diventa ricchi a fare il mago, me lo diceva anche mia madre”.
La sua storia non contraeva lo stomaco come immaginavo, finanche il suo modo di parlare sembrava troppo distante dal personaggio idealizzato, in pratica una delusione. In qualche modo dovevo giustificare a me stesso certe mie uscite, certe mie pretese, l’assurdo implacabile desiderio di conoscere, sapere, vedere, sentire, che aggiungono un po’ di sale al gusto dell’ordinario;  per cui avanzai lealmente e senza pretese “scusa Joke! Volevo conoscerti perché sentire la storia degli altri, confrontarla con la mia è l’unico modo che conosco per sentirmi vivo.  A volte mi spengo in questo vagare  e certe vite riescono ad accendermela. Non sono un pettegolo, non sono un ficcanaso, seppur, da par mio, rasento certi schemi”.
Joke si complimentò per la spigliatezza e per aver chiarito sensibilmente la situazione, poi prese un foglio e scrisse: via Roma. La curiosità m’inghiottì “che significa via Roma?”
“via Roma è in ogni città. Quando scendevo dal treno chiedevo “dov’è via Roma?” Non cercavo le piazze, i luoghi di passaggio, andavo direttamente in quella via. Preparavo lo spettacolo al primo angolo in vista. Solo quando tornavo qua mi esibivo in piazza e sul lungomare. Io sono un mago, la gente mi crede uno sciroccato di cervello, lo scemo del villaggio,  invece, sono ancora un mago. Ho inventato di tutto per sopravvivere in questo schifo.  Ho perso l’occhio, non solo la palpebra, perché quello che vedi è di vetro.  Sono un mago perché mai ho pensato di lasciare Ely, perché sono stato giorni senza mangiare e non mi hanno trovato morto assiderato. Sono un mago perché vivo con il minimo. Preferivo via Roma… La preferivo perché in quel posto ho perso Ely.  Sapevo che l’avrei trovata in ogni via Roma del mondo. Adesso vive con me, nessuno ci crederebbe, tanto meno tu. Lo so, che mi sono reinventato Ely, lo so bene! E’ importante, fondamentale per me tenere dentro questo segreto,  mi fa sentire vivo come a te fa sentire vivo il conoscere, il sapere, cercarti in un altro. Quando perdi l’ultimo motivo per rimanere appiccicato sulla terra, devi inventarti un’altra ragione, che sia simile, che abbia la stessa fattezza. Per questo sono ancora un mago. Adesso mi credi?”
Non risposi a quella domanda.  Gli strinsi la mano e ammisi   “scusami Joke! Vero, è proprio così, tu sei un mago, non un semplice artista”.
Andai via con il segreto e la certezza d’aver afferrato la differenza tra illusionista e mago. Grazie Joke!
Antonio Recanatini
Poeta, scrittore. La sua poesia è atta a risollevare il sentimento della periferia, all’orgoglio di essere proletari e anticonformisti. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
Leggi tutto di Antonio Recanatini su www.lavoroesalute.org

