mercoledì 30 novembre 2016

Il servo del popolo


Dopo la morte di Fidel, sono stato invitato a film, documentari e discussioni sul Comandante Castro. Ho visto e letto di tutto. Ho soprattutto constatato, toccato con mano, la superbia, l'immodestia, la presuntuosità di studiosi (visto che si dice così, lo faccio anch'io), con il passaporto italiano.
Qualcuno di essi, addirittura, voleva spiegare la storia di Cuba a studiosi Cubani, che difendevano la figura di Fidel. Bisogna aggiungere, però, che questi "suddetti" studiosi Italiani, difficilmente permettono che studiosi "stranieri" dibattano sulla nostra ingloriosa storia.
Sono un po' permalosi, ma solo un po'.
Qui, dovrei soffermarmi sul razzismo e inoltrarmi in altri canali e, magari, chiedere "con quale strumento misurate il valore culturale di un popolo?" Ma non voglio sia questo il punto cruciale, semmai solo da evidenziare.
Dal mio personalissimo punto di vista, anzi, amerei dire, da mediocre cultore: Cuba non sarà più la stessa, lo sappiamo tutti. Forse quell'orgoglio ingombrante dei Cubani diventerà flessibile, forse Cuba cambierà talmente tanto, che i loro padri non saranno in grado di raccontare la stupenda favola, il sogno.
Non voglio entrare in merito, l'ho fatto troppe volte in questi giorni, invece avrei dovuto leggere più dichiarazioni, cercare di capire e non continuare a chiedermi "ma questi sanno cosa significa lottare per un ideale? Ma quanti di questi rischierebbero la pelle per un'eventuale rivoluzione?"
E' morto il servo prediletto del suo popolo, non un funzionario delle imposte, un voltafaccia, un cameriere delle banche, quindi Giù le mani da Fidel!
Prima di ambire a una qualsiasi Resistenza, dovremmo interpellare e assoldare la periferia, il proletariato meno sporco di luoghi comuni e ancora macchiato di istinto naturale, perché il resto è il vuoto, il nulla, l'inconsistente.
Tempo fa, un Compagno Italiano, trapiantato in Brasile mi scrisse in una mail "io credo nella voglia di rivalsa dei Sudamericani. Tu dirai che sto facendo una cazzata, già lo so, ma io ci credo e basta".
A dire il vero, nel frattempo si è innamorato; "altrimenti che italiani saremmo?"
Sono stato sempre scettico sul Sud America, ho sempre pensato alle origini, all'occupazione; addirittura, a volte per dileggio, ho accostato la figura di Bolivar a dio.
A me non piace parlare di sinistra, infatti non è la sinistra a doversi porre dei quesiti, ma i comunisti, quelli che ancora sognano.
Fidel ha ripetuto più volte che, per aspirare, bramare, sognare un mondo migliore, non ci si può affidare a una Rivoluzione, ma al cambiamento.
Questo suggerimento dovrebbe coinvolgere tutti, perché quando si parla di Rivoluzione bisogna contestualizzare anche la peluria sotto le ascelle. Oggi, ad esempio, basterebbero poche testate nucleari per smembrare l'Italia. I paesi guerrafondai, i fornitori di armi sarebbero ben disposti a vendere, a smuovere i soldati, a conquistare, a lasciare disordine e morte.
Il fascino della Rivoluzione rimane intatto, sia chiaro, ma prima bisogna uscire di casa, scendere le scale, guardare la gente, parlare, confrontarsi. Cambiare!
Per mangiare bisogna procurarsi il cibo, possibilmente anche apparecchiare la tavola; in fondo siamo riconosciuti come rivoluzionari solo in cucina, forse i migliori in assoluto, sempre in cucina.
Su questo neanche io ho dubbi!
Da qui a diventare un popolo di Marxisti c'è di mezzo una voragine infinita, un vuoto interminabile, composto da desolazione, tristezza, solitudine, competizione. Solo l'unione dal basso porta a elevarsi, a volare nell'azzurro infinito, a porre le basi del socialismo e non all'accettazione di un regime capitalista o, meglio conosciuto, come dittatura mondiale.
A parte certi miei vezzi da "poetucolo", credo che, prima di tutto, bisogna allargar le braccia e "scendere le scale", toccare con mano il dolore altrui, per dirsi d'aver vissuto. Azione è uscire dalla solitudine, forse aveva ragione Luigi Pintor.
Il confronto e la condivisione sono le armi in nostro possesso, non so per quanto tempo ancora. Bisogna parlare di cambiamento, di riassorbimento delle culture dei popoli, di condivisione dei beni. Bisogna parlare di sentimenti, curare l'istinto a creare, trovare punti di contatto e continuare a confrontarsi. Un mondo migliore non è impossibile, bisogna crederci fino in fondo, sentire il bisogno sulla pelle, nelle ossa, nelle "voci di dentro", avrebbe detto Eduardo De Filippo.
Le questioni e le turbe psichiche di chi vuol gettare fango sul glorioso passato di Cuba, scovando tafferugli tra rivoluzionari, per poter puntare il dito su Fidel, fanno leva su una mossa infame, scandalosa, vergognosa, disdicevole.
Nonostante tutto, questi incontri sono stati utili, almeno per imparare a tenere a bada la mia irruenza, poco costruttiva, quasi fuorilegge.
Colgo l'occasione per ringraziare i vari gruppi e associazioni culturali, che mi hanno invitato, come ringrazio Rifondazione Comunista che continua ad invitarmi, inesorabilmente e, forse, contro gli interessi di partito.
Ci aspettano giorni pesanti, missioni impossibili e non siamo pronti. Continuiamo a perderci, anche dopo la morte di un gigante, di un pilastro della nostra storia, forse è davvero l'ultima nota di un brano controverso, chiamato Novecento.
Hasta Siempre, Fidel!





