martedì 25 novembre 2014

La volontà della commedia di Antonio Recanatini

Quando la commedia non tira più, non interessa e non incarna il senso poetico del tempo, si cambiano gli attori. Vengono scelti a caso, i sostituiti conoscono da tempo il copione, hanno imparato a gesticolare quando la parte lo richiede e a sorridere quando è giusto non apparire troppo seri.
Politica e teatro hanno troppi punti in comune, non solo l'arte della recitazione, spesso le maschere collimano con la vigoria o la stupidità del tempo.
Quando la commedia non tira, il teatro rischia il fallimento, i custodi, i costumisti, i truccatori, gli elettrici rischiano il posto di lavoro. 
Tanto tempo fa era diverso, nel teatro classico di Atene, quando la commedia finiva il suo corso, la sostituivano con un nuovo copione, non badavano troppo alle capacità dell'autore, ma al valore della commedia. Il nuovo copione veniva pubblicizzato nelle strade, nelle campagne e nelle vallate, tanto che gli ateniesi riempivano gli anfiteatri, anche solo per conoscere la nuova commedia.
Il copione non conta ormai, la politica cambia volti, non intenti, tanto meno pensa di dover correggere la parte, il tono della voce, forse fanno un pensiero a una colonna sonora, ma solo a chiusura dello spettacolo, quando la poca gente accorsa rimescola i pensieri e condivide le impressioni. 
Il teatro non tira più, nonostante sostituiscano gli attori con più frequenza, da Berlusconi a Prodi, da Prodi a Berlusconi, da Monti al figlioccio nato vecchio e sempre figlio d'arte, Letta.
Oggi la spuntano due semplici attori d'avanspettacolo, uno più vicino al senso estetico della folla, l'altro è figlio della rozzezza razzista, ma con garbo. Renzi contro Salvini, parlano di tutto, tranne di politica, parlano di tutto, tranne delle problematiche sociali.
La televisione pubblicizza lo stesso copione, i duellanti appaiono armati di spade e pugnali, ma sono zerbini degli stessi e identitici poteri, mostriciattoli lustrati come pagliacci.
Stavolta il teatro non tira più, gli elettricisti e i custodi si sono uniti nella lotta, vogliono che i costumisti si facciano da parte, gli attori senza copione abbozzano un piccolo dissenso. Tutto rientra nel giro di poche ore, i protagonisti si stringono la mano dietro la tenda. 
Il più vicino al senso estetico della folla sorride e dice al razzista di turno "non è importante che non venga la gente a guardare lo spettacolo, l'importante è aver recitato bene", l'altro annuisce e risponde in rima -cosa vuoi che se ne freghino di noi, alla mattanza dei poveri ci pensarono le divise-.
Il custode è stato licenziato, si è impiccato perché non aveva più i soldi per pagare l'affitto, un elettricista è finito in carcere per truffa. Domani ci sarà lo stesso spettacolo in tv, non mancate!

domenica 23 novembre 2014

L’OMBRA DEL NO DI TOLSTOJ ALL’OCCIDENTE di Marco Testi




Alla fine del 2010 Roma ha ospitato una serie di iniziative finalizzate alla celebrazione dei cento anni dalla scomparsa di Lev Tolstoj. La mostra sul grande scrittore e il convegno di studi al complesso di Sant’Andrea al Quirinale, il documentario girato in Russia e in Italia, Non posso tacere!, per la regia di Aldo Demartis e la sceneggiatura di Agostino Bagnato hanno riaperto un discorso che da noi non ha avuto il rilievo che meritava. Lungi dall’essere lo scrittore a tutto tondo, pacificato con la storia e gli uomini, come ci è apparso dalla lettura per lo più episodica di Guerra e pace, Tolstoj ha avuto un ruolo di completa rottura non solo verso la tradizione e la politica russe, ma verso la cultura in generale, perché ad un certo momento della sua vita egli ha messo in discussione il modo di concepire il fare cultura in occidente, a prescindere dalla qualità o meno del prodotto culturale “finito”.La sua stessa morte è diventata il simbolo del rifiuto radicale di una vita passata – era lui stesso che lo confessava – nel lusso e nello sfruttamento del lavoro degli altri: come è noto, alle sei del mattino di un rigido sette novembre (secondo il calendario giuliano) di cent’anni fa il conte Lev Nicolaevič Tolstoj moriva nella stazioncina ferroviaria di Astrapovo, fuori dalle grandi rotte di comunicazione della Russia di allora.
Perché era scappato di casa, fino a quella sperduta stazione, alla bella età di ottantadue anni, un famoso scrittore, conosciuto in tutto il mondo, fondatore di una nuova forma di socialismo evangelico e scomunicato dalla Chiesa ortodossa russa?
Perché pensava che la sua vita – e con la sua quella dei borghesi e dei nobili – non avesse senso.

Agiatissimo nobile, nato nella tenuta di Jasnaja Poljana, aveva alle spalle romanzi come Guerra e pace(1869, ma iniziato anni prima), Anna Karenina (1877) e Resurrezione (1899) e una serie di no! gridati contro il lusso, contro lo zarismo, contro la religione ufficiale, contro la cultura, non solo quella aristocratica, ma qualunque pensiero che non tenesse conto dei bisogni, religiosi e reali, del popolo. Poiché quasi tutti gli scrittori potevano permettersi di essere tali grazie ad una buona situazione economica, e poiché essi parlavano in genere di sé, di amori, di sensualità, di feste da ballo, ecco che quasi tutta la cultura veniva trascinata nella condanna, resa ufficiale dal suo scritto Che cos’è l’arte(1897): l’arte è attività parassitaria, inutilità, raffinatezza borghese e decadente, negazione della dignità umana fatta invece di lavoro e solidarietà e di rapporto personale con Dio. La cultura è roba per gente ricca, che non ha nulla da fare, e che per poter avere il lusso di scrivere sfrutta il lavoro dei poveri, costretti a rompersi la schiena nei campi e nelle fabbriche.
Gradualmente Tolstoj aveva reciso i ponti con il suo passato, tentando di assolversi, inutilmente, anche dal fatto di essere uno scrittore, facendo morire suicida (sotto un treno, e non è un particolare da poco: i treni hanno un significato funebre nelle opere e nella vita dello scrittore) la sua eroina Anna Karenina.
Eppure Anna era, o almeno sembrava essere, dalla parte della ragione “moderna”: amava un uomo, sacrificava la famiglia a questo amore, si era messa contro tutta la buona società di San Pietroburgo in nome di questo amore. Ecco la contraddizione di tutta una vita, quella di Anna, quello del suo creatore, quella dei nuovi inquietanti profeti di sventura perché facevano morire i sogni di felicità di un’umanità ridotta al culto delle cose (già allora!) con i loro personaggi, col sangue del loro sangue, come aveva fatto Flaubert con Emma Bovary, come Fogazzaro per liberarsi dall’ossessione della Marina di Malombra.

Non è un caso che le eroine europee siano imbevute di cattivi romanzi, romanzi d’appendice, romanzi d’amore, ma in ogni caso libri, quegli stessi libri di cui Tolstoj coglieva il vizio d’origine di essere stati scritti da parassiti e borghesi che inventavano storie, invece di lavorare e aiutare i poveri e gli sfruttati.
Il destino di Emma, di Marina e di Anna è la morte, non tanto per il tradimento o per una vita dissoluta, ma per l’aver visto e vissuto la vita dalla parte sbagliata, quella dell’amore borghese fatto di sensualità ed egoismo, di frivolezze e di colpevole noia.
Anche qui emerge l’assoluta radicalità del pensiero dell’ultimo Tolstoj, che pochi hanno voluto mettere in rilevo, perché questa radicalità colpisce la natura di classe della letteratura e dei suoi canoni, è, per così dire, troppo totale per essere assimilata.