martedì 2 gennaio 2018

MOMENTI DELICATI

Tocca farlo, almeno durante le feste. Arriva la sera in cui vai a trovare quel tuo amico d'infanzia, che ha sposato una maniaca folle, pazza e altro ancora della pulizia.
(Il mio amico trovò di peggio. A suo tempo sposò oltre a una maniaca della pulizia, una che non dorme se non mette in riga tutto, compreso le scarpe e pure i lacci delle scarpe nella scarpiera. Non dorme se l'ultimo bicchiere non lavato, anzi lei dice “sporco”, sul lavandino).
Suoni alla porta e viene proprio il tuo amico ad aprire.
"wee pazzo, come stai?"
Lui che è sempre stato ateo da che ricordi, ti abbraccia e dà un augurio corposo "tanti auguri, buon natale!"
In situazioni simili è meglio tirare dritto e pensare poco, altrimenti tornano alla mente tutte le bestemmie dette ad alta voce, magari mentre parlava con un credente o un prete. I soldi delle offerte rubati, ma questo non si dice.
Provi a metter piede in casa, lui ti ferma deciso  "abbiamo questo pavimento parquet, si riga facilmente. O ti togli le scarpe o devi mettere le pattine!"
Vorresti dir qualcosa, poi ti trattieni, perché tutto sommato pare che il tuo amico stia bene, pare...
Entri, dopo aver messo i piedi dentro le pattine e noti che i suoi piedi, i suoi piedi  sono imprigionati dentro pantofole di peluche color azzurro, quasi fosforescente.
Un tempo avrebbe detto che certe cose le portano gli uomini senza palle... lo ricordi, lo ricordi perfettamente.
Ti porta in salotto dove ha due poltrone giganti. Fai per sederti senza chiedere il permesso, del resto quando veniva a casa tua andava direttamente ad aprire il frigo, per prendersi da bere; perché dovresti chiedere il permesso?.
Non fai a tempo, arriva anche lei, la maniaca demoniaca e un po' si vede pure, con quel trucco da vampira  "auguri, buon natale!"
Ricambi i saluti e mentre ti accingi di nuovo a sederti, lei fa "no, aspetta questo divano è delicatissimo, prendo un lenzuolo". Vorresti andar via, ma vedi il tuo amico felice, quindi aspetti. S'apre la porta e noti il figlio seduto su un’altra poltrona della stanza accanto, completamente immerso, con la testa dentro un cellulare gigante, quasi più grande della sua testa. Non parla, non saluta e non sa che è arrivato un amico del padre.
Non te la prendi, da ragazzo facevate di peggio tu e il tuo amico.
"E' cresciuto, però! Quanti anni ha?"
"ne compie 13 a febbraio"
In quel momento pensi a quando avevate tredici anni, ai giornaletti porno scambiati, alle volte in cui le “tanava”  tuo padre. A quei tempi non c'erano i cellulari e di notte sognavi di fare sesso con una di quelle sempre presenti nei fumetti passati di mano in mano, da mano in mano, fino allo sfinimento.
Finalmente siedi! "ti va un caffè?"
"certo", rispondi... """ti ho portato anche un regalo, almeno un cazzo di caffè fammelo!"""" (In certe situazioni le vocine interne sono bastarde, diciamocelo).
In attesa del caffè, chiedi al tuo amico "senti, ma tuo figlio sta sempre davanti a quel coso? Si stacca ogni tanto o è nato così?"
Lui ride, tanto per farti un favore, poi si confida "è un genio del computer, del telefonino… sa fare tutto”.
Tu lo sai, tu ricordi che in terza media, il tuo amico fu beccato mentre guardava nel buco della serratura nel bagno per solo femmine. Ricordi persino che fu il primo a comprare una rivista porno con le foto vere, ma "vere veramente", diceva lui.
Ma non puoi dirlo. Non puoi dire che noi non avevamo il cellulare e neanche la cellulite, che noi avevamo tre impegni seri: il pallone, cercare di incontrare la ragazzina del palazzo di fronte e l'arte annessa nell'intimo sottobosco, sottopancia.
Arriva il caffè, finalmente!
Lei non mette il vassoio sul tavolo, ti dice "ecco il caffè" e assetta il vassoio quasi sotto il tuo mento.
Vorresti prendere la tazzina e berla, lei ti dice "bevi qua, non vorrei cadesse il caffè a terra sarebbe la fine".
Ti giri verso il tuo amico e lui annuisce. Ancora una volta vai oltre, nel frattempo il figlio è annegato dentro il cellulare.
Ti fai piccolo e provi di nuovo "ma sta sempre davanti al cellulare tuo figlio?"
Risponde lei, la demoniaca manica o viceversa "siamo molto contenti di Davide, a scuola va bene, deve recuperare solo qualche materia, ma ha uno straordinario talento per la tecnologia”.
Solitamente alla parola tecnologia seguono sempre belle stronzate, banalità e tecnologia si stringono la mano sempre più spesso, lo disse anche Einstein.
Lei, la manica demoniaca ripete le parole del marito, nonché mio, ormai ex, amico "diventerà un ingegnere informatico".
Stai quasi per scoppiare, poi vedi il tuo amico felice e ti fermi.
Anzi la prendi in modo tranquillo "non credo, però sia buono che stia sempre davanti al cellulare".
Lui "è un ragazzo sensibile, ama la tecnologia".
Senti per la seconda volta il sostantivo tecnologia, non puoi più esimerti dal dire ciò che pensi e vaff "senti, ma p******, secondo te sono tutti ingegneri sti ragazzi? Sono tutti uguali e pensate siano diversi? Ma non è che sei cambiato tu? Te lo chiedi mai? Pensi che tuo figlio si conosca sessualmente? Si fa le pippe come noi? Gioca a pallone qualche volta? No, perché a me sembra un rincoglionito".
Lei diventa una furia, quasi nitrisce, mentre il mio amico vorrebbe riderci sopra, sorvolare.
L'ultimo dito di caffè ti cade sulla parte di divano, casualmente non coperta dal lenzuolo steso.  Lei urla “no, adesso dobbiamo chiamare il tappezziere, solo lui sa come fare andare via le macchie”.
A quel punto, mandi indietro il nastro, metti le pattine, sorridi al figlio rincoglionito, saluti lei calorosamente anche se sa di surgelato, chiacchieri con il tuo amico e bevi il caffè composto, senza opporre resistenza e tutto fila liscio.

