lunedì 30 dicembre 2013

Anche Paolo Berlusconi nel giro dei rifiuti nucleari

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di Chiara Paolin Lo dice senza problemi che in vita sua ha ammazzato almeno cinquanta cristiani, e per altri quattrocento ha dato l’ordine di farli fuori. Lo giura con un sorriso che è scampato alla morte tante volte, per miracolo: “Pure con la stricnina in carcere ci hanno provato, e un’altra volta con un lanciamissili”. Carmine Schiavone ha retto a tutto dopo l’affiliazione alla mafia, con pungitura a Milano nel 1974 per mano di Luciano Liggio. Non un camorrista, dunque, ma un mafioso che gestiva il comparto costruzioni e opere pubbliche a Caserta e dintorni: dieci miliardi di lire al mese da spartire e investire. Nei primi anni 90 il guaio. Gli propongono di mettere monnezza sotto una strada, e lui ci sta. Ma quando s’accorge che tra i sacchi di spazzatura ci sono fusti tossici, rompe l’accor – do. Il clan tenta di convincerlo. Sandokan, suo cugino, lo minaccia. Lui insiste, gli fanno una soffiata e arriva l’arresto, il carcere, le rivelazioni sulla montagna di schifezze sotterrate nelle campagne. Indagini e processi che mandano in galera 1500 affiliati. Questa è la storia di Carmine Schiavone per come la racconta lui in prima persona a Servizio Più Pubblico, lo speciale in onda stasera su La7 (ore 20:35) per raccontare cos’è l’“Inferno atomico”, un territorio devastato da 10 mila tonnellate di rifiuti tra cui, dice Schiavone, ci stanno pure materiali radioattivi. “QUA SOTTO CI SONO le scorie nucleari, arrivate qua dalla Germania in cassettine grandi così – dice Schiavone calpestando un campo vicino a Casal di Principe –. Le portava una società di Milano collegata all’ex P2, a Licio Gelli: era di uno che faceva il costruttore, e che s’è dimesso appena io ho verbalizzato il suo nome”. Cioè quando, a partire dal 1993, Schiavone spiega ai magistrati l’affare della monnezza e spara un nome grosso, già all’epoca: “Dove sono finiti i verbali dove parlo di Paolo Berlusconi?”, chiede Schiavone quando alcune mamme della zona, persi i loro bimbi per tumori legati all’inquinamento, pretendono dal boss un’assunzione di responsabilità. Nessuna prova contro Paolo Berlusconi è mai stata esibita, e molte dichiarazioni di Carmine Schiavone restano coperte dal segreto di Stato. Quanto emerso nelle ultime settimane sul lavoro svolto dalla Commissione parlamentare nel 1997, il famoso “qua moriranno tutti tra vent’anni”, è solo un frammento della verità più profonda e inesplorata. Un mistero che ha rovinato la vita a Roberto Mancini, l’agente della Criminalpol che per quelle indagini del 1993 sorvolò in elicottero le terre del veleno. Al suo fianco Schiavone, che gli indicava i campi dove il suo clan aveva sotterrato i rifiuti pericolosi. L’agente Mancini ha passato giorni interi camminando su quella terra, a prendere misure e segnare punti di scavo, a seguire i carotaggi e prendere appunti. L’agente Mancini non è più in servizio: da dieci anni combatte un linfoma, un cancro tipico nella Terra dei fuochi, una malattia che è una beffa per chi credeva nella legalità e ha visto sprecare un lavoro rischioso, durissimo. “Non sono stato tutelato dallo Stato – dice Mancini nello studio di Servizio Pubblico a Sandro Ruotolo –. Finora ho combattuto il tumore, d’ora in poi mi dedicherò alle istituzioni. Quando consegnai il mio rapporto sulle ispezioni giù in Campania, i giudici Narducci e Policastro erano entusiasti. Pochi giorni dopo cambiarono idea, e dell’inchiesta non rimase nulla: troppo difficile da gestire, troppe pressioni. C’è stato anche l’intervento della massoneria, è provato”. In Campania tutti aspettano una risposta. I malati, i parenti dei morti, quelli che pretendono dal presidente della Repubblica il riconoscimento ufficiale dello status di vittime dello Stato: “Gli abbiamo spedito 150 mila cartoline, non ha dato cenno – spiegano dal comitato –. Del resto, all’epoca dei fatti, era lui il ministro degli Interni. Quindi ora speriamo che ci dia ascolto Papa Francesco”. NELLE CAMPAGNE, i contadini raccolgono peperoni e friarielli a pochi metri dalle aree sospette: “Dobbiamo svendere, nessuno compra più”. Ma perché non avete denunciato negli anni chi veniva a sversare? “Con la canna di fucile in bocca dovevamo parlare, certo. Qua non ci ha difesi mai nessuno, la politica sapeva, ha mangiato e noi siamo rovinati”.

sabato 28 dicembre 2013

Consegnate le firme per chiedere la chiusura di CasaPound „Consegnate le firme per chiedere la chiusura di CasaPound“

Consegnate le firme per chiedere la chiusura di CasaPound
"Il nostro Paese non può non essere antifascista: lo ha sancito la storia, lo pretende la nostra Costituzione, il fascismo è vietato le leggi"

Consegnate le firme per chiedere la chiusura di CasaPound
Ieri Anpi, Alba e Arci hanno consegnato in Palazzo Vecchio al vicesindaco Stefania Saccardi le firme raccolte per chiedere la chiusura di CasaPound.
“Non è che un inizio” dichiara Gigi Remaschi, vicepresidente ANPI Firenze. “All'antifascismo blando e rituale delle celebrazioni ufficiali intendiamo sostituire l'azione attiva, popolare, partecipata in cui si affiancano soggetti diversi, uniti dalla comune volontà di non tollerare la riorganizzazione "sotto ogni forma" di fascismo, nazismo, xenofobia”.

Secondo Remaschi “il nostro Paese non può non essere antifascista: lo ha sancito la storia, lo pretende la nostra Costituzione, il fascismo è vietato le leggi”. Le firme raccolte sarebbero già più di 2500.

Ma qualche critica arriva dalla controparte tramite facebook infatti in un commento sulla pagina facebook dell’Anpi si legge, a firma di Saverio Di Giulio, uno dei rappresentanti di CasaPound in città: “Non ci possono chiudere e sapete perche? Perche' oltre ad essere perfettamente legali siamo autofinanziati e non percepiamo 500 mila euro l'anno di contributi pubblici dalla regione Toscana come voi prezzolati. Quindi, grandi pernacchioni per voi”.
fonte firenze today



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lunedì 23 dicembre 2013

STALIN 60MILIONI DI MORTI, LA PIU' GRANDE CAZZATA DELLA STORIA!!! (cazzate dell'ignoranza fascista e imperialista americana, non fidatevi) di Ivan Di Francesco

Nel 1926 (dicembre) il censimento dette la cifra di 147.000.000, nel 1937 (gennaio) il censimento indicò in 162.000.000 la popolazione dell’URSS;
Questo significa che in quel periodo la popolazione crebbe dello 1,02 %° l’anno, incremento identico a quello italiano e superiore al contemporaneo incremento medio annuale di Francia, Inghilterra e Germania. Il censimento del gennaio 1939 indicò in 170.000.000 la popolazione dell’URSS; secondo attendibili fonti la cifra è tropo alta e va ricondotta a 168-169.000.000. Anche accettando le cifre più base abbiamo un incremento medio rispetto al 1926 (dicembre) del 1,42%°, nettamente superiore a quello degli altri paesi dell’Europa occidentale.La popolazione dell’URSS nel 1939, sempre accettando la cifra più bassa, incideva sul totale della popolazione mondiale per il 7,77 % (1919 7,50%); nello stesso periodo (1919-39) la Francia passa dal 2,17 al 1,91, la Germania dal 3,33 al 3,13, il Regno Unito dal 2,39 al 2,13, l’Italia dal 2,11 al 2 ( malgrado la campagna demografica del fascismo), gli USA dal 5,84 al 6 e il Giappone dal 3,03 al 3,05.Bastava leggere i numeri per rendersi conto che le cifre dei repressi e delle vittime sono state addirittura decuplicate, in alcuni casi, nei vari libri neri, al punto che lo stesso coautore del Libro nero del comunismo, Nicholas Werth, ha dovuto rettificare al forte ribasso le cifre gonfiate presenti nell’opera, come riconosciuto da lui stesso in un articolo dei primi annni ’90 sulla rivista L’Histoire.

LOTTA ALLA CONTRO-RIVOLUZIONE

Dal 1921 al 1953 furono condannate per attività controrivoluzionaria circa 4.000.000 di persone, delle quali 780.000 furono fucilate; nei campi di lavoro, colonie penali e prigioni morirono 600.000 detenuti politici. Si possono calcolare pertanto in 1.400.000 i morti per motivi politici nell’URSS dalla fine della guerra civile alla morte di Stalin. Sono cifre ben lontane da quelle riferite dai vari Conquest, Medvedev, Solzhenitzin, che oscillano tra 10.000.000 e 40.000.000 milioni di esecuzioni. 

SISTEMA PENALE SOVIETICO


Nel sistema penale sovietico i condannati potevano,soltanto nei casi più gravi, essere inviati nei Gulag, per reati meno gravi nelle colonie di lavoro, dove i condannati erano impiegati nelle fabbriche o nell’agricoltura e percepivano un regolare salario, o in particolari zone di residenza con proibizione di risiedere in alcune città, in genere Mosca o Leningrado. In quest’ultimo caso godevano in genere dei diritti politici; in attesa della sentenza gli accusati erano tenuti nelle prigioni. Il totale dei condannati nei Gulag oscillò tra un minimo di 510.000 nel 1930 a un massimo di 1.711.202 nel 1952.
I condannati presenti nei Gulag, colonie di lavoro e prigioni oscillarono fra 1.335. 032 del 1944 e 2.561.351 del 1950. Mancano i dati complessivi fino al 1939, quando si raggiunse la cifra generale di 2.000.000.  La mortalità generalmente oscillante intorno al 3% annuo toccò punte elevate nel 1942 e 1943, 17%, durante il periodo bellico, quando anche le condizioni alimentari, igieniche, di salute della popolazione civile peggiorarono drammaticamente. Al tempo stesso la popolazione dei Gulag diminuì drasticamente, perché molti condannati furono arruolati nell’esercito.Il forte incremento degli anni postbellici è in parte da attribuire alla presenza di prigionieri di guerra, condannati per diserzione e collaborazione con gli occupanti tedeschi. E’ comunque interessante notare che la popolazione detenuta nel suo complesso arrivò a toccare al massimo il 2,4% della popolazione adulta; nel 1996 erano detenuti negli USA 5.500.000 persone cioè il 2,8% della popolazione adulta. Le statistiche ci dicono anche che la grande maggioranza dei condannati (80-90%) riceveva pene inferiori a 5 anni, meno del 1% superiori a 10. Vanno anche ricordati i provvedimenti di amnistia, i più larghi dei quali, che interessarono oltre un milione di detenuti, nel 1945 e nel 1953. Credo che qualunque paragone con i campi di concentramento nazisti sia un offesa alla verità; lì i deportati erano destinati, se ebrei, rom o di razze considerate inferiori, a morte certa; nessun tribunale aveva decretato la loro condanna; le pene non prevedevano un termine, non c’erano amnistie; non c’era la possibilità di revisione della condanna e di riabilitazione, come, anche in epoca staliniana avvenne per non pochi condannati: per quanto dure potessero essere le condizioni nei campi sovietici, non erano paragonabili a quelle dei lager nazisti. 


LE PURGHE
 Contrariamente a quanto affermato la maggioranza dei vecchi bolscevichi non fu colpita: dei 24.000 iscritti prima del 1917 ne sopravvivevano 12.000 nel 1922, 8.000 nel 1927, meno di 5.000 (cioè tra 4.500 e 5.000 n.d.r.) nel 1939, dopo la grande purga. Dei 420.000 membri del PCUS nel 1920 ne rimanevano 225.000 nel 1922, 115.000 nel 1927, 90.000 nel 1939. Altri dati indicano in 182.600 gli iscritti prima del 1920, dei quali 125.000 erano presenti nel 1939. La purga investì l’esercito, ma non nella misura indicata daglia nticomunisti. Dei 144.300 ufficiali e commissari dell’Armata Rossa 34.300 furono espulsi per ragioni politiche; di questi 11.586 entro il maggio 1940 furono reintegrati nel posto e nel grado; le vittime della purga nell’esercito furono pertanto 22.705, cioè il 7,7% del totale. Anche in questo caso furono gli alti gradi ad essere più colpiti. 

KULAKI

La composizione di classe dei contadini nel 1927 era la seguente: i contadini poveri costituivano il 35% del totale. La grande maggioranza della popolazione agraria, dal 51 al 53%, era costituita dai contadini medi (le cui condizioni di lavoro erano tuttavia arretrate). “Nell’insieme dell’Unione sovietica, tra il 5% e il 7% dei contadini erano riusciti ad arricchirsi: i kulaki. Dai dati del censimento del 1927, il 3,2% delle famiglie dei kulaki possedeva in media 2,3 animali da tiro e 2,5 vacche contro una media di 1,0 e 1,1 per le rimanenti famiglie. 950.000 famiglie, cioè il 3,8%, occupavano operai agricoli o affittavano mezzi di produzione.Al 1° ottobre 1928 su 1.360.000 membri e candidati, 198.000 erano contadini. Nelle campagne c’era un membro del partito ogni 420 abitanti e 20.700 cellule del partito, una ogni quattro villaggi. Queste cifre acquistano maggior peso se messe a confronto con quelle degli ‘effettivi permanenti’ della reazione zarista, i preti ortodossi e gli altri religiosi a tempo pieno, che erano 60.000. La gioventù contadina costituiva la più grande riserva del partito. Sempre nel 1928 un milione di giovani contadini militavano nel Komsomol ed inoltre il partito poteva contare sui soldati che avevano combattuto nell’Armata rossa durante la guerra civile e sui 180.000 contadini che si arruolavano ogni anno nell’esercito, dove ricevevano un’educazione comunista.
Negli anni 1939-1931vennero esprorpiati i terreni di 381.026 kulaki che furono costreti all'espatrio insieme alle loro famiglie, nelle terre vergini dell’Est della Russia. Si trattava di 1.803.392 persone. Al 1° gennaio 1932 nei nuovi insediamenti ne furono censite 1.317.022. La differenza era di circa 486.000, che non coincide con la loro eliminazione fisica. Data la disorganizzazione dell’epoca, bisogna mettere in conto che un numero imprecisato di deportati riusciva a fuggire durante il viaggio. Fenomeno frequente, confermato dal fatto che di quel 1.317.000 censiti nei nuovi insediamenti, 207.010 riuscirono a fuggire nel 1932. Molti altri, dopo la revisione del loro caso, poterono tornare nei luoghi d’origine.


FONTI

S. Fitzpatrick The cultural front. Power and revolutionary Russia Cornell University Press 1992
S. Fitzpatrick Educational level and social mobility in Soviet Union 1921-1934 Cambridge University Press 1979
J A Getty Origin of great purges: the soviet communist party reconsidered 1933-1938 Cambridge University Press 1999
J A Getty R T Manning Stalinist terror: new perspectives CambridgeUniversityPress 1993
S G Wheatcroft Toward explaining the changing levels of Stalinist repression in 1930s. mass killing Europe-Asia studies 51;113-145.1999
S G Wheatcroft Victims of Stalinism and the Soviet Secret Police. The comparability and reliability of archival data. Not the last word Europe-Asia Studies 51; 515-545, 1999
R W Davies M Harrison, S G Wheatcroft The economic transformation in Soviet Union 1914-1945 Cambridge University Press 1994

domenica 22 dicembre 2013

LA MANIPOLAZIONE DELLE CONOSCENZE – L’industria farmaceutica di pjmanc



SI POSSONO FARE MOLTI SOLDI DICENDO ALLE PERSONE SANE CHE SONO MALATE
Così inizia un articolo scritto per il “Britisch Medical Journal” da un giornalista scientifico, un medico di base e un professore di farmacologia clinica, il cui titolo esplicita l’argomento: Vendere malattie: l’industria farmaceutica e il mercato della malattia.Gli autori dimostrano, con numerosi esempi, che c’è una costante azione, da parte dell’industria farmaceutica, di medicalizzazione della società, al fine di allargare il mercato.Lo studioso della Sanità Gianfranco Domenighetti così descrive le strategie di allargamento del mercato messe in atto dall’industria e dagli altri anelli della rete.“Anticipazione della diagnosi, screening e altre procedure assimilabili, che tendono ad estendere il dominio della malattia sul piano temporale della vita. Abbassamento della soglia tra normalità e patologia, che tende ad estendere il dominio della vita sul piano quantitativo. Attribuzione della qualifica di patologico a condizioni esistenziali comuni, che tendono ad estendere il dominio della malattia sul piano qualitativo”La promozione dello sreening rappresenta probabilmente “il più grosso business per creare nuovi ammalati”, scrive Domenighetti.Tipico è lo screening per il PSA (l’antigene prostatico specifico), che è stato proposto a tappeto in Europa e negli USA a maschi cinquantenni, anche in buona salute, con effetti nulli sul controllo della mortalità per tumore alla prostata, con molti effetti negativi derivanti dalla diffusione ingiustificata della chirurgia della prostata e con molti effetti positivi per i produttori dei test e dei farmaci.


L’ALTRO PILASTRO DELLA SRATEGIA DI MARKETING
è l’abbassamento della soglia che divide il normale dal patologico.Gli esempi li abbiamo sotto gli occhi: la soglia del colesterolo e quella della pressione arteriosa sono diventate talmente mobili verso il basso che si fa fatica a catturare l’ultime limite. Al punto che ormai è frequente sentire cardiologi dire che meno colesterolo si ha e meglio è, stravolgendo la fisiologia e la biochimica, che ci insegnano che questa molecola è essenziale per la stabilità della membrana cellulare e per la sintesi degli ormoni steroidei (ormoni sessuali, cortisolo, DHEA e altri di minor peso).Dal punto di vista conoscitivo, adottare questo punto di vista significa passare dal concetto di equilibrio dei valori (del colesterolo, della glicemia, della pressione arteriosa, eccetera) a quello di nemici interni da annientare.


IL CONCETTO DI SALUTE CHE E’ ALLA BASE NON E’ QUELLO DI EQUILIBRIO
che la persona ricerca in prima persona, ma è quello di difesa dai nemici sia interni che esterni, da realizzarsi con armi che vengono fornite dall’esterno sotto forma di pillole, bisturi e simili.Ray Moynihan, primo firmatario dell’articolo sopra citato, in un suo recente libro fa notare che la decisione di abbassare la soglia del colesterolo in USA, dopo molte traversie, è stata presa nel 2004 da un gruppo di nove esperti federali, di cui otto hanno interessi con le industrie che producono farmaci per abbassare il colesterolo.Le nuove linee guida, solo negli USA, hanno di colpo creato 25 milioni di malati in più, facendo passare da 12 a 36 milioni le persone che dovrebbero ricevere un farmaco per abbassare il colesterolo. Per non  parlare poi delle linee guida sull’ipertensione, per le quali, nel giro di pochi anni, si è passati da una pressione di 90/140 considerata normale a 120/80. Infine nella primavera del 2003, gli esperti chiariscono che se si raggiungono quei valori la persona deve essere considerata in “pre-ipertensione”. Insomma per questi signori, uno per essere considerato sano, dovrebbe stare sempre sul filo dell’ipotensione! Anche qui è ovvio che abbassare la soglia significa alzare la prescrizione di farmaci, e comunque medicalizzare uno stato normale.
Redatto da Pjmanc http:/ ilfattaccio.org

venerdì 20 dicembre 2013

A Londra i droni che uccidono a Gaza. Il governo britannico firma un accordo con la Elbit. (divieto di sapere). di Emma Mancini

Il governo britannico firma un accordo con la compagna israeliana che produce gli aerei senza pilota responsabili della morte di 800 civili gazawi.
 Gerusalemme, 13 dicembre 2013, Nena News - Il Regno Unito approfitta dei test militari israeliani e acquista i droni che a Gaza hanno provocato centinaia di vittime. Non è certo una novità: l'industria militare israeliana pubblica e privata vive una costante primavera, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie regolarmente testate contro la popolazione palestinese, Striscia di Gaza in testa.

E gli affari con acquirenti europei ed internazionali sono sempre floridi. Ultimo in ordine di tempo l'accordo firmato dal governo britannico per lo sviluppo di un nuovo drone, Watchkeeper, prodotto dalla compagnia israeliana Elbit System. A darne con preoccupazione l'annuncio è stata l'associazione War on Want, impegnata in campagne contro la povertà e la guerra: Londra produrrà i droni israeliani testati contro Gaza e lo farà in collaborazione con una compagnia militare israeliana. L'associazione si è subito rivolta all'Unione Europea chiedendo di implementare un embargo militare contro Israele e i produttori di armi, così da bloccare anche l'accordo tra Londra e la Erbit.

Il Ministero della Difesa inglese ha firmato una serie di contratti per lo sviluppo del progetto di lungo termine Watchkeeper: 54 droni per un valore totale di un miliardo di dollari. Droni che saranno costruiti secondo il modello Hermes 450 della Erbit, che l'aviazione israeliana ha più volte utilizzato contro la Striscia di Gaza. Il numero di vittime gazawi, uccise da droni tra il 2006 e il 2011 - secondo War on Want- ha superato quota 800 persone.

"Sostenendo il commercio di armi con compagnie israeliana, il governo britannico manda un messaggio chiaro di approvazione delle aggressioni israeliane contro il popolo palestinese - ha commentato Rafeef Ziadah, direttore di War on Want - E l'Unione Europea manda un messaggio simile attraverso i fondi per la ricerca girati alle industrie di armi israeliane".

Londra si è subito giustificata: "Watchkeeper non è armato, è un sistema aereo pilotato a distanza che fornirà alle truppe di terra sorveglianza, ricognizione e servizi di intelligence che aiuteranno a evitare morti civili e militari", ha detto un portavoce del Ministero della Difesa britannico.

Bruxelles evita di commentare, proseguendo su una linea politica quantomeno ipocrita: da una parte critica la colonizzazione dei Territori Occupati e le violazioni dei diritti umani del popolo palestinese da parte di Tel Aviv e dall'altra firma accordi commerciali e culturali con il governo israeliano. Da una parte traccia linee guida per impedire agli Stati membri di fare affari e garantire finanziamenti a aziende e istituzioni che operano nelle colonie, e dall'altra tace sugli accordi bilaterali commerciali e militari firmati da molti dei suoi 28 membri.

E a fiorire è la potente industria militare, fatta di compagnie private e società statali: in Israele ben 6.784 imprenditori privati si occupano di esportazione di armi. Un numero a cui va aggiunta l'industria statale e che garantisce ad Israele di raggiungere il sesto posto nella classifica dei maggiori esportatori di armi al mondo, scavalcando Canada, Cina, Svezia e Italia. Nel 2012, secondo un rapporto del quotidiano israeliano Ha'aretz, il valore totale delle esportazioni israeliane di armi è stato pari a 7 miliardi di dollari (+20% rispetto al 2011).

A rendere tanto appetibile la produzione militare israeliana è l'alta tecnologia, a cominciare proprio da quella sviluppata per la produzione di droni e sistemi di difesa anti-missile, entrambi ampiamente testati nell'ultima offensiva militare contro Gaza: a differenza della sanguinosa Operazione Piombo Fuso (dicembre 2008-novembre 2009), durante la quale gli iniziali bombardamenti aerei sono stati seguiti dall'invasione via terra, a novembre del 2012 l'operazione Colonna di Difesa è stata gestita solo dall'aviazione, attaccando Gaza quasi esclusivamente con i droni, aerei senza pilota, che hanno permesso così ai soldati israeliani di non aver alcun tipo di coinvolgimento diretto nell'attacco. Nena News

venerdì 13 dicembre 2013

C'È UNA GUERRA SOTTOBANCO IGNORATA DALLA COSIDETTA CIVILTÀ!













Ci sono 36 nazioni che oggi si trovano in questa condizione in Africa, Asia e Medio Oriente.
Tra queste ci sono Messico, Bolivia, Mauritania, Ghana, Marocco, Algeria, Tunisia, Libano, Libia, Somalia, Kenya, Madagascar, Israele-Palestina, Egitto, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman, Giordania, Azerbajian, Iraq, Iran, Siria, India, Yemen, Pakistan e Corea del Sud
  • Un miliardo e 800.000 persone non hanno un adeguato rifornimento d'acqua
  • un bambino di un paese sotto sviluppato consuma acqua da trenta a cinquanta volte in meno di quanto ne consuma un bambino dei paesi industrializzati
  • dai 5 ai 10 milioni di uomini e bambini muoiono a causa di malattie dovute all'inquinamento dell'acqua: colera, tifo, epatite, dissenteria, gastroenterite ed altre malattie
  • a ben un quinto delle bambine e dei bambini del mondo manca l'acqua.
Mappa scarsità acqua
  • Nell'Africa Orientale, un bambino ogni 15 secondi muore per il mancato accesso all'acqua potabile, soprattutto nei primi 5 anni di vita
  • in Somalia, in cui il 71% della popolazione non ha accesso all'acqua potabile, 1 bambino su 7 muore prima di aver compiuto un anno
Ogni anno, sempre in Africa, sono approssimativamente 443 milioni i giorni di scuola persi da bambini e bambine, poiché si spostano di frequente con le famiglie a causa della mancanza d'acqua o perchè sono costretti a saltare le lezioni per accompagnare il bestiame ad abbeverarsi.
Ogni giorno le bambine africane percorrono circa 6 km per approvvigionarsi d'acqua, trasportandola poi in contenitori dal peso di circa 20 chili, con conseguenti danni alla spina dorsale e al bacino.
In periodi di particolare siccità, in Kenya, aumentano anche i matrimoni di bambine, che spesso non hanno più di 10 anni e vengono date in moglie in cambio di cibo e acqua.
tratto da Save the children
  • La regione comunemente individuata come MENA, ovvero la regione del Medio Oriente e Nord Africa, è senza dubbio una delle più aride al mondo, dove, in oltre 5000 anni di storia, l'acqua è stata spesso oggetto di guerre e conflitti più o meno localizzati.
    Il controllo, l'impiego e la ripartizione delle risorse idriche continuano a scatenare ancora oggi tensioni tra gli Stati e tra le popolazioni di quell'area.
I tassi di crescita demografica vicini al 3% annuo, uno sviluppo economico che stenta a decollare, gli investimenti stranieri che ristagnano da tempo a causa delle tensioni etniche, politiche e religiose stanno determinando una competizione crescente tra i governi della regione per accaparrarsi le limitate risorse idriche dei tre bacini fluviali più estesi, il Nilo, il Giordano e il Tigri-Eufrate.
tratto da Le dispute idriche in Medio Oriente
  • La scarsità d'acqua è un problema grave in tutto il Medio Oriente.
In nessuna parte del mondo tutto ciò è clamorosamente evidente quanto nei Territori Palestinesi Occupati.
La popolazione palestinese è la metà di quella israeliana, ma consuma soltanto il 10-15 per cento dell'acqua che viene consumata in Israele.
In Cisgiordania, i coloni israeliani usano una quantità di acqua pro capite quasi nove volte maggiore di quella che usano i palestinesi.
I palestinesi patiscono una delle carenze idriche più gravi del mondo.
Per paesi come il Bangladesh, che dipende dall'India per il 91 per cento delle acque usate per irrigare le piantagioni e rigenerare gli acquiferi, i vantaggi di una cooperazione in materia idrica sono evidenti.
Per altri paesi, la consapevolezza della necessità di cooperare è arrivata fin troppo tardi.
È il caso del lago d'Aral, nell'Asia centrale.
tratto da Lo spettro delle "guerre per l'acqua" distoglie
dalla necessità urgente di cooperazioni transfrontaliere
  • Grandi fiumi come il Nilo, il Gange, il Colorado, ... stanno progressivamente riducendo la loro portata d'acqua.

il Nilo il Gange il Colorado
Il Rio delle Amazzoni, ad esempio, dieci anni fa in alcuni punti era largo 1300 metri e profondo quindici, oggi gli stessi punti sono larghi 20 metri e profondi 50 centimetri.
Come si muore di sete?

"La disidratazione inizia quando il nostro corpo ha perso circa 3-4 litri di acqua e, se non si corre ai ripari, si va incontro alla morte per sete.
Dapprima la testa comincia a girare, la pelle diviene secca, compare un po' di febbre e si avverte un crescente senso di irritabilità e disorientamento.
Quando la perdita di liquidi arriva a 8 litri, la lingua è così gonfia che è difficile deglutire e non solo non si riesce a camminare, ma le forze non bastano neppure per trascinarsi strisciando sul terreno.
Poi la pelle si disidrata tanto da spaccarsi, mentre i reni e il fegato non funzionano più.
La febbre sale, perché il corpo non riesce a mantenere costante la propria temperatura interna. Infine il sistema nervoso perde la capacità di controllare il ritmo del respiro e il battito del cuore. Sopraggiunge il coma e quindi la morte" .
Tratto da: Vandana Shiva, Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003, p. 107
Inizio 
 FONTE http://www.griffini.lo.it/laScuola/prodotti/risorsaacqua/moriresenzacqua.htm

mercoledì 11 dicembre 2013

Vendola: «Con Renzi bisognerà parlare... intendersi...» di Dino Greco

Nichi Vendola, come un consumato saltimbanco della politica, dopo l’esito delle primarie del Pd, ricalibra il giudizio sul vincitore. Sentite come il mentore della ’sinistra di sua maestà’ commenta la vittoria dell’enfant prodige democratico.’’Renzi? Un ciclone che chiude completamente un pezzo di storia politica italiana, liquidando un’intera nomenclatura politica. Con Renzi bisognerà parlare, intendersi, ma credo che oggi si sia creato lo spazio per la nascita di una nuova Sinistra’’. Cosa vorrà dire, questa volta, il capo di Sel, volubilissimo su tutto, in materia di alleanze e non solo, tranne che sulla chiusura a sinistra?
Ricapitoliamo. Una volta, ma non troppo tempo fa, diciamo a ridosso delle primarie del Centrosinistra, siamo nel novembre del 2012, il sindaco di Firenze era per Vendola il peggio che si potesse immaginare: "Lui incarna l’inciucio sublime, quello tra sinistra e liberismo. E’ il propugnatore di tutte le ricette che hanno sfinito e sfibrato la sinistra in tutta Europa. E’ ambiguo sui nodi della pace e della guerra nel mondo. Essere ambiguo su questo e non indignarsi perché c’è un popolo (quello palestinese, ndr) che è prigioniero è sintomo di subalternità ai poteri forti che caratterizzano questo singolare rivoluzionario".
Queste le parole, poco più di un anno fa, del governatore pugliese, che così continuava: "Renzi non ha bisogno di prefigurare alleanze con Casini, Renzi è Casini". E ancora: "“In lui c’è una marcata adesione a modelli culturali che io penso debbano essere rottamati: Renzi è idrolitina nell’acqua morta della politica, è il juke-box delle banalità, delle piccole litanie qualunquiste, il suo atteggiamento è violento, fatto di contumelie» ». Ma già nell’agosto del 2013, todo cambia , come nella canzone di Mercedes Sosa. Perché? Perché il sindaco fiorentino brucia le tappe, cresce nei consensi fra il popolo del Pd e l’uomo di Terlizzi fiuta l’aria, avverte che il vento sta rapidamente cambiando. E si adegua, come sempre. «Più si è lontani dal governo Letta - dice, infilandosi nella competizione in casa democrat - e più si è vicini alle mie posizioni. E Renzi ha un impatto destabilizzante nei confronti dell’alleanza con Berlusconi». E ancora: «Lo sforzo di cambiamento di Matteo Renzi è reale, non va ridotto a pura fiction». Ma come, e la vocazione inciucista, e il criptoliberismo, e la superficialità da guitto? Macché, acqua passata. E il Renzi ’subalterno ai poteri forti’? "Mai detto", chiude con bronzea disinvoltura il capo di Sel, ormai deciso a saltare il fosso: "Mi sento vicino a Renzi", dice, creando un discreto sconquasso fra le sue file.
Quelli più seri dei suoi stramazzano: «Ma come? Che ci facciamo noi con Renzi, che vuole eliminare l’articolo 18, che fonda la sua campagna sulla tutela dei liberi professionisti, che ruba voti a destra ed è quasi un Berlusconi di sinistra?». Ma nel mercato fluttuante della politica-politicante questi sono futili dettagli. Insignificanti. Quello che conta è stare dentro il cerchio, non isolarsi, perché prima o poi alle urne si torna, e con un Renzi irriducibile bipolarista ed iper maggioritario, se si tira troppo la corda si rischia di restare a secco, visto il rapido declino della popolarità di Sel. E il Renzi ’subalterno ai poteri forti?’ "Mai detto", risponde Vendola, che dopo l’ultima kermesse della Leopolda rende esplicito l’endorsement: "Apprezzo lo sforzo di Renzi di rinnovare il linguaggio.
Lui occupa uno spazio che la crisi delle nomenklature post Dc e post Pci ha reso gigantesco. Nel suo discorso ci sono cose nuove e cose che hanno a che fare con la trasformazione culturale italiana». Insomma un fior d’innovatore, questo Renzi.
Ora che il nuovo segretario del Pd ha stravinto le primarie, Vendola tenta un altra furbata: collocarsi in un’area mediana che apre all’accordo con Renzi ("bisognerà intendersi con lui", dice), auspicando nello stesso tempo "la nascita di una nuova Sinistra", o piuttosto, e più modestamente, sperando di mettere all’incasso l’adesione di qualche militante democratico sconfortato o deluso per la deriva centrista del suo partito. Esodo del tutto inutile, se poi Sel lo reinveste nel centrosinistra.

Le nuove tappe militari della Francia in Africa di Mattia Laconca -

Il governo socialista francese di François Hollande non ha rivali in Europa in quanto ad interventismo, anche se l’Italia prona agli statunitensi segue a ruota. Le avventure militari di Parigi non sono una novità, in particolare da quando il candidato della gauche si è insediato all’Eliseo. Questa volta tocca alla Repubblica Centrafricana.
Dopo lo stato di agitazione nel 2011 per la guerra civile in Libia (e la conseguente destituzione ed esecuzione del leader Muhammar Gheddafi) vissuto anche dalla Francia, la situazione nell’intera parte dell’Africa centro-settentrionale è andata peggiorando progressivamente; a destabilizzare gli equilibri geopolitici dell’area hanno molto contribuito Stati Uniti e Paesi europei intervenuti nei conflitti, esasperando le condizioni di vita per milioni di persone ed espandendo rivolte, anche armate, troppo spesso frettolosamente definite come "rivoluzioni di popolo". Di "popolo" puramente inteso il terrorismo salafita ha decisamente poco. Finanziato sino alla soglia degli anni ’90 dagli Stati Uniti in primis (memorabile l’appoggio alla resistenza in Afghanistan contro l’Esercito Sovietico) e partito in Medioriente ed Asia, il movimento di resistenza oggi identificato come Al-Qaeda ha rintuzzato il fuoco nell’Africa delle innumerevoli guerre, dove principalmente operano il gruppo di Al-Qaeda per il Maghreb Islamico ed il fronte di Boko Haram, spaccato in tre fazioni e radicato in Nigeria.
Facile immaginare quanto ci sia di politicamente architettato nel colpo di Stato in Mali del marzo 2012, che ha portato alla auto-proclamazione di indipendenza della regione dell’Azawad da parte del MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad) e la successiva sconfitta del medesimo da parte di formazioni integraliste d’ispirazione salafita, tra cui Ansar Eddin. Alla fine dell’anno con la ripresa delle attività belliche è il Presidente del Mali Traorè a chiedere l’aiuto internazionale attraverso l’ECOWAS, grosso modo l’equivalente della UE europea: la Francia risponderà presente "per motivi umanitari" e resterà l’unico tra i Paesi occidentali ad intervenire attivamente nei combattimenti attraverso un contingente di oltre 2000 uomini (che arriveranno ad essere il doppio a tutt’oggi) ed il supporto dell’aviazione. Parigi resterà operativa per un mese, da gennaio all’8 febbraio, giorno della visita di Hollande nella capitale Timbuctu; restano fumose le dichiarazioni di future riduzioni del contingente.
Ora le mire francesi si spostano nuovamente, passando da Mali e Libia (e bypassando sulla cartina geografica Niger e Ciad) in Repubblica Centrafricana. Hollande ha ormai indossato le vesti di paladino del peacekeeping e sempre "per motivi umanitari" ha comunicato attraverso un messaggio televisivo il 5 dicembre la decisione di intervenire manu militari a Bangui, dopo l’ennesimo massacro di civili a causa di scontri di matrice etno-religiosa tra cristiani e ribelli: l’ONU ha autorizzato un contingente di 1600 uomini la scorsa settimana. Il 24 marzo un gruppo di milizie integraliste mussulmane raggruppate sotto il nome di Séléka è arrivato al potere destituendo il generale François Bozizè ed interrompendo il processo di riscrittura della Costituzione nel quale era coinvolta ogni formazione politica, ed il leader Michel Djotodia si è autoproclamato presidente del Paese; a settembre Séléka viene sciolto, ma l’attività di destabilizzazione è totale, con conseguenti atti di violenza e sopraffazione. I cristiani centrafricani si sono organizzati in coordinamenti di resistenza definiti anti-Bamaka. Come sempre, per essere esaustivi ogni conflitto armato in Africa meriterebbe un intero tomo a sè stante.
Lo scorso sabato a Parigi si è svolta la Conferenza per la Pace e la Sicurezza in Africa: Hollande ha invitato a partecipare (attivamente) anche il Segretario Generale dell’ONU Ban-Ki-Moon ed il Presidente del Consiglio Europeo Erman Von Rompuy: un incontro pubblico con la stampa teso a stemperare le proteste che in crescendo si levano dalla Francia e non solo verso una politica estera che odora sempre più di revanscismo neocoloniale verso quei territori indipendenti da neanche un secolo (ammesso che lo siano mai diventati, e nel caso della Repubblica Centrafricana è comunque dal 1960, 53 anni fa. Il 1 dicembre, la scorsa settimana, per il Paese era festa nazionale). Un tentativo comunque malamente riuscito, con Hollande che ha apertamente parlato di "profumo di libertà che già si respira a Bangui" ed ha provato a mostrare risolutezza in uno scenario assai complesso e comunque ancora fortemente instabile, indicando tre punti cardine: "porre fine ai massacri, disarmare le milizie, riportare un quadro di democrazia per permettere l’organizzazione di nuove elezioni". Lasciando neanche troppo velatamente intuire, alla presenza di ONU ed UE, nuovi possibili scenari dichiarando che "le violenze potrebbero estendersi verso altri Paesi africani". Ovvero, quanto già dichiarato per il Mali lo scorso anno.
Il Partito Socialista francese fa quadrato intorno al suo leader e presidente, facendo apparire lontani i tempi del caos interno con la segreteria di Aubry che spianò la strada a Sarkozy. La ex ministra della Giustizia e del Lavoro, oggi rappresentante per il PS all’Assemblea Nazionale (una delle due Camere) Elisabeth Guigou svela le trame della politica economica della Francia in Africa: "Dobbiamo uscire dal concetto neocolonialista di commercio attraverso il solo sfruttamento ed instaurare uno scambio nel quale entrambe le parti guadagnino qualcosa. Ci dobbiamo impegnare attraverso l’Unione Europea per stabilizzare le istituzioni e ciò è basilare" e parlando di Tunisia aggiunge: "Questo farà guadagnare nuovamente fiducia da parte degli investitori esteri e rilancerà il turismo, una delle principali risorse del Paese". E sugli impegni militari precedentemente assunti, il tono è equipollente a quello dei Bush e degli Obama sul Medioriente: "Il nostro intervento in Libia è stato solo militare. In Mali ci siamo andati dietro richiesta del Paese stesso e non abbiamo intenzione di restarci se non per il tempo necessario per costruire l’unità del Paese; stiamo formando un esercito autonomo maliano e collaboriamo per fare cessare il fuoco. Una volta che il MISCA (la missione internazionale nella Repubblica Centrafricana) sarà operativo, ce ne andremo più velocemente di come siamo arrivati, lasciando il comando delle operazioni al contingente ONU".
Anche Guigou dunque prova a fare il pompiere anche nei confronti di un elettorato interno perplesso e piuttosto scontento. E dimentica di indicare quale sarà la moneta della comunità internazionale per premiare un intervento che, casualmente, è partito dagli ex-coloni francesi.

martedì 10 dicembre 2013

Un quintale di amianto a pochi metri da un'oasi del Wwf. La scoperta della GdF in Irpinia

Grave scoperta quella che, stamane, hanno effettuato gli uomini della Guardia di Finanza. Una discarica a cielo aperto sita in provincia di Avellino, rischiava di mettere in pericolo la salubrità delle acque in Campania e anche in Puglia.
Si tratta di un rinvenimento inquietante, specie se si considera la zona in cui è avvenuto. Non parliamo di Terra dei fuochi o di Triangolo della morte ma della verde irpinia, ovvero le campagne di Conza della Campania. A poche centinaia di metri sorge un'oasi protetta del Wwf. Oltre a una vera e propria discarica abusiva a cielo aperto con rifiuti di varia natura, le Fiamme Gialle hanno scoperto 80 pannelli di Eternit, pari a circa un quintale di amianto smaltito illegalmente. Il rischio era che, con le piogge battenti, l'amianto penetrasse nelle profondità del terreno, inquinando le falde da cui si alimenta anche l'acquedotto pugliese.
Redazione

TI HO VISTO PICCHIARE di Antonio Recanatini


Ti ho visto picchiare i lavoratori della Granarolo, ho visto più volte le immagini e non mi pare fossero violenti.
Ti ho visto  picchiare il 15 ottobre, ragazzi, donne e anziani, senza nessun rispetto per la tragedia.
Ti ho  visto picchiare nella caserma di Bolzanero, Genova 2001.
Ti ho visto picchiare i terremotati aquilani e limitrofi, chiedevano solo di essere rispettati.
Ti ho visto picchiare in periferia i ladri di galline e bussare con molto rispetto alle porte di commercialisti tutto fare, politici incravattati e parlare con i fascisti davanti casa “points”.
Ti ho visto picchiare gli studenti a Milano, ci sono immagini ovunque, il 25/11/2010, non erano delinquenti, non avevano croci celtiche tatuate e non alzavano la mano per il saluto romano.
Ti ho visto picchiare un ragazzino nella manifestazione del 14/12/2010, quando ormai era tra le vostre mani, ti ho visto calpestare un ragazzo a terra, seguito dai tuoi compari.
Ti ho visto sfondare distruggere la vetrina di un bar, giorno 01/03/2012 per acciuffare presunti manifestanti no-tav.
Ti ho visto picchiare un senegalese reo d'aver rubato una bici, raggiungerlo e agguantarlo come fosse una preda con cui soddisfare l'ansia da prestazione.
Ti ho visto picchiare un papà separato che voleva vedere suo figlio il 3 marzo del 2009, senza nessun ritegno.
Ti ho visto sfigurare con una manganellata una donna che manifestava per aver perso il posto, ci sono foto che girano sul web, ti ho visto picchiare ragazzi nella periferia di Roma, convinti fossero ultras, ti ho visto anche picchiare a Cesena un giovane ragazzo, il 17/03/2013 senza un motivo preciso e poi denunciarlo per resistenza al pubblico uffiaciale.
Ho saputo di un anarchico che è volato dal balcone, di un ragazzo massacrato in prigione e un altro devastato in un parco, sempre tanti contro uno e non hai mai avuto il coraggio di farti guardare in faccia.
Ti ho visto sparare a un tifoso ad altezza uomo e difenderti come se non volessi ammazzare.
Ti ho visto attaccare e spogliare un giovane ragazzo e sbatterlo sul cofano della macchina, sempre tre mesi massimi contro un pregiudicato rimasto senza forze, neanche per difendersi a parole.
Ho visto tante immagini di repressione da far rabbrividire anche il più scalmanato idealista delle camicie nere, puoi girare ovunque per guardare le immagini....
Ti ho visto picchiare operai, studenti, mamme, ragazzini, padri di famiglia rovinati dal capitalismo. Dopo la manifestazione dei forconi avete cambiato aspetto, addirittura sembrate più belli, eppure non avete fatto un lifting e come mai?
Volete che si creda al comunicato stampa “si sono tolti il casco, essendo venute meno le esigenze operative che ne avevano imposto l’utilizzo”, allora potevate farlo quando c'erano altre persone a manifestare e non i fascisti. IO NON MI FIDO e un giorno, son sicuro, verrà la resa dei conti.

(Antonio Recanatini)

lunedì 9 dicembre 2013

Ue, tolleranza zero: in galera chi si professa comunista?

a parola “comunista” in Europa sta per diventare ufficialmente un insulto, e probabilmente un reato: né più né meno come le parole razzismo, xenofobia, antisemitismo, omofobia. L’alzata d’ingegno porta la firma del Consiglio Europeo, presieduto da un politico-fantasma come il belga Herman Van Rompuy, di strettissima osservanza Bilderberg. Liquidare il comunismo come fosse l’equivalente del nazismo? Il pericolo, come sempre, è nascosto in un dettaglio, dietro il paravento delle buone intenzioni. Tipo: “promozione della tolleranza”, per al quale predisporre un quadro normativo europeo. «Non credo che l’Unione Europea sia una buona idea», protesta Tim Worstall, «ma sembra che questa volta siano venuti fuori veramente con un jolly: stanno proponendo che ci dovrebbe essere una nuova legge sulle libertà civili e che questa legge dovrebbe rendere un reato penale per chiunque il proporre o promuovere il comunismo. Il che è una cosa un po’ strana per un programma di libertà civili, ma ciò sembra proprio quello che stanno facendo».
A prima vista, premette Worstall in un intervento su “Forbes” ripreso da “Come Don Chisciotte”, potrebbe sembrare «la solita lista dei desideri della Una statua di Lenin abbattutasinistra sui diritti umani». Ma, se si dà un’occhiata al documento più da vicino, nella sezione 2 (scopo) si spiega che l’obiettivo è quello di «eliminare i crimini d’odio», «condannare tutte le manifestazioni di intolleranza basate su preferenze, fanatismo e pregiudizi», e soprattutto «intraprendere azioni concrete per combattere l’intolleranza, in particolare al fine di eliminare il razzismo, i pregiudizi di colore, la discriminazione etnica, l’intolleranza religiosa, le ideologie totalitarie, la xenofobia, l’antisemitismo, l’anti-femminismo e l’omofobia». Attenzione, dice Worstal, a quella “ideologia totalitaria”. Comunismo? «Quindi lo scopo della legge è quello di assicurarsi che sia eliminato». Come? Lo spiega la sezione 7, che prefigura sanzioni penali. Ideologie intolleranti? Saranno considerate «reati punibili come reati aggravati». In dettaglio: diffamazione e incitamento alla violenza contro gruppi, nonché «la palese approvazione di una ideologia totalitaria», e «l’approvazione pubblica o la negazione Tim Worstalldell’Olocausto», ma anche «di qualsiasi altro atto di genocidio la cui esistenza è stata determinata da una corte penale internazionale o da un tribunale».
La palese approvazione di una ideologia totalitaria sarà dunque un reato penale? E’ singolare, ironizza Worstall, che siano ancora a piede libero i deputati comunisti appena eletti nella Repubblica Ceca, dopo aver ottenuto il 17% dei voti. Non solo: «Ci sono anche alcuni deputati comunisti nel Parlamento Europeo: sarà interessante vedere se lo voteranno, questo documento». Una proposta di legge incredibile, indecente: «E’ uno dei pezzi più illiberali della legislazione che nessun regime totalitario di ogni tempo abbia mai proposto finora», accusa Worstall, «perché quello che realmente propone è che la libertà di parola di tutti sul continente europeo sarà limitata a ciò che alcuni benpensanti penseranno che sarà consentito come libertà di parola alla gente». Una sconcertante nota esplicativa si premura infatti di spiegare che «non vi è alcun bisogno di essere tolleranti con gli intolleranti», che potrebbero “abusare” della libertà di espressione. Questo accade nell’Unione Europea, nel 2013.

Potere massonico: Silvio e Giorgio, affinità e fratellanza?

«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».
Se di Berlusconi si ricorda l’iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli nel 1978, da cui poi proseguì «il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Berlusconi e NapolitanoArmando Corona dal 1982 al 1990», con accanto Marcello Dell’Utri – sempre secondo Magaldi – per tessere la rete di relazioni alla base di Forza Italia, per Pinotti e Santachiara è «molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano», come affermano nel loro libro, di cui “Affari Italiani” pubblica un’anticipazione. «È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un “fratello”». Dichiarazioni certamente insufficienti, ammettono i due giornalisti, intenzionati ad “approfondire” il tema con «un’autorevole fonte», che però «ha chiesto di rimanere anonima». Si tratta di «un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti». L’avvocato sarebbe «figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Secondo il legale, già il padre di Napolitano è stato «una delle figure più in vista della massoneria partenopea».
Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la “fratellanza”? «A rafforzare la connotazione “muratoria” dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica», scrivono Pinotti e Santachiara. «Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste». Certo, il legame massonico «rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce». Modalità che «è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale». Per molti aspetti, sostiene la “fonte” dei due reporter, «Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone», ed è stato il politico più decisivo nell’imporre in Europa sia il regime dell’euro che l’asfissia del rigore come “virtù” neoliberista, oggi simboleggiata dal tetto del Mitterrand3% deficit-Pil per la spesa pubblica. Un vincolo fatale, che sta mettendo in croce le democrazie europee e demolendo il nostro tessuto socio-economico.
Sempre secondo l’anonimo avvocato napoletano citato da Pinotti e Santachiara, la visione di Napolitano è identica a quella della “république” incarnata da Mitterrand, «un monarchico travestito da socialista» secondo un ex consulente dell’Eliseo come l’economista Alain Parguez, nemico giurato dell’euro-regime di Bruxelles. «L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi», continua “l’avvocato”. «Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto». La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso l’attuale presidente della Repubblica, sostengono i due autori del libro. «Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza». Il 10 maggio 2006, dopo la prima elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese», ed Gustavo Raffiesprimeva felicitazioni «a nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia».
Stesso entusiasmo nel marzo del 2010, per la rielezione di Napolitano al Quirinale, di fronte all’agonia del Parlamento tramortito dall’exploit di Grillo dopo la micidiale “cura dimagrante” affidata a Monti e Fornero. E il 13 giugno 2010, lo stesso Raffi si è spinto «sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata», nella trasmissione Rai “In mezz’ora”. Domanda: «Napolitano potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?». Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aggiungono Pinotti e Santachiara, si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».

domenica 8 dicembre 2013

AIDS: IL VIRUS DALLE UOVA D’ORO di Vittorio Agnoletto

“E’ italiano il primo vaccino terapeutico testato con successo su 20 bambini” così venerdì 29 novembre titolava uno dei maggiori quotidiani del nostro Paese, notizia subito rilanciata dai principali TG ma del tutto ignorata da qualunque mezzo d’informazione collocato oltre Chiasso, aldilà di Trieste e oltre Ventimiglia. Nel frattempo tra sms e telefonate rimbalzava sempre la stessa domanda: “ Ma hai visto? C’è il vaccino contro l’AIDS per i bambini”
L’illusione mediatica
Purtroppo la realtà è ben diversa, non c’è alcun vaccino, né per grandi né per bambini; per chi ha avuto la pazienza di scorrere tutto l’articolo, oltre il titolo, avrebbe potuto leggere: “ La nuova vaccinazione, abbinata alla terapia antiretrovirale, controlla potenzialmente la replicazione del virus” In sintesi: all’Ospedale Bambino Gesù di Roma hanno sperimentato una nuova terapia che associata agli antiretrovirali potrebbe controllare la replicazione del virus HIV. Si tratta quindi di una cura più efficace per bambini già infettati dal virus, nulla ha a che vedere con un vaccino che, come si sa, si somministra a persone sane affinché non si infettino quando eventualmente dovessero venire in contatto con l’agente infettivo. Il titolista del quotidiano potrebbe difendersi dicendo di aver scritto “vaccino terapeutico”, ma come spiega il prof. Robert Gallo nella prefazione a “AIDS Lo scandalo del vaccino italiano” ,(il libro che ho scritto con Carlo Gnetti e pubblicato con Feltrinelli) il termine vaccino terapeutico non andrebbe utilizzato “ in modo da evitare confusione con un vero vaccino che previene l’infezione”, a meno che si cerchi il sensazionalismo, la notizia ad effetto, destinata, in questo caso, a creare una pericolosa confusione. In concomitanza con il 1° dicembre, giornata mondiale di lotta contro l’AIDS, le più importanti riviste scientifiche internazionale hanno pubblicato diversi articoli che, passando in rassegna le principali sperimentazioni sui vaccini sinora avviate nel mondo, ribadiscono che ad oggi non c’è all’orizzonte alcun vaccino contro l’AIDS, per evitare l’infezione la prevenzione rimane l’unico strumento valido.
Il vaccino desaparecido
Il 28 novembre 2012 usciva il nostro libro inchiesta sul vaccino contro il virus HIV basato sulla proteina-TAT, un progetto diretto dalla dott.ssa Barbara Ensoli e finanziato dall’Istituto Superiore di Sanità; dalla nostra indagine, condotta tra medici, scienziati e politici emergeva una realtà segnata da paure, interessi economici, protezioni politiche, intrecci familiari e affari internazionali. Ad un anno di distanza tutto tace, nessuno ha risposto alle nostre domande, né i responsabili del progetto hanno rilasciato dichiarazioni in grado di spiegare ai cittadini italiani, che sono i finanziatori di questa ricerca, a che punto è quel progetto annunciato con grande enfasi oltre quindici anni fa, il 28 ottobre 1998 e celebrato dai media con titoli come : “AIDS funziona il vaccino italiano” “ Il mio vaccino batterà l’AIDS”; qualcuno arrivò persino a proporre il Nobel per la responsabile della ricerca. Io mi accontenterei più umilmente di sapere cosa stia accadendo in Sud Africa, dove dovevano svolgersi alcune fasi della ricerca, e che fine abbiano fatto i circa 30 milioni del ministero degli esteri, sottratti alla cooperazione per finanziare la sperimentazione e la costruzione in Sud Africa di un laboratorio che avrebbe dovuto analizzare i risultati della ricerca. L’impressione è che dopo anni di grandi e trionfalistici annunci, si cerchi di far perdere le tracce dell’intera vicenda, senza che nessuno debba spiegare l’uso fatto del denaro pubblico, né rispondere alle attese suscitate nell’opinione pubblica e tra le persone malate.
Big Pharma ringrazia
L’AIDS, nonostante sia scomparso dalle cronache, è tutt’altro che una realtà del passato: le persone viventi, infettate dal virus nel mondo sono 34 milioni, nel 2012 vi sono stati 2,5 milioni di nuovi contagi e 1,6 milioni di decessi. Le persone sieropositive viventi in Italia sono circa 160-180.000 di cui un terzo non sanno di esserlo e circa 60.000 sono in terapia; nel 2012 nel nostro Paese vi sono state 3.850 nuove infezioni soprattutto per via eterosessuale; sono coinvolte tutte le età con un picco tra i 30 e i 45 anni. Un anno di terapia ed esami di controllo può costare allo stato anche 6-7000 euro a persona, alcune regioni hanno già preannunciato che non riusciranno a lungo a garantire le terapie. Eppure ormai da diversi anni non c’è traccia di alcuna campagna di prevenzione, ministri ed assessori alla sanità si comportano come se l’AIDS sia stato definitivamente sconfitto. Le multinazionali del farmaco ringraziano commosse, possono continuare a contare per i prossimi decenni su decine di migliaia di “clienti italiani affezionati e fidelizzati” che per tutta la vita dipenderanno da loro e dal prezzo delle loro terapie, finché lo stato potrà pagarle.

PUBBLICO E PRIVATO di Antonio Recanatini


sabato 7 dicembre 2013

Piccola favola messicana

Una piccola (ma neppure troppo) favola messicana. O meglio, un umile tentativo di risposta alla domanda: perchè ha ancora senso essere comunisti nel XXI secolo?

Quello che qualcuno chiama “sogno”, “utopia”, “impossibile”, “bei desideri”, “delirio”, “pazzia”, qui, nella terra dello Yaqui, si è sentito con un altro tono, con un altro destino. E c’è un nome per questo di cui parliamo ed ascoltiamo in tante lingue, tempi e modi. C’è una parola che viene dall’origine stessa dell’umanità, e che segna e definisce le lotte degli uomini e delle donne di tutti gli angoli del pianeta. Questa parola è libertà.

(Subcomandante Marcos)


C’era una volta, tanto tempo fa, un ricco possidente terriero che viveva in una grossa hacienda da qualche parte del Messico. Non importa quale. A dire il vero, non importa neppure che sia davvero in Messico. Potrebbe essere nel Brasile, o nella Colombia, o fra le vaste steppe dell’Argentina. Potrebbe perfino essere in un paese mai esistito. Ma dato che, quando uno deve scrivere un racconto, la prima cosa che gli consigliano è di ambientarlo in un posto, così che il lettore possa in qualche modo localizzare lo svolgimento dei fatti e meglio immaginarsi la vicenda, possiamo benissimo fare sì che il nostro ricco possidente terriero abiti da qualche parte del Messico, e figurarci il caldo sole di quelle terre, il cielo terso e spietato, e un immenso latifondo coltivato dalle braccia robuste di decine di lavoranti, provati dall’arsura e dalla fatica, costretti dalla miseria a spremere sudore su quei campi in cambio di uno stipendio da fame.

Lavoravano per il padrone, ma al padrone non importava poi molto dei loro sforzi. Erano altre, le questioni che catturavano la sua attenzione. Forse ignorava addirittura esistesse un mondo al di fuori delle feste e dei ricchi pranzi, delle partite a poker con i notabili del vicino paese e delle passeggiate a cavallo. Amava il vino e le belle donne, la musica e il gioco d’azzardo, la poesia e il buon cibo. I suoi vestiti erano fatti di tessuti pregiati, e i mobili della sua grande dimora, fatti venire direttamente dall’Europa, erano creati per lui dai migliori artigiani italiani, spagnoli e francesi.

I suoi banchetti erano la più grande attrattiva della regione. Ufficiali dell’esercito, giudici, alcaldes, il governatore stesso, tutti attendevano con trepidazione una delle periodiche cene offerte dallo spirito generoso di Don Josè Fonseca.

Molti di queste erano ormai entrati nella leggenda, come quella in cui il governatore, ubriaco come un indio alla sua prima sbronza, era crollato al suolo iniziando a camminare a quattro zampe imitando con una tale perizia i grugniti dei maiali che tutti ne rimasero impressionati, o quella in cui Don Josè, il sottoprefetto e un colonnello della milizia avevano dato inizio ad una partita a poker che si sarebbe protratta per novanta giorni, tanta era la determinazione di tutti a non alzarsi sconfitti dal tavolo.

“Fare prima a finire una partita a poker da Don Josè” divenne un’espressione proverbiale nella zona, usata per sottolineare l’impossibilità di un’azione.

Ma non era solo il poker, abbiamo detto, l’unico vizio di Don Josè. Un’esteta, amava definirsi lui. “E’ stupido amare i soldi per sé stessi” ripeteva sempre a chi gli stava vicino. “Non sono altro che pezzi di carta anche sgradevoli al tatto, ma quante porte possono aprire! Sono loro, sono i segreti nascosti dietro quelle porte che mi interessa amare. Datemi bellezza, datemi intensità, datemi varietà di piaceri. Non chiedo altro. Che io possa sprofondare nella tomba sazio di quel che ho goduto”.

Non era un bell’uomo, ma non era neanche brutto, e la sua ricchezza e le sue capacità affabulatorie aumentavano il suo fascino. Ebbe molte donne. Tutte le amò, ma come si ama una fresca brezza mattutina che spira dal mare. Subito spirava l’intensità del suo sentimento, subito ne aveva noia, subito giungeva l’ora di nuove conquiste. Nessuna traccia lasciavano su di lui gli amori passati.
Poco o nulla l’interessava la gestione dell’hacienda. Che inutile spreco di tempo e di energie! Tutta la contabilità era affidata ad un suo uomo di fiducia, un uomo grigio, anonimo, un freddo burocrate assolutamente privo di fascino, ma bravo nel suo lavoro. E così l’hacienda prosperava.

Per Don Josè, invece, iniziò ad affacciarsi la stagione della vecchiaia. Sempre inaspettata essa giunge, come il primo temporale d’autunno che soppianta l’estate. Ben sapeva, Don Josè, di dover divenire vecchio pure lui, un giorno, solo che quel giorno era arrivato e lui non se ne era reso conto.

Tremenda fu per lui quella scoperta. Non l’atterriva tanto la vecchiezza del corpo, quanto quella dello spirito. Davvero sembrava che i suoi mille piaceri gli fossero giunti a noia. Passava sempre più con frenesia dall’uno all’altro, ma senza più ricavare lo stesso godimento di un tempo: neppure i banchetti, o le sue amate, interminabili partite a poker riuscivano a distoglierlo dalla sua noia. Si ridusse a un’ombra infelice, l’ombra del sé stesso che era un tempo.

“Dove sono le mille gioie del mondo?” si lamentava spesso con coloro che gli erano più vicini. “Son qui, son qui, le vedo, non sono cambiate oppure fuggite via, eppure non riesco più a goderne il sapore. Nulla ha più il gusto trepidante della scoperta. Ho conosciuto il mondo e adesso mi chiedo: è davvero tutto qui?”
La sua ricerca di nuove esperienze divenne sempre più frenetica. Ogni giorno escogitava un vizio nuovo, ma il suo fisico non era più quello di un ragazzino, e rimase travolto da tanta dissolutezza.

Una sera calda d’estate, di quelle in cui la calura attacca le vesti al corpo e il sudore imperla le fronti di tutti, Don Josè sedeva sotto al patio della sua residenza, le carte in mano, un ufficiale di Città del Messico trasferito lì da poco di fronte a lui, all’altro estremo del tavolo, e ai lati l’alcalde del paese e un cugino del fazendero in visita di cortesia.

Dopo aver bevuto un bicchiere di Porto versatogli da un servo, il volto di Don Josè divenne giallo, poi rosso, poi viola e poi verde, il ricco possidente prese ad ansimare, annaspando faticosamente alla ricerca di aria, scivolando dalla sedia e cercando di aggrapparsi al tavolo per non cadere a terra. Gli altri cercarono di soccorrerlo, ma era troppo tardi. Con un tonfo sordo, Don Josè crollò riverso sul pavimento, gli occhi sbarrati, le mani fredde.

Qualcuno ancora oggi racconta che le carte della sua mano, sparse sul tavolo, erano due assi e due otto, di fiori e di picche, e un nove di quadri. “Favolette da gringos” ribattono invece altri, più scettici.

Arresto cardiaco, sentenziò il medico. Omicidio, sentenziarono altri sottovoce. Si rincorrevano dicerie secondo le quali Don Josè era stato assassinato dal suo sovrintendente, l’uomo che teneva in piedi l’hacienda e la faceva prosperare mentre Don Josè si dedicava agli stravizi. Il sovrintendente infatti era l’erede designato del ricco e vecchio proprietario terriero, e temeva, secondo molti, che Don Josè sperperasse tutte le ricchezze nella sua follia senile, lasciandolo con un’hacienda indebitata in mezzo a un mare di guai. Così aveva versato del veleno nel Porto con la complicità di un servo e aveva evitato che accadesse l’irreparabile.

Nessuna prova concreta fu mai portata a sostegno di questa tesi, eppure la voce si radicò così profondamente nell’anima popolare che tanti, ancora oggi, sono pronti a giurare che le cose siano andate effettivamente così. D’altronde non spetta a noi decidere come morì Don Josè, e neppure ci importa particolarmente. Ciò che importa, invece, è che il suo sovrintendente, quell’uomo grigio, dedito al lavoro, spiritualmente mediocre, così distante dal fascino istrionico del suo vecchio padrone da parerne l’antitesi vivente, divenne il legittimo proprietario dell’hacienda.

Fu così che i banchetti, la più grande attrattiva della regione, finirono. E finirono anche le interminabili partite a poker. E per molto tempo non si ebbero più sbronze epiche del governatore da raccontare.

Il nuovo padrone di quelle terre si sposò con una figlia di un vecchio generale in pensione dell’esercito, una ragazza grigia e anonima quanto lui, e molto più giovane, e prese a svolgere lo stesso lavoro che aveva svolto prima della morte di Don Josè. Condurre una vita sobria e morigerata, libera dai vizi e dalle dicerie della gente, essere moralmente irreprensibile e fedele alla propria moglie, creare denaro al solo di scopo di creare denaro come se fosse una missione religiosa e allontanarsi dalle tentazioni che potessero distoglierlo da quel suo grandioso progetto sembravano essere le sue uniche attività nella vita.

Tutto ciò che non potevano il suo ascetismo e la sua dedizione, poteva la protezione del suocero, vecchio eroe della guerra cristera e ancora molto influente e rispettato negli ambienti giusti. Fu così che divenne uno dei più potenti hacienderos di tutta la regione, accrescendo di molto le proprietà già immense che erano state di Don Josè.

Eppure la gente non lo amava molto. Mai un pranzo organizzato, mai qualche parola scambiata che non fosse in più rispetto a quello che prevedevano le elementari norme di cortesia, mai una barzelletta raccontata da ubriaco nelle occasioni ufficiali. Denaro liquido sgorga nelle vene di quell’uomo, e un portafogli rigonfio batte al posto del suo cuore, diceva la gente. Sembra quasi un gringo.

Un bel giorno, più o meno un paio di anni dopo la morte di Don Josè, il sovrintendente, così continuavano a chiamarlo tutti, stava passeggiando per le sue terre. Pensieri confusi si rincorrevano per la sua mente, e probabilmente molti si sarebbero stupiti se avessero potuto guardargli nella testa e decifrarli. Anche quella sua apparente volontà incrollabile, infatti, aveva delle crepe. Che proprio in quel momento stavano rivendicando la loro presenza nella testa del sovrintendente.

Tutto appariva così spento e privo di significato. Tutta quella sua dedizione, tutta quella sua fatica, a cosa era servita in fondo? Fin da bambino gli avevano insegnato a rispettare i propri doveri, e da ragazzo gli avevano inculcato i dettami della fatica e del duro lavoro come unico modo per realizzare sé stessi e riuscire nella vita. Ora era un uomo ricco e influente, ora la sua hacienda cresceva, ora aveva fatto molta strada da quando era solo un giovane imberbe e indifeso nella giungla della vita. Eppure cosa poteva dire di avere in più rispetto a quando tutti lo educavano a quei precetti? Soldi e potere, certo. E la soddisfazione di poter dire di aver compiuto il proprio dovere. Lui nella vita era riuscito. Ma cosa era, in fondo, quel dovere che doveva compiere? Perchè era tanto necessario compierlo? Era stato un idolo a cui aveva sacrificato tutta la propria vita, eppure quell’idolo non pareva ricompensarlo. Doveva forse sentirsi soddisfatto, per averlo adorato. No, non lo era. Si sentiva solamente vuoto. Non capiva fino in fondo quel dovere, dopotutto, quella era l’unica grande verità. Quel dovera era fuori da lui, una convenzione alla quale si era assoggettato, convinto che fosse la cosa più giusta perché tutti gli dicevano così. Ma forse lui non ci aveva mai creduto fino in fondo. Non sapeva cosa fosse, se non un immane, imponente totem che con la sua ombra lo aveva guidato durante tutto il corso dell’esistenza. Un’ombra rassicurate e protettiva, certo, che gli impediva di perdersi e uscire di strada, ma che in fondo l’aveva soffocato. Aveva soldi, potere. E aveva compiuto il proprio dovere. Un dovere che non capiva. Che non sentiva parte di sé. Così noiosa era stata l’esistenza, sotto quell’ombra opprimente! Era questo lo scopo del raggiungimento del dovere? Una noia che ammantava ogni cosa? Davvero non capiva. Davvero sembrava mancargli qualcosa. Fare denaro dal denaro, e poi da quel denaro altro denaro, ecco tutto ciò che aveva.
 
Mentre era immerso in quei suoi pensieri, il sovrintendente andò quasi a sbattere contro un uomo dalle vesti sdrucite e dall’ampio cappello di paglia che vagava anch’egli per quelle terre. Era magro, e aveva i lineamenti tipici dei mezzi indios, e una parte del loro sangue doveva sicuramente scorrergli nelle vene. Un paio di intensi occhi neri brillava sopra un naso ben proporzionato e una cascata spiovente di folti baffi. Poteva avere sulla quarantina d’anni, o giù di lì. Sul momento lo scambiò per un suo lavorante. E chi poteva essere altrimenti, così conciato? Con quella pelle così grinzosa e scurita dal sole, con quel lezzo di sudore così intenso che i braccianti avevano dopo ore passate a lavorare la terra in quell’inferno bollente?

Eppure, non gli sembrava di averlo mai visto prima. Forse non riusciva a ricordarsi, si disse. I braccianti, in fondo, son tutti uguali fra loro.

Senor, siete per caso voi il padrone di queste terre?” si sentì all’improvviso chiedere il sovrintendente.

Questi alzò lo sguardo stupito. Quel bracciante doveva avere l’intenzione di prenderlo in giro. O forse davvero non era un suo bracciante, ma un tipo che non aveva mai visto prima. Ma allora cosa diavolo ci faceva lì?

“Si, sono io”, si limitò a rispondere il sovrintendente, trattenendo per un momento le sue perplessità in attesa di riuscire a capire qualcosa in più.

“Me lo stavo giusto chiedendo. Non avete l’aria del peon, infatti”.

Senza dubbio lo stava prendendo in giro. Gesù, certo che non aveva l’aria del peon, lui che era il padrone di quelle terre.

“No. No, non la ho. Non mi ci scambiano, infatti, di solito” rispose irritato. “E voi invece chi siete, senor?”

“Un semplice viandante” ribatté l’uomo con un sorriso.

“E cosa fate per le mie terre, è lecito saperlo?”

“Passavo di qui. Non sono mica recintate”.

No, in effetti non lo erano, pensò il sovrintendente. Ma nessuno passava mai per le vecchie terre di Don Josè Fonseca. Tutti, nella regione, sapevano dove iniziavano e tutti sapevano a chi appartenevano. Tranne quello strano uomo, evidentemente. Forse doveva venire da molto lontano.

“E dove andate, di preciso, senor, nel vostro cammino?”

“Da nessuna parte. Ve l’ho detto. Sono un viandante, non ho una meta precisa”.

“Vi avevo scambiato per uno dei miei peones”.

“Già, probabile. In fondo i peones sono tutti uguali agli occhi del padrone, non è vero? Tutti sudici, rubizzi, segnati dalla fatica. Voi invece vestite bene. Vi godete la vita”.

Madre de Dios, pensò il sovrintendente. Magari si godesse la vita. No, davvero non sapeva come fare a godersi la vita, lui. Ma non ribatté.

“Non vi rompete la schiena sotto il sole, voi, nossignore” continuò l’uomo. “Voi avete chi lavora per voi, e non dovete guadagnarvi il pane”.

“Lavorano per me perché queste terre sono mie” rispose il sovrintendente. Nessuno gli si era mai rivolto con quel tono impudente.

“Ma la terra è di tutti. O quantomeno, di chi la lavora”.

“Dite, senor, siete forse un comunista?” chiese il sovrintendente iniziandosi ad insospettire.

“Si. O un seguace di Marx, se preferite”.

“Marx?” Un’espressione dubbiosa apparve sul volto del sovrintendente. Poi ebbe la fugace visione di una faccia barbuta, dallo sguardo arcigno. “Oh, si, quel Marx”.

“Già, quel Marx”.

Madre de dios. Un tipo così barbuto. Quasi lo si direbbe al solo vederlo, che deve per forza essere una specie di Gesù Cristo di voi altri”.

“Noi altri? Noi altri chi?”

Il sovrintendente parve interdetto da quella domanda. “Beh, voi altri”. Gli sembrava talmente ovvio, il significato di quell’espressione, che non pensava avrebbe dovuto spiegarlo. “Voi” si limitò ad aggiungere, non trovando di meglio da dire.

“Noi che viviamo miseramente fra gli stenti, noi che passiamo l’intera giornata sotto il sole a lavorare i campi dei padroni, noi che patiamo il caldo e il freddo e la fame? I dimenticati della terra, i reietti da Dio, da tutti fuggiti tranne quando c’è bisogno di un po’ di manodopera da sfruttare? E’ questo forse che volevate intendere, con il vostro ‘voi’?”

“Quanto siete ricolmi di cattiveria e di rancore, voi comunisti. Dio ha stabilito che le cose funzionino così. Che ci sia chi comanda e chi obbedisce. Inutile farsi il cuore cattivo, tanto le cose non cambieranno, non in questo mondo, almeno. Perchè non accettare la vita così come è e farsene una ragione?”

“Facile dirlo, quando si è chi comanda. Eppure non abbiamo il cuore pieno di rancore come dite, no, tutt’altro. Lo abbiamo rigonfio di speranza e di amore, invece, ma questo voi non sembrate capirlo”.

Il sovrintendente inarcò un sopracciglio. Se gliel’avessero chiesto non avrebbe saputo dire perché, e forse neppure voleva ammetterlo a sé stesso, ma quel tizio lo incuriosiva, in qualche modo. Aveva un modo insolito di parlare.

“Speranza e amore? Che intendete dire?” chiese. Gli suonavano tanto come quelle parole che troppo spesso si trovavano sulla bocca dei preti, buone per ovviare alla mancanza d’ispirazione nella scrittura dei sermoni, e talmente abusate da aver perso ormai qualsiasi significato. Non andava spesso in Chiesa. Don Josè era un frequentatore più assiduo, ma lo faceva più per mettersi in mostra che per altro.

“Speranza” rispose l’uomo, come se la risposta a quella domanda fosse la cosa più ovvia del mondo. “Speranza per la vità che verrà. E amore per l’uomo, per l’uomo privato della sua dignità, marchiato come un animale e ridotto in catene. Amore per tutti gli oppressi della terra”.

“Non vi avevo mai visto sotto questa luce”. Gli sembrava davvero linguaggio da preti. D’altronde, si fermò a riflettere, non erano pochi i preti comunisti di cui lui aveva sentito parlare. Che lo fosse anche lui, pensò? Eppure tutto aveva, tranne che l’aspetto di un prete.

“Non potevate” rispose l’uomo alla constatazione del sovrintendente. “Siamo così incomprensibili, ai vostri occhi. Siamo uno spettro che si aggira per il mondo. Ci odiate e avete paura di noi perché siamo la vostra cattiva coscienza. E siamo forse ciò che nel profondo anche voi vorreste essere”.

“Le vostre parole diventano sempre più strane”.

“Le vostre menti sono così offuscate. Noi abbiamo qualcosa che voi non avete. Noi abbiamo una speranza, un motivo per cui lottare. Abbandoniamo ogni sicurezza, quella minima sicurezza che ci può fornire la nostra vita di stenti, per combattere per la nostra liberazione, la liberazione degli oppressi. Per amore dell’uomo. Una fede nell’uomo così scandalosa, per voi. Presi dal vostro accumulare ricchezze, avete dimenticato ogni altra cosa. La nostra passione è così antieconomica che costituisce davvero ai vostri occhi oggetto di scandalo e fonte di continue domande. Cosa ci muove? vi chiedete, sorpresi voi stessi dalla vostra incapacità di capire. Cosa muove noi strani spettri tanto lontani da voi? Qualcosa di molto semplice. Noi abbiamo fatto una scommessa”.

“Una scommessa?” chiese il sovrintendente incredulo.

“Già, una scommessa. Una scommessa che sembra illogica e irrazionale vista con i vostri metri di giudizio, che sono i metri di giudizio di chi conosce solo profitti e denaro da accumulare. La scommessa della possibilità dell’esistenza di un mondo nuovo e migliore, dove non esisterà più lo sfruttamento, o la guerra, o la miseria. Noi abbiamo scommesso su questa possibilità. E se anche ci fosse una sola probabilità su un milione che questa possa mai verificarsi un giorno, è una possibilità sulla quale conviene comunque scommettere, perché è un buon motivo per cui lottare e sacrificarsi. Cosa ci resterebbe altrimenti? La posta in gioco è incomparabile. A voi può sembrare un salto nel buio, ma voi siete così spaventati di volare. Non avete altro che il vostro mediocre interesse, e tanto vi basta, per vivere infelici e senza problemi.”

“Perché allora non scommettere nell’esistenza di Dio?” ribatté il sovrintendente. Avrebbe così capito se quell’uomo era una qualche strana sorta di prete pur non assomigliandoci oppure no. “Perché non scommettere nell’esistenza di un mondo migliore, si, ma eterno e posto nell’aldilà, dove tutti i problemi giungano ad una risoluzione? Non è forse quello in cui credono molti uomini da secoli? Credete in lui, credete nel Cristo, invece che nel vostro comunismo e nel vostro profeta barbuto. Portate i vostri sogni e le vostre speranze nell’aldilà. Non sono cose da questo mondo, queste. La realtà è una cosa seria, e non c’è posto per i sogni. Zapata e Pancho Villa sono rimasti stesi nella polvere ormai anni orsono, per non averlo capito. E tanti di voi faranno ancora quella stessa fine”.

L’uomo sorrise a quelle parole, ma era un sorriso triste. “Credere nella religione? Sarebbe molto più comodo per voi che comandate, vero? Credete in ciò che volete, è il vostro motto, basta che non ci intralciate la strada. Sognate di essere tutti liberi e uguali dopo la morte, ma non vi azzardate anche solo minimamente a farvi venire strane idee su questo mondo. Su questo mondo comandiamo noi, dite, e non vi è permesso farvi illusioni. Ma io non posso credere nel Paradiso ultraterreno di cui parlano i preti. Perché credere in qualcosa che non posso vedere e non posso controllare?”

“Perché non potete vedere neppure il vostro comunismo, ecco perché”.

“Ma posso combattere per esso. E so che possono combattere per esso anche altri uomini, uomini che conosco, fatti di carne e sangue, e in cui io ho fiducia. Uomini, non creature angeliche. Insieme possiamo lottare e far di tutto per rendere le nostre speranze e i nostri ideali realtà. Possiamo scrivere la nostra storia, distruggere i vecchi destini e costruirne di altri. Cosa ci resta da fare, invece, se scommettiamo sull’esistenza del Paradiso? Pregare e rispettare la morale cristiana, attendere piamente la morte, restar fermi ad aspettare una non meglio specificata volontà divina senza possibilità alcuna di vedere il nuovo mondo che si plasma davanti a noi come frutto dei nostri sforzi? I cristiani dicono che l’uomo è il figlio di Dio, la più degna di tutte le sue creature. E che una scintilla divina vive in lui. Ma per chi l’uomo ha più dignità, per il cristiano che gli nega ogni possibilità di costruirsi un destino o per il comunista che lo esalta e che nonostante tutto ha fiducia in lui, anche a costo di peccare di eccessivo ottimismo? E se poi l’uomo ha una scintilla divina, come possono i cristiani non fidarsi di questa? Così scarsa è la fiducia che ripongono nel loro Dio? Sempre dovremo rimanere bambini che affidano la propria esistenza ad un padrone onnipotente e incomprensibile, che sa cosa è più giusto per noi? Prendiamo in mano la storia, e osiamo, questo è il nostro motto. E di certo sappiamo vivere meglio di voi”.

“Un po’ presuntuosa come affermazione da parte vostra, mi perdonerete se ve lo dico”.

“Sarà forse presuntuosa, ma potreste forse negarlo? Potreste forse negare di essere profondamente insoddisfatto della vostra esistenza, come se qualcosa mancasse?”

No, non poteva negarlo. Ma non lo disse. Scrutò lo strano uomo in attesa che continuasse a parlare.

E lo strano uomo, da parte sua, continuò a parlare. Non attese una risposta alla sua domanda perchè sapeva che non ci sarebbe stata, ma allo stesso tempo sapeva quale era.

“Voi cercate la vostra felicità in voi stesso” disse. “Nella vostra capacità di riuscire, nel vostro lavoro e nella vostra dura fatica. Eppure, nel fare questo, sbagliate. Perchè pensate che voi bastiate a voi stesso. E così non è. Cos’è l’uomo, da solo? Nient’altro che una cieca marionetta sottoposta alla leggi della storia e al cieco destino. L’uomo non può contare solo su se stesso, come un saguaro che si erge imponente e solitario nel deserto. Voi nel vostro folle egoismo avete dimenticato questo. Il mondo è solo il vostro strumento, e da tutto e da tutti vi credete indipendente. Ma così non è. Non è e non può essere. L’uomo non può contare solo su stesso. E non può contare su un Dio che non esiste e che, anche se esistesse, non potrebbe salvarci. Solo la solidarietà fra simili rende l’uomo degno di questo nome, la comunanza fra oppressi, e solo capendo questo si afferra il vero significato dell’esistenza umana, quel significato da cui voi nel vostro splendido isolamento rimanete così lontano.

Io ho fiducia nell’uomo. E credo che l’uomo esista solo in quanto esistono i suoi simili, e solo in quanto con i suoi simili si pone in relazione. Non posso ritirarmi in cima ad un monte lontano da tutti a cercare l’illuminazione interiore e la salvezza fornita dal Dio dei cristiani. Una salvezza di quel genere non può che essere illusoria. Tutti ci salveremo, o nessuno. Ripongo la mia fede nella solidarietà umana per giungere a questa liberazione definitiva. E ora giudicatemi pure un folle, un sognatore, un pazzo che si getta da un dirupo senza sapere cosa troverà sotto, e poi tornate ai vostri calcoli sugli utili giornalieri. Se in questi trovate uno scopo di vita, se per loro pensate che valga la pena soffrire e morire, fatelo pure. Io non ho altro da dirvi”.

Il sovrintendente non comprese tutte quelle parole. Forse ne comprese qualcuna, tanto da cogliere il senso generale del discorso, ma non avrebbe saputo giurarlo con certezza. Comunque capì abbastanza per confermare la sua ipotesi. Quell’uomo era un tipo singolare, ma non era un prete. Davvero sembrava un peon, ma non parlava come uno di loro. Sembrava più istruito, eppure di certo doveva avere del sangue indio nelle vene. Lo osservò che se ne andava mentre strane sensazioni gli si agitavano in corpo.

Poi, all’improvviso, l’uomo si girò, e fece per riprendere a parlare. “In quanto a Zapata e Pancho Villa…” disse. “Lo avevano capito eccome, che la vita è una cosa seria. Lo avevano capito molto più di voi. Era tanto seria per loro che per essa sono morti”. Fece una pausa, e guardò il sovrintendente. Per un attimo i suoi occhi parvero brillare, o forse era solo il riflesso del sole. Da lontano giungeva attutito il rumore dei braccianti che dissodavano il terreno. “Hanno fatto la loro scelta e ne hanno pagato tutte le conseguenze. Fu un vecchio compagno di imprese a tradire Emiliano Zapata per cinquantamila pesos ed una promozione a generale. Come Giuda con Gesù Cristo. Una beffa, per chi aveva scommesso sulla solidarietà universale degli uomini, vero? Forse voi potreste considerarlo un fallimento, eppure io vi dico che nonostante questo Zapata aveva capito della vita molto più di quanto abbiate mai capito voi, con tutte le vostre ricchezze e con tutta la vostra indaffarata hacienda. Quale è infatti lo scopo dell’esistenza? Diventare umani o produrre di più? Rispondete, senor, se ci riuscite”.

E detto questo si voltò nuovamente e, senza alcuna parola di commiato, riprese il suo cammino. Il sovrintendente lo guardò allontanarsi e diventare sempre più piccolo all’orizzonte, fino a che la sua figura non si ridusse ad una piccola macchietta sotto l’immensità del cielo azzurro. Il sole picchiava caldo e crudele. Giungeva ancora alle orecchie il rumore attutito dei braccianti che dissodavano il terreno, monotono, sempre uguale a se stesso.