Meglio parlare allora, in quest’ottica dettata da un processo di rimozione, del tutto tondo dei buoni e dei cattivi in Guerra e pace. Dimenticando che Tolstoj aveva puntato il suo dito accusatore non solo contro la cultura ma anche contro l’amore, come esso era concepito ai suoi tempi e non solo in quelli. Nella Sonata a Kreutzer è la stessa concezione della coppia ad essere messa sotto processo. L’uxoricidio è frutto non solo di una gelosia malata: se la gelosia diventa malattia, e malattia mortale, è perché la coppia è basata sul sesso, che è possesso animale, regressione allo scimmione originario, e non cammino spirituale, accettazione, rinascita a una nuova vita fatta di lavoro e sacrificio.
Ecco perché si è preferito glissare sulle idee dell’ultimo Tolstoj o calcare la mano sulle ubbie di un vecchio preda dei sensi di colpa – anche se abbiamo visto che sensi di colpa erano presenti in lui – o sulle fissazioni religiose e mistiche di un uomo che aveva perso il proprio equilibrio.

Perché Tolstoj non mette sotto accusa uno o due valori della società del suo tempo, ma la sua stessa natura e tutta la sua cultura, spazzata via come un passatempo colpevole di ricchi che non avendo niente da fare possono permettersi il lusso di scrivere. Raramente la critica sociale di uno scrittore ha raggiunto livelli così radicali di estremismo: un altro grande critico come Zola si era fermato molto prima, rimanendo legato a un discorso di classe e di progresso, accettando per il resto la funzione avanzata e sociale della letteratura.
Tolstoj aveva capito nello stesso tempo il fascino meduseo e l’inutilità del modo di vivere dell’intellettuale occidentale, compreso l’intellettuale russo, anzi, soprattutto lui, spesso sbeffeggiato per la sua mania di essere all’avanguardia delle mode trasgressive o esoteriche che venivano da un’Europa che Tolstoj riteneva malata.

Lo stesso scrittore, la sua vita di ricco possidente, erano sotto accusa. Da una parte c’era il suo essere uomo pieno di passione, di autore che narra cose futili, dall’altra c’era il suo sguardo sulla gente cenciosa che con i figli affamati tendeva la mano per strada, la parola del Vangelo che non lasciava dubbi sul campo da scegliere, il rimorso di una vita beata grazie proprio agli stenti del popolo sfruttato. “Io sono complice di queste cose terribili (le condanne a morte dopo i moti contadini del 1905, ndr.), io non posso comunque non sentire come vi sia una indubbia dipendenza tra la mia stanza spaziosa, il mio pranzo, i miei abiti, il mio tempo libero e quei terribili delitti che vengono commessi per eliminare coloro che mi toglierebbero di certo ciò di cui godo, se non ci fossero le minacce del governo a trattenerli: io non posso comunque non sentire che ora la mia tranquillità è effettivamente garantita da tutti quegli orrori che vengono commessi dal governo. (…) Non si può vivere così, non posso e non lo farò”: così scrive Tolstoj in Non posso tacere!, roso dai sensi di colpa. Ma non lascerà mai completamente quella vita, fino al giorno in cui decise di scappare, di lasciare la fonte di ogni nausea.
Non gli bastava più dare soldi ai contadini, aiutarli ad espatriare. Testimoniare significava cambiare vita, non solo comandarlo agli altri. La sua idea di Dio era davvero personale, perché in realtà Dio per lui era l’insieme degli uomini di buona volontà, e Cristo era il liberatore da se stessi, dai propri peccati, non l’uomo dei miracoli e dell’aldilà. Per queste sue personalissime idee fu scomunicato il 22 febbraio dal Sinodo della Chiesa ortodossa come “falso dottore”.
Non è un caso che fu Lenin a riaprire il caso Tolstoj, con i suoi saggi sullo scrittore, individuando da una parte la bontà del suo ruolo di contestatore delle colpe del feudalesimo zarista ma dall’altra i limiti di un atteggiamento che secondo il leader bolscevico era fuori del tempo, remissivo, non violento e per questo votato alla sconfitta da parte delle forze economiche e politiche messe in discussione. Vero da un punto di vista marxista e bolscevico di un uomo che proveniva dall’esilio e dall’opposizione contro lo zarismo, ma falso dal punto di vista delle infinite varietà delle incarnazioni dello spirito della storia che non sono solo quelle delle dinamiche di classe, ma delle idee che vanno avanti anche a forza di battaglie ideali e non violente: la sua idea di non resistenza al male fu infatti apprezzata e ripresa da Gandhi e dal pensiero pacifista novecentesco, che hanno creato un nuovo modo di rispondere alle sollecitazioni della storia attraverso la non resistenza al male per non creare nuovo male e attivando quello che è probabilmente uno dei più affascinanti e singolari prodotti del secolo breve, ma capace di diventare strumento di liberazione non solo per i popoli asiatici ma all’interno stesso dell’Occidente. Lo I have a dream di Martin Luther King non potrebbe essere compreso a fondo senza il contributo della non violenza, che discese in India dai freddi boschi di Jasnaja Poljana.

lunedì 3 novembre 2014

STEFANO CUCCHI: È STATO LO STATO!



La sentenza di pochi giorni fa è delirante! Abominevole! Assolve tutti gli indagati, non ci sono prove. 6 medici, 3 infermieri, 3 secondini, tutti innocenti! Questo non fa altro che confermare quanto decretato fin dall’inizio: Stefano Cucchi è morto per disidratazione. Massacrato di botte, pestato a sangue, dilaniato dalle mazzate fino a crepare, lo avrebbe ucciso la sete! Certo, averlo tenuto rinchiuso come uno schiavo in stato di malnutrizione e disidratazione offre una buona scusa per il referto medico. Ma questo fa semplicemente salire l’odio! Com’è possibile negare che questo giovane, finito in carcere per una banalità come il possesso di marijuana, non è stato altro che brutalmente vittima della frustrazione più atroce di certi uomini dello Stato?! che è stato ammazzato da un intero sistema carcerario, dove ognuno è stato complice fino in fondo e coinvolto a tal punto che è stato disposto ad ammazzarlo di nuovo, con il silenzio!? Questa specialità mafiosa forse fa più spavento persino di quello che gli hanno fatto per ucciderlo; forse perché a quello non abbiamo assistito mentre il silenzio dei responsabili, dal più piccolo al più grande, dal boia al politico, quello assorda le nostre orecchie con nonchalance ogni giorno. Ed è spaventoso!


La “giustizia” ora prova ad uscirne persino con la faccia pulita: qualcuno, dal giudice al procuratore, si dice disposto a riesaminare il caso in presenza di nuove prove. 


Nuove prove?! Tutte quelle fornite sono state dichiarate insufficienti a condannare i diretti responsabili e questi vogliono nuove prove?! Di quali altre prove si ha bisogno per testimoniare l’accaduto?! Di quali prove si ha bisogno ancora per dimostrare che un intero sistema carcerario è in grado di trasformarsi in un luogo di torture e omicidi per il puro gusto dello sfogo di violenza?! Un ragazzo è stato ammazzato senza alcuna ragione, brutalizzato per puro delirio di onnipotenza da parte di uomini dello stato trasformatisi in aguzzini e l’unica risposta che viene dalla giustizia non fa altro che legittimare l’insabbiamento di quel sistema statario che senza soluzione di continuità, per tramite delle responsabilità, si dirige dagli esecutori materiali ai vertici dell’amministrazione penitenziaria!? Quale vergognosa complicità questa lavata di mani che ha declinato ogni responsabilità!


Ai vertici di questo sistema poi, sta la politica. Qualcuno fa finta di indignarsi un po’ in televisione; qualcun altro non ha alcuna vergogna a fare del moralismo spicciolo, come il popolino, che quasi giustifica ciò che Stefano ha subito perché in fondo non era altro che un delinquente. Riprovevoli. Per il resto di essi, chi più chi meno, ognuno sa come sono andate le cose; sa in che condizioni si trova il sistema carcerario italiano; sa che la legge italiana in merito prevede condizioni di detenzione disumane; ma a nessuno gliene frega niente, immerso com’è ognuno di loro nel proprio mondo di ricchezze e potere, senza che questo popolo meschino gliene chieda minimamente conto, con tutto il carico di responsabilità che questo comporta.


Allora i diretti responsabili tacciono, è ovvio. I loro superiori tacciono, difendono il proprio lavoro e quello dei propri uomini. La giustizia tace, non è affar suo pestare i piedi ai poteri forti. La politica tace più di tutti, il sistema è il suo; e poi le priorità sono altre. E il popolo, il popolo acconsente. Fine della storia dunque. Nessun colpevole, nessun responsabile, nessun caso. Stefano è morto, povero tossico, di disidratazione.


Qualcuno però ancora si indigna, c’è un popolo che sta con Ilaria Cucchi e vuole giustizia e verità per Stefano! È il popolo che sta con Patrizia Moretti e suo figlio Federico Aldrovandi. E con tutte le famiglie delle vittime che chiedono di sapere cos’è successo mentre i loro cari erano nelle mani dello Stato e chi sono i responsabili della loro morte. Noi siamo dalla loro parte, contro il silenzio omertoso di tutte le alte sfere dello stato, che è responsabile con tutto il suo complesso di tutte queste morti! Noi siamo dalla loro parte in ogni caso e circostanza, ma ancora di più quando, per il semplice fatto di cercare giustizia, queste persone subiscono le angherie dei poteri forti: oggi il sindacato di polizia penitenziaria Sappe ha annunciato che depositerà una querela per Ilaria Cucchi per “istigazione all’odio”; similmente si comportò il sindacato di polizia Coisp con Patrizia Moretti. Ebbene costoro, con questi atti, dimostrando tutto il loro risentimento, non sono che la prova provata che il responsabile è l’intero sistema statale di cui loro sono i servi armati.


Allora almeno un colpevole in questa vicenda lo abbiamo invece: è stato lo Stato!





GIACOMO KATANGA

domenica 2 novembre 2014

Ostia trentanove anni fa

Lo trovarono dalle parti dell'idroscalo, a poche centinaia di metri dalle baracche occupate dalla povertà romana nei periodi estivi.
Il viso conficcato nella melma, una maglietta sporca, pareva l'avessero investito mentre dormiva sulla strada. Avrebbero dovuto cercare una congiunzione con la morte di Mattei e De Mauro, invece parlarono del borghese mischiato ai proletari, le attitudini sessuali e  la sua proverbiale, particolare e antipatica  tendenza a  ridiscutere i luoghi comuni.
La morte di Pasolini rimane un piccolo rebus, uno dei tanti omicidi irrisolti dell'ignobile repubblica. A qualche chilometro i carabinieri arrestarono  un ragazzino di 17 anni, conosciuto dai più  come ladro di macchine, mentre percorreva a velocità folle un percorso vietato a bordo di un'alfa, un certo   Pelosi.
 Arrivarono due pattuglie di polizia sul posto, la folla dei curiosi intorno al corpo martoriato non venne allontana, non decisero nemmeno di recintare la zona. I bambini continuarono a giocare a un campetto poco distante. Quando la palla usciva, gli agenti approfittavano per palleggiare e rimandare il pallone nel rettangolo di gioco, qualche volta erano gli stessi curiosi a rimandarla indietro.
Le tracce si persero definitivamente con  il  passaggio di motorini e macchine, perfino un bastone sporco di sangue venne pestato.  Trovarono la camicia di Pasolini, interrata e con evidenti  segni di pneumatici. (Fu impossibile definire l'ora esatta delle sgommate.)
Il Pelosi in carcere inizia a vantarsi  di aver ucciso Pasolini, ma si lamenta di aver perso un anello. I carabinieri setacciano la zona dell'idroscalo e non trovano nulla, perché un maresciallo di polizia l'aveva trovato e messo in tasca, non ricordò mai dove l'avesse trovato. Praticamente, la polizia si ritrovò un cadavere, i carabinieri un semplice topo di auto.
Nel trambusto si riscopre che l'auto rubata è di Pasolini, così gli inquirenti, dopo 30 ore ritornano sul luogo del delitto. Ricostruiscono un possibile investimento di Paolini, dopo una colluttazione con il Pelosi intento a rubargli l'auto e a chiudere il rapporto morboso.
La zona non venne mai transennata. Nell'esaminare le carte, in secondo tempo stabilirono che in un posto strapieno di fango e buche, una macchina bassa non poteva percorrerla.
Riaprirono  il caso, l'avevano archiviato come omicidio a sfondo sessuale e l'italia bigotta non voleva andare a fondo sulla questione.
Interrogarono gli abitanti della zona solo quattro giorni dopo, ma la verità albergò distante come un atollo.
Oggi pare concordino tutti che ad ammazzare Pasolini non fu soltanto il ragazzino demente, ma se c'era altro lo scopriremo in un'altra vita.