mercoledì 23 novembre 2016

Chiedi di Massimo Troisi

Non è mai fuori tempo parlare di un artista, di un teatrante, di un uomo che seppe congiungere e non mescolare, la poesia alla  comicità, la comicità alla poesia. Se sei giovane, chiedi a tuo padre di Massimo Troisi, sicuramente ti risponderà sorridendo. A quel tempo molti sogni parevano ancora possibili, noi di quella generazione avevamo la fortuna di poter ammirare  un nuovo Pulcinella in prima serata.  Entrava nelle case dalla tv  e il silenzio intorno  sembrava infinito.
Al primo cenno, si sentiva qualcuno ridacchiare, il riso si propagava e accompagnava ogni mossa, ogni parola di Troisi. Il teatro, il cabaret, il cinema, la tv e la poesia, ovunque cospargeva talento, arte e la napoletanità, mai troppo decantata e mai tralasciata.
La vita, i modi, l’eleganza, l’ironia di quel comico nato a San Giorgio a Cremano, le sue prime uscite con La Smorfia, insieme a Lello Arena e Enzo Decaro rimarranno  per sempre impresse a chi, come me, sognava un mondo migliore e, intanto, rideva di cuore,  proprio quel cuore che lo tradì da giovane.
Se sei giovane, chiedi a tuo padre di Massimo Trosi, si fermerà a pensare a quel mondo così diverso, a quella maschera blasfema, ma mai offensiva, a quel disprezzo artistico  verso la borghesia, accompagnato dalla risata collettiva. “Troisi che ne pensi del terremoto in Campania?”
“Picchè tu i visti mai nu terremoto a Montecarle?”
A lui serviva poco, gli bastava aprire l’album dei ricordi per trovare il volo da offrire a quell’Italia, non senza il rispetto dovuto per la rabbia dell’uomo qualunque. Il suo “dialogo con dio”, la scanzonata anima da ribelle, l’innato senso dell’umorismo e la pausa come momento folgorante, dipinsero di bei colori l’entusiasmo e l’ambizione di noi fuori dal coro.
“Gli americani per aiutare il cinema, fanni li guerre e quande ni fanne li invendine, come guerre stellari;  tenne pure o  presidente ch’ere n’attore: Reagan”.
Se sei giovane, chiedi a tua madre di Massimo Troisi, avrà un sussulto, perché ricorderà dei dialoghi tra il postino e  Pablo Neruda, la poesia e la grandezza di un mito, mai troppo fuori dagli schemi perché seguiva la sua direzione e colpiva duramente  l’anima del sistema.
A volte mi sembra di esagerare quando parlo di lui, ma non ricordo persone che l’abbiano denigrato. A quel tempo  dalle mie parti, ogni estate  veniva una famiglia napoletana in vacanza.  Entrarono subito nelle abitudini del posto, subito si conquistarono la simpatia di tutto il quartiere. Un’estate dei miei 13 anni, un giornalino pubblicò parecchi miei lavori, di cui un po’ mi vergogno ancora oggi.  A parte il misero successo tra gli  amici, potevo contare  sul  consenso di questa famiglia napoletana, anzi del  padre di Nicola, Augusto.  Un giorno afoso di tanti anni fa, mi fece un appunto “ma hai scritto mai una poesia per Massimo Troisi?”
Mi  piacque subito l’idea, ma non credevo d’essere all’altezza. Ogni volta che tornavano in vacanza, Augusto mi chiedeva “ma hai scritto la poesia per Troisi?” e  ogni volta inventavo una scusa.
L’anno dopo la sua morte, finalmente la scrissi. Era il 1995, ma quell’estate la  famiglia napoletana non venne, per motivi da tenere in un cassetto, infatti anche la poesia finì in un cassetto.
Ho immaginato Trosi, con quella calzamaglia nera a parlare con gli altri defunti, in un giardino immaginario delle sue parti.




Il battito del tempo malato

Una volta pensavo al tempo,
al tempo che poteva fuggirmi di mano
e avevo paura, ora no, temo l’arresto.
Sapevo  di dover bruciare le tappe e godermi poco.
Non conoscevo le bandiere del mondo e
 non c’erano troppe panchine qui,
sorridevo alla vita ovunque fossi.
 C’era un tempo in cui ero felice,
un tempo non conoscevo la fine,
ovunque fossi.
Guardate che mi sto forzando a parlare italiano,
io non dovrei conoscere sta lingua vostra!
 Pensavo a come è strano,
saper d’esser stati parcheggiati al mondo,
che tutto era  stato deciso, prima che potessi scegliere.
Ho imparato a sorridere,
perché mi gratificava, non il mio,
ma quello che riuscivo a strappare.
La vita mi ha reso strano, volevo fare il poeta e
mi sono ritrovato  comico e Napoletano.
 Sono nato pigro e nel tempo son peggiorato,
non ho mai denunciato chi mi derubava
quel che avevo apparteneva agli altri.
Non sono stato come gli altri giullari
Non sapevo cantare, a memoria ricordavo solo i nomi,
alla fine è stato il tempo a decidere tutto.
Ad un tratto la favola è finita e
 Tutti i napoletani so tornati bastardi,
io non posso difenderli da qui,
“sapreì bene cosà ricere io a chisti”.
No, non tengo più rancore,
si muore per riposare, nun ppe fa’ atre guerrè.
Ma se è risorto Cristo,
pecché nun dovrébbe risorger

Massimo Troisi?

(Antonio Recanatini)