Vedi il tuo amico felice e ti manipoli pur di non essere inopportuno. Il vaff rimane sullo stomaco, non poteva essere altrimenti.

(Antonio Recanatini)

domenica 31 dicembre 2017

Da uomini liberi

Crolleranno d’improvviso
avvertiranno nuove sensazioni
e da uomini liberi occuperemo
un’altra stella, tratteremo con il cielo;
e da uomini liberi pregheremo
su un cuore di ghisa attorniati da fantasmi.

Crolleremo d’improvviso
sentiremo vibrare i sensi,  dei bimbi le urla
e da uomini liberi pretenderemo
la coda  funebre per tutti i delitti;
e da uomini liberi mangeremo
nello stesso piatto gli avanzi rubati.

Crolleranno d’improvviso
mentre tra le braccia terremo la loro testa
e da uomini liberi chiederemo perdono
alla felicità per averla accantonata, sciolta;
e da uomini liberi perseguiremo
i nostri migliori amici, il nostro talento.

Crolleremo d’improvviso
nel sentire il rumore dell’agguato
e da uomini liberi spareremo tre colpi
in aria, due a terra, l’ultimo ad altezza uomo;
e da uomini liberi sceglieremo
la tomba più al sole, meno viva, meno in vista.

Da  uomini liberi non conosceremo i veri nemici
da uomini liberi viaggeremo con lo stesso collare
dentro lo stesso schizzo, dentro gli stessi colori.

( Antonio Recanatini)


venerdì 29 dicembre 2017

Se non ci fossi stata tu

Se non ci fossi stata tu
girerei ancora a vuoto,
ogni carta
giocata sarebbe andata in fumo

ogni paura
gioirebbe nel vedermi sepolto.

Il giorno smonterebbe la scena madre
prima della notte
e lo spirito scivolerebbe
nel baratro accaparrato
per tenermi in vita.

Se non ci fossi stata tu
non conoscerei
la gioia del ritorno
il ronzio della passione
il morbido impatto con le tue guance.

Il tempo con te è stato già scritto e copiato
siamo protagonisti
mentre la storia scorre,
mentre confondi le giornate di sole con
il vento.

Se non ci fossi stata tu
a scalciare le trappole
a ridipingere l’altra faccia rimasta sospesa
forse non pretenderei il disperso
il negato.

Rimarrei a
contare sulla disponibilità dei buoni
le amare consolazioni darebbero spettacolo.
Se non ci fossi stata tu
a contenere le mie pene
a colorare le stanze nude
io  camminerei nel buio
ancora ad occhi chiusi

(Antonio Recanatini)

sabato 2 dicembre 2017

Lenin, Stalin e Bolscevismo sano


Girando  i vari canali e leggendo le varie forzatura, ho intrappolato nella mente la suddetta locuzione "Bolscevismo sano". Mi preme dire a questi signorini che la storia non è una leggenda, non un fumetto e neanche un film cinemascope. Attraversare certi periodi storici senza un antisettico, una propria formazione, si diventa facili prede di ciò che non è mai stato dimostrato, ma ampiamente e smisuratamente accusato, denunciato dalle menti folli del revisionismo.
Dislocare l'opera di Stalin nella tomba degli ideali è stato un lavoro di fino, ma talmente rappezzato e talmente bugiardo, che lo stesso desiderio di parlarne s'annacqua per non ridicolizzare i discepoli di Woodstock e dei film in bianco e nero western.
Oggi c'è l'opportunità di girare sul web, basta essere leggermente attenti, basta collocare l'esigenza di saperne sopra alla convinzione di poter parlare di storia attraverso storici malsani o per sentito dire.
Non sta a me convincere, del resto i fatti di un tempo dovrebbero accendere discorsi culturali e non il proselitismo stantio, ormai fuori tempo.
L'opportunismo ha lasciato un'impronta indelebile in questa nazione, l'opportunismo ha una sua fonte, si chiama: Revisionismo.

(Antonio Recanatini)

la verità indiscutibile

Chi trova un'assoluta contraddizione tra la via di Lenin e la politica di Stalin non coglie l'unità del processo storico, e sostituisce alla frammentazione delle idee, che deriva dall'assolutizzazione di un momento dialettico, la morale astratta come criterio della sintesi, anteponendo alla valutazione storica obiettiva, che coglie l'identità del positivo-astratto con la differenza del momento negativo-dialettico nell'assoluto del processo quale autoprocesso, la riproduzione astratta del paradigma interpretativo dell'ideologia dominante e reazionaria.
In poche parole, chi fa questo di storia e di marxismo non ha capito un cazzo!

(Giacomo De Fanis)

giovedì 30 novembre 2017

Bancarotta fraudolenta di casa nostra

Un signore un po' stonato, gravemente malato di soldi e potere, apre una ditta di abbigliamento. Rimane aperto un anno, prende dai fornitori e non paga gli ultimi corposi arrivi, chiude per fallimento. Dal fallimento il giudice trae la sacrosanta bancarotta fraudolenta. Un anno di detenzione ed esce. Non può intestarsi nulla, non può aprire un conto, non può firmare niente perché la sua firma non vale. Anche la moglie ha chiesto preventivamente il divorzio.
Dopo due mesi, riapre una ditta a nome del figlio, a capo c'è sempre il padre fraudolento e la moglie preventivamente divorziata, con un bel gruzzolo messo via dopo non aver pagato le ultime tasse e i fornitori.
Il conto corrente è intestato alla moglie divorziata, insieme fanno bingo e insieme costruiscono il mondo degli onesti e dei rispettabili.
Passa il tempo e va in malora anche il figlio. Stessa fine, 6 mesi in carcere, 10 mesi agli arresti domiciliari. Anch'egli non potrà intestarsi più uno spillo, forse neanche firmare il certificato di giustificazione del figlio, ma il cugino aprirà un'altra azienda.
I cugini prestanome aiutano spesso le famiglie in difficoltà
Stessa sorte, prestiti, nuovo locale, una montagna di nuovi arrivi: pronti via!
A capo c'è sempre quel padre e come aiuto capo, sempre il figlio, ma non risultano sulla carta, come non risulta illecita la montagna di soldi sul conto della moglie.
Ormai sono ricchi e possono anche permettersi di sbattere il lusso in faccia alla povertà. Per la legge sono soltanto fraudolenti,
A nome del Belpaese di merda in cui viviamo!
Non è finita. Chi difende il buon nome della famiglia? Gente che dipende e, soprattutto, gente che per molto meno è stata condannata ad anni e anni di prigionia.
Sempre a nome del Belpaese di merda in cui viviamo, che difende l'alto reddito e condanna duramente la povertà.
E' tempo di cannoni, disse il gigante senza armi 

Bambole gonfiabili

Daniela Santanché, questa volta scomodo anche le maiuscole per scrivere il suo nome, è stata insultata, l'hanno chiamata puttana. A parte il fatto che potrebbe essere scambiata più per una bambola gonfiabile, se proprio vogliamo trovarle una gemella come aggettivo; ma perché chiamarla Puttana?
Le prostitute hanno attenuato le fobie di milioni di uomini, allietato le serate dei lavoratori, abbassando le tariffe e concedendo sconti.
Perché paragonare costei a una puttana? E soprattutto perché risulta un insulto "Puttana"?
Evidentemente, quando di sera uscite da casa, mettete degli occhiali scuri, ma molto scuri poiché riescono a nascondere i bordi delle strade, i marciapiedi.
Evidentemente sfugge a tutti che la prostituzione svetta tra i lavori femminili, specie tra le straniere e soprattutto le immigrate.
La prostituzione non è solo schiavitù, spesso è un salvataggio in calcio d'angolo, una fonte di reddito che ha permesso a molte persone di crescere.
La professione più antica del mondo, quando s'imborghesisce si chiama: escort, accompagnatrice, dama di compagnia, , a volte massaggiatrici professioniste..
Puttana è un epiteto dequalificante, un dispregiativo da usare con cautela, altrimenti dovremmo parlare di una generazione di puttanieri, di smercio dei corpi, di tratta e di sesso e prestazioni.
Tutto quel che l'italietta finanzia e consuma di nascosto, poi la ritratta, la dimentica nel salvadanaio da riempire, per un nuovo giro di giostra.
Vada per bambola gonfiabile, le puttane hanno un'anima.


domenica 12 febbraio 2017

Festa risorgimentale (1986)

Modelle e modellini sparsi,
vestiti lunghi, stucchevoli, abominevoli.
Rossetti in bella vista e oro di contorno, 
la bella società riesce a far ribrezzo
anche quando tace e si nasconde.
Gira un prete in sala, insieme al suo discepolo.
Il futuro va plasmato, il ricco non può morire.
La Festa risorgimentale porta la corona,
circola nell’avidità, non reprime il vizio,
perché il suo è dedizione, passione.
L’onore accoglie il principino dentro un salone.
Il fetore ha il prezzo di un profumo,
poco rimane di ciò che non ha senso
come qualsiasi discorso inutile,
di uomini inutili, insensati, da odiare.
Roviniamo la festa risorgimentale,
rendiamola schiava della verità.

mercoledì 30 novembre 2016

Il servo del popolo


Dopo la morte di Fidel, sono stato invitato a film, documentari e discussioni sul Comandante Castro. Ho visto e letto di tutto. Ho soprattutto constatato, toccato con mano, la superbia, l'immodestia, la presuntuosità di studiosi (visto che si dice così, lo faccio anch'io), con il passaporto italiano.
Qualcuno di essi, addirittura, voleva spiegare la storia di Cuba a studiosi Cubani, che difendevano la figura di Fidel. Bisogna aggiungere, però, che questi "suddetti" studiosi Italiani, difficilmente permettono che studiosi "stranieri" dibattano sulla nostra ingloriosa storia.
Sono un po' permalosi, ma solo un po'.
Qui, dovrei soffermarmi sul razzismo e inoltrarmi in altri canali e, magari, chiedere "con quale strumento misurate il valore culturale di un popolo?" Ma non voglio sia questo il punto cruciale, semmai solo da evidenziare.
Dal mio personalissimo punto di vista, anzi, amerei dire, da mediocre cultore: Cuba non sarà più la stessa, lo sappiamo tutti. Forse quell'orgoglio ingombrante dei Cubani diventerà flessibile, forse Cuba cambierà talmente tanto, che i loro padri non saranno in grado di raccontare la stupenda favola, il sogno.
Non voglio entrare in merito, l'ho fatto troppe volte in questi giorni, invece avrei dovuto leggere più dichiarazioni, cercare di capire e non continuare a chiedermi "ma questi sanno cosa significa lottare per un ideale? Ma quanti di questi rischierebbero la pelle per un'eventuale rivoluzione?"
E' morto il servo prediletto del suo popolo, non un funzionario delle imposte, un voltafaccia, un cameriere delle banche, quindi Giù le mani da Fidel!
Prima di ambire a una qualsiasi Resistenza, dovremmo interpellare e assoldare la periferia, il proletariato meno sporco di luoghi comuni e ancora macchiato di istinto naturale, perché il resto è il vuoto, il nulla, l'inconsistente.
Tempo fa, un Compagno Italiano, trapiantato in Brasile mi scrisse in una mail "io credo nella voglia di rivalsa dei Sudamericani. Tu dirai che sto facendo una cazzata, già lo so, ma io ci credo e basta".
A dire il vero, nel frattempo si è innamorato; "altrimenti che italiani saremmo?"
Sono stato sempre scettico sul Sud America, ho sempre pensato alle origini, all'occupazione; addirittura, a volte per dileggio, ho accostato la figura di Bolivar a dio.
A me non piace parlare di sinistra, infatti non è la sinistra a doversi porre dei quesiti, ma i comunisti, quelli che ancora sognano.
Fidel ha ripetuto più volte che, per aspirare, bramare, sognare un mondo migliore, non ci si può affidare a una Rivoluzione, ma al cambiamento.
Questo suggerimento dovrebbe coinvolgere tutti, perché quando si parla di Rivoluzione bisogna contestualizzare anche la peluria sotto le ascelle. Oggi, ad esempio, basterebbero poche testate nucleari per smembrare l'Italia. I paesi guerrafondai, i fornitori di armi sarebbero ben disposti a vendere, a smuovere i soldati, a conquistare, a lasciare disordine e morte.
Il fascino della Rivoluzione rimane intatto, sia chiaro, ma prima bisogna uscire di casa, scendere le scale, guardare la gente, parlare, confrontarsi. Cambiare!
Per mangiare bisogna procurarsi il cibo, possibilmente anche apparecchiare la tavola; in fondo siamo riconosciuti come rivoluzionari solo in cucina, forse i migliori in assoluto, sempre in cucina.
Su questo neanche io ho dubbi!
Da qui a diventare un popolo di Marxisti c'è di mezzo una voragine infinita, un vuoto interminabile, composto da desolazione, tristezza, solitudine, competizione. Solo l'unione dal basso porta a elevarsi, a volare nell'azzurro infinito, a porre le basi del socialismo e non all'accettazione di un regime capitalista o, meglio conosciuto, come dittatura mondiale.
A parte certi miei vezzi da "poetucolo", credo che, prima di tutto, bisogna allargar le braccia e "scendere le scale", toccare con mano il dolore altrui, per dirsi d'aver vissuto. Azione è uscire dalla solitudine, forse aveva ragione Luigi Pintor.
Il confronto e la condivisione sono le armi in nostro possesso, non so per quanto tempo ancora. Bisogna parlare di cambiamento, di riassorbimento delle culture dei popoli, di condivisione dei beni. Bisogna parlare di sentimenti, curare l'istinto a creare, trovare punti di contatto e continuare a confrontarsi. Un mondo migliore non è impossibile, bisogna crederci fino in fondo, sentire il bisogno sulla pelle, nelle ossa, nelle "voci di dentro", avrebbe detto Eduardo De Filippo.
Le questioni e le turbe psichiche di chi vuol gettare fango sul glorioso passato di Cuba, scovando tafferugli tra rivoluzionari, per poter puntare il dito su Fidel, fanno leva su una mossa infame, scandalosa, vergognosa, disdicevole.
Nonostante tutto, questi incontri sono stati utili, almeno per imparare a tenere a bada la mia irruenza, poco costruttiva, quasi fuorilegge.
Colgo l'occasione per ringraziare i vari gruppi e associazioni culturali, che mi hanno invitato, come ringrazio Rifondazione Comunista che continua ad invitarmi, inesorabilmente e, forse, contro gli interessi di partito.
Ci aspettano giorni pesanti, missioni impossibili e non siamo pronti. Continuiamo a perderci, anche dopo la morte di un gigante, di un pilastro della nostra storia, forse è davvero l'ultima nota di un brano controverso, chiamato Novecento.
Hasta Siempre, Fidel!





mercoledì 23 novembre 2016

Chiedi di Massimo Troisi

Non è mai fuori tempo parlare di un artista, di un teatrante, di un uomo che seppe congiungere e non mescolare, la poesia alla  comicità, la comicità alla poesia. Se sei giovane, chiedi a tuo padre di Massimo Troisi, sicuramente ti risponderà sorridendo. A quel tempo molti sogni parevano ancora possibili, noi di quella generazione avevamo la fortuna di poter ammirare  un nuovo Pulcinella in prima serata.  Entrava nelle case dalla tv  e il silenzio intorno  sembrava infinito.
Al primo cenno, si sentiva qualcuno ridacchiare, il riso si propagava e accompagnava ogni mossa, ogni parola di Troisi. Il teatro, il cabaret, il cinema, la tv e la poesia, ovunque cospargeva talento, arte e la napoletanità, mai troppo decantata e mai tralasciata.
La vita, i modi, l’eleganza, l’ironia di quel comico nato a San Giorgio a Cremano, le sue prime uscite con La Smorfia, insieme a Lello Arena e Enzo Decaro rimarranno  per sempre impresse a chi, come me, sognava un mondo migliore e, intanto, rideva di cuore,  proprio quel cuore che lo tradì da giovane.
Se sei giovane, chiedi a tuo padre di Massimo Trosi, si fermerà a pensare a quel mondo così diverso, a quella maschera blasfema, ma mai offensiva, a quel disprezzo artistico  verso la borghesia, accompagnato dalla risata collettiva. “Troisi che ne pensi del terremoto in Campania?”
“Picchè tu i visti mai nu terremoto a Montecarle?”
A lui serviva poco, gli bastava aprire l’album dei ricordi per trovare il volo da offrire a quell’Italia, non senza il rispetto dovuto per la rabbia dell’uomo qualunque. Il suo “dialogo con dio”, la scanzonata anima da ribelle, l’innato senso dell’umorismo e la pausa come momento folgorante, dipinsero di bei colori l’entusiasmo e l’ambizione di noi fuori dal coro.
“Gli americani per aiutare il cinema, fanni li guerre e quande ni fanne li invendine, come guerre stellari;  tenne pure o  presidente ch’ere n’attore: Reagan”.
Se sei giovane, chiedi a tua madre di Massimo Troisi, avrà un sussulto, perché ricorderà dei dialoghi tra il postino e  Pablo Neruda, la poesia e la grandezza di un mito, mai troppo fuori dagli schemi perché seguiva la sua direzione e colpiva duramente  l’anima del sistema.
A volte mi sembra di esagerare quando parlo di lui, ma non ricordo persone che l’abbiano denigrato. A quel tempo  dalle mie parti, ogni estate  veniva una famiglia napoletana in vacanza.  Entrarono subito nelle abitudini del posto, subito si conquistarono la simpatia di tutto il quartiere. Un’estate dei miei 13 anni, un giornalino pubblicò parecchi miei lavori, di cui un po’ mi vergogno ancora oggi.  A parte il misero successo tra gli  amici, potevo contare  sul  consenso di questa famiglia napoletana, anzi del  padre di Nicola, Augusto.  Un giorno afoso di tanti anni fa, mi fece un appunto “ma hai scritto mai una poesia per Massimo Troisi?”
Mi  piacque subito l’idea, ma non credevo d’essere all’altezza. Ogni volta che tornavano in vacanza, Augusto mi chiedeva “ma hai scritto la poesia per Troisi?” e  ogni volta inventavo una scusa.
L’anno dopo la sua morte, finalmente la scrissi. Era il 1995, ma quell’estate la  famiglia napoletana non venne, per motivi da tenere in un cassetto, infatti anche la poesia finì in un cassetto.
Ho immaginato Trosi, con quella calzamaglia nera a parlare con gli altri defunti, in un giardino immaginario delle sue parti.




Il battito del tempo malato

Una volta pensavo al tempo,
al tempo che poteva fuggirmi di mano
e avevo paura, ora no, temo l’arresto.
Sapevo  di dover bruciare le tappe e godermi poco.
Non conoscevo le bandiere del mondo e
 non c’erano troppe panchine qui,
sorridevo alla vita ovunque fossi.
 C’era un tempo in cui ero felice,
un tempo non conoscevo la fine,
ovunque fossi.
Guardate che mi sto forzando a parlare italiano,
io non dovrei conoscere sta lingua vostra!
 Pensavo a come è strano,
saper d’esser stati parcheggiati al mondo,
che tutto era  stato deciso, prima che potessi scegliere.
Ho imparato a sorridere,
perché mi gratificava, non il mio,
ma quello che riuscivo a strappare.
La vita mi ha reso strano, volevo fare il poeta e
mi sono ritrovato  comico e Napoletano.
 Sono nato pigro e nel tempo son peggiorato,
non ho mai denunciato chi mi derubava
quel che avevo apparteneva agli altri.
Non sono stato come gli altri giullari
Non sapevo cantare, a memoria ricordavo solo i nomi,
alla fine è stato il tempo a decidere tutto.
Ad un tratto la favola è finita e
 Tutti i napoletani so tornati bastardi,
io non posso difenderli da qui,
“sapreì bene cosà ricere io a chisti”.
No, non tengo più rancore,
si muore per riposare, nun ppe fa’ atre guerrè.
Ma se è risorto Cristo,
pecché nun dovrébbe risorger

Massimo Troisi?

(Antonio Recanatini)