mercoledì 23 novembre 2016

Chiedi di Massimo Troisi

Non è mai fuori tempo parlare di un artista, di un teatrante, di un uomo che seppe congiungere e non mescolare, la poesia alla  comicità, la comicità alla poesia. Se sei giovane, chiedi a tuo padre di Massimo Troisi, sicuramente ti risponderà sorridendo. A quel tempo molti sogni parevano ancora possibili, noi di quella generazione avevamo la fortuna di poter ammirare  un nuovo Pulcinella in prima serata.  Entrava nelle case dalla tv  e il silenzio intorno  sembrava infinito.
Al primo cenno, si sentiva qualcuno ridacchiare, il riso si propagava e accompagnava ogni mossa, ogni parola di Troisi. Il teatro, il cabaret, il cinema, la tv e la poesia, ovunque cospargeva talento, arte e la napoletanità, mai troppo decantata e mai tralasciata.
La vita, i modi, l’eleganza, l’ironia di quel comico nato a San Giorgio a Cremano, le sue prime uscite con La Smorfia, insieme a Lello Arena e Enzo Decaro rimarranno  per sempre impresse a chi, come me, sognava un mondo migliore e, intanto, rideva di cuore,  proprio quel cuore che lo tradì da giovane.
Se sei giovane, chiedi a tuo padre di Massimo Trosi, si fermerà a pensare a quel mondo così diverso, a quella maschera blasfema, ma mai offensiva, a quel disprezzo artistico  verso la borghesia, accompagnato dalla risata collettiva. “Troisi che ne pensi del terremoto in Campania?”
“Picchè tu i visti mai nu terremoto a Montecarle?”
A lui serviva poco, gli bastava aprire l’album dei ricordi per trovare il volo da offrire a quell’Italia, non senza il rispetto dovuto per la rabbia dell’uomo qualunque. Il suo “dialogo con dio”, la scanzonata anima da ribelle, l’innato senso dell’umorismo e la pausa come momento folgorante, dipinsero di bei colori l’entusiasmo e l’ambizione di noi fuori dal coro.
“Gli americani per aiutare il cinema, fanni li guerre e quande ni fanne li invendine, come guerre stellari;  tenne pure o  presidente ch’ere n’attore: Reagan”.
Se sei giovane, chiedi a tua madre di Massimo Troisi, avrà un sussulto, perché ricorderà dei dialoghi tra il postino e  Pablo Neruda, la poesia e la grandezza di un mito, mai troppo fuori dagli schemi perché seguiva la sua direzione e colpiva duramente  l’anima del sistema.
A volte mi sembra di esagerare quando parlo di lui, ma non ricordo persone che l’abbiano denigrato. A quel tempo  dalle mie parti, ogni estate  veniva una famiglia napoletana in vacanza.  Entrarono subito nelle abitudini del posto, subito si conquistarono la simpatia di tutto il quartiere. Un’estate dei miei 13 anni, un giornalino pubblicò parecchi miei lavori, di cui un po’ mi vergogno ancora oggi.  A parte il misero successo tra gli  amici, potevo contare  sul  consenso di questa famiglia napoletana, anzi del  padre di Nicola, Augusto.  Un giorno afoso di tanti anni fa, mi fece un appunto “ma hai scritto mai una poesia per Massimo Troisi?”
Mi  piacque subito l’idea, ma non credevo d’essere all’altezza. Ogni volta che tornavano in vacanza, Augusto mi chiedeva “ma hai scritto la poesia per Troisi?” e  ogni volta inventavo una scusa.
L’anno dopo la sua morte, finalmente la scrissi. Era il 1995, ma quell’estate la  famiglia napoletana non venne, per motivi da tenere in un cassetto, infatti anche la poesia finì in un cassetto.
Ho immaginato Trosi, con quella calzamaglia nera a parlare con gli altri defunti, in un giardino immaginario delle sue parti.




Il battito del tempo malato

Una volta pensavo al tempo,
al tempo che poteva fuggirmi di mano
e avevo paura, ora no, temo l’arresto.
Sapevo  di dover bruciare le tappe e godermi poco.
Non conoscevo le bandiere del mondo e
 non c’erano troppe panchine qui,
sorridevo alla vita ovunque fossi.
 C’era un tempo in cui ero felice,
un tempo non conoscevo la fine,
ovunque fossi.
Guardate che mi sto forzando a parlare italiano,
io non dovrei conoscere sta lingua vostra!
 Pensavo a come è strano,
saper d’esser stati parcheggiati al mondo,
che tutto era  stato deciso, prima che potessi scegliere.
Ho imparato a sorridere,
perché mi gratificava, non il mio,
ma quello che riuscivo a strappare.
La vita mi ha reso strano, volevo fare il poeta e
mi sono ritrovato  comico e Napoletano.
 Sono nato pigro e nel tempo son peggiorato,
non ho mai denunciato chi mi derubava
quel che avevo apparteneva agli altri.
Non sono stato come gli altri giullari
Non sapevo cantare, a memoria ricordavo solo i nomi,
alla fine è stato il tempo a decidere tutto.
Ad un tratto la favola è finita e
 Tutti i napoletani so tornati bastardi,
io non posso difenderli da qui,
“sapreì bene cosà ricere io a chisti”.
No, non tengo più rancore,
si muore per riposare, nun ppe fa’ atre guerrè.
Ma se è risorto Cristo,
pecché nun dovrébbe risorger

Massimo Troisi?

(Antonio Recanatini)






Nessun